La storia è racconto attraverso i libri  

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

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         Il Memoriale di Don "Carlo" Domenico Orlandini

Ed. Del Noce Padova

Un eroe dimenticato, sconosciuto don Domenico Orlandini, nome di battaglia "Carlo": fondatore e comandante della brigata partigiana d'ispirazione cattolica "Fiamme Verdi': che operò sull'Appennino tosco-emiliano della provincia di Reggio Emilia. Agente dei servizi segreti inglesi, fu decorato con la "Victoria Cross", la più alta onorificenza di sua Maestà britannica, per aver, a più riprese, raccolto e fatto fuggire dai campi di prigionia italiani, 3700 prigionieri alleati, ai quali poi fece attraversare le linee del fronte fino a condurli ai comandi inglesi. Nei mesi che precedettero e seguirono la Liberazione nella provincia di Reggio Emilia, salvò dalle purghe rosse e dalla mannaia comunista innumerevoli cittadini di pregresse simpatie fasciste e tanti ultimi disperati combattenti della Repubblica sociale.
Fu il primo, con i suoi uomini, a entrare a Reggio Emilia liberata; ed infine, quando i partigiani garibaldini della pianura minacciarono di instaurare nella città la tanto agognata repubblica bolscevica, egli mandò a dire ai comandanti comunisti che sarebbe sceso dall'Appennino con i suoi reparti di Fiamme Verdi per difendere Reggio Emilia. E costoro, che conoscevano bene il suo coraggio e le sue qualità militari, decisero di fare sventolare la bandiera rossa in ben altra direzione. Non c'è male per un povero parroco di montagna, classe 1913, deceduto nel 1977 ...
Personaggio, a volte ostico, ingombrante, sempre in bilico tra tonaca e uniforme, amicone di tutti in tempo di pace, terribile in guerra, ma leale e generoso, sempre con un occhio agli uomini e uno a Dio; ma soprattutto teso, anche a rischio della sua, a salvare quante più vite gli era possibile, senza curarsi quale divisa indossassero. Dalla prefazione di Giancarlo Giannotti  (in blu i passi del libro o le note di Giannotti)

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La morte di Don Pasquino Borghi

Lo spettacolo di questa gente (prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia dopo l’8 settembre) affamata e coperta di cenci, terrorizzata dalla prospettiva di ricadere in mani tedesche o fasciste (non potevano neppure rendersi conto, questi fuggiaschi, di quanta parte delle nostre popolazioni fosse loro favorevole) maturò in me un proposito che già andavo accarezzando: quello di attraversare le linee, per allacciare contatti che ritenevo indispensabili, onde organizzare su più vasta scala la resistenza in montagna e concretare al tempo stesso con gli Alleati un piano per il ricupero dei prigionieri, che sapevo sparsi, sempre sul filo del rischio, sui nostri monti ed in altre zone dell'Appennino. L’Avv. Pellizzi e gli altri amici di Reggio approvarono pienamente il mio piano. Avevo allora in casa mia due Maggiori di S. M. dell'Armata sudafricana; parlai anche con loro del progetto ed essi mi fornirono una lettera di presentazione e raccomandazione per i Comandi Alleati. Prima di partire curai non solo di lasciare in buone mani l'eredità del lavoro iniziato ma anche di spargere la voce che sarei andato in pellegrinaggio ad Assisi e Loreto, per giustificare il mio viaggio. Il 4 ottobre, con il breviario sotto braccio (entro cui era celata la lettera commendatizia) e con una piccola valigia di tela, partii per la mia avventura, pieno d'entusiasmo e tranquillo sui compiti che per un po' dovevo tralasciare nel mio paese: avevo lasciato le consegne a Don Pasquino Borghi, parroco di Tapignola, cui s'affiancavano Don Fontana a Minozzo, Don Casotti a Febbio ed altri". Ritengo superfluo narrare i dettagli del viaggio, che mi portò, a piccole tappe, fino a pochi chilometri da Pescara....

Don Carlo raggiunge avventurosamente gli alleati a Sud, ritorna e riparte operando anche nelle Marche. Così il suo racconto di come apprende della morte di Don Borghi.

“Quelle poche centinaia di quintali di roba che ci mandarono dalla pianura erano un apporto insignificante per i nostri bisogni. Dobbiamo riconoscere che ci siamo alimentati ricorrendo alle risorse del luogo, risorse che abbiamo preso alle popolazioni purtroppo con una certa pressione....Strappavamo la vacca, strappavamo il vitello, strappavamo la pecora a della gente che era povera. E lo Stato non ha ottemperato, dopo la liberazione, al suo obbligo, che era quello di rimborsare profumatamente come poi fece per alcuni danni di guerra, anche se fasulli". da: Il Commissario "Davide" di Osvaldo Poppi

Il lunedì di Pasqua, 10 aprile 1944, partivo in bicicletta da Sassoferrato. Arrivai a Sassuolo, morto di stanchezza, nel primo pomeriggio del 12, giusto in tempo per prendere la corriera diretta a Quara. Lasciai la bicicletta a casa di don Virgilio Franzelli, col quale avevo avuto stretti contatti fin dal settembre. Salendo sulla corriera, per non destare sospetti, presi posto con indifferenza vicino ad un milite che andava in permesso e cominciai a chiacchierare con lui. La sua vicinanza mi salvò dal dover mostrare i documenti ad un posto di blocco sul ponte del Secchia a Cerredolo. Intanto durante la conversazione, venni ragguagliato su quanto era successo sul nostro Appennino: battaglia di Cerrè Sologno (di cui ero già informato), eccidio di Cervarolo e di Monchio. Mi disse anche della fucilazione di don Pasquino Borghi! Non diedi a vedere il dolore provocato dalla tremenda notizia. Colui che aveva condiviso con me le ansie del primo mese di speranza per la lotta, che mi aveva poi ottenuto dal Vescovo il beneplacito a proseguire nell'opera, cui infine avevo lasciato l'intera responsabilità spirituale degli elementi decisi a combattere era stato il nostro primo grande martire.
Era la tarda mattinata del 21 gennaio 1944. Don Borghi si stava recando a Villaminozzo per un corso di predicazione alle ragazze di A.c. ed ebbe ad incrociare una squadra di militi, che lo salutarono, essendo alcuni di essi suoi conoscenti o addirittura parrocchiani. Il sacerdote proseguì tranquillo, ben lontano dal supporre che loro destinazione fosse proprio la sua Canonica, a Tapignola, e che avessero ordine di compiervi una perquisizione. Nella Canonica si trovavano rifugiati alcuni ex prigionieri alleati, compreso un russo, nonché tale Olimpio Mercati (Pasquino). Questi però, per essere di origine montanara e figurando in quel momento come sagrestano, poteva giustificare la propria presenza nella casa parrocchiale. Fu infatti lui che, visti sopraggiungere i militi e sentendo che bussavano alla porta, si assunse l'ingrato compito di andare ad aprire, senza fretta, in modo che gli altri avessero il tempo di rifugiarsi in una stanza del piano superiore. Con notevole presenza di spirito, fece buona cera ai militi, anzi, sentite le loro intenzioni, si offrì di far loro strada; giunti che furono all'ingresso della famosa stanza, egli entrò con un balzo improvviso, richiudendo la porta in faccia ai perquisitori. Agli scomodi ospiti non restò che far uso delle poche armi in loro possesso, comprese alcune bombe a mano. I militi si ritirarono all'esterno e da qui fecero fuoco (il russo rimase ferito, sembra in modo non grave). Dopo breve sparatoria, i militi decisero di rientrare a Villaminozzo, ove giunsero trafelati a riferire l'accaduto. Di qui l'ordine di arresto per Don Pasquino, che sarà poi tradotto al carcere di Scandiano dopo essere stato malmenato; quindi alle carceri di Reggio dove verrà fucilato il 30 per rappresaglia seguita alla uccisione di un caposquadra della GNR avvenuta il 28 gennaio a Crocetta di Correggio.

Lieutenant-Colonel Vladimir Peniakoff DSO MC (Belgium 30 March 1897–15 May 1951), nicknamed "Popski", was the founder and commanding officer of "Popski's Private Army". In 1924 he emigrated to Egypt where he worked as Engineer for a sugar manufacturer.During this time he learned to drive through the desert, becoming a Fellow of the Royal Geographical Society. Vladimir Peniakoff was a polyglot who spoke English, Russian, Italian, German, French and Arabic well. He was commissioned as a second lieutenant on the British Army on 4 October 1940. After the German invasion of Belgium, he was finally accepted and offered a post as a staff officer - but he had set his mind to working in the desert. After struggling with the Army authorities for a while, he was finally allowed to join LRDG late in 1941 and form a more or less independent subsection called "No.1 Demolition Squadron", which was intended to assist LRDG on sabotage missions. Since this concept did not work out too well (LRDG's success was mainly attributed to stealth, and it was thought that blowing things up in a grand manner might give the enemy too many clues about the whereabouts of Patrols), Popski was authorized to form an independent strike force in March 1942, using Jeeps armed with Browning .30cal and .50cal machine guns. The unit's name, "Popski's Private Army", started out as a joke ("Popski", by the way, was the nickname given to Peniakoff by LRDG's radio operators who obviously had some trouble spelling and pronouncing his name), but since nobody could come up with a better name, it stuck. The unit subsequently operated in the Fezzan area, where Popski's main duty was to keep the Senussi tribes in line and keep them from foolishly starting a revolt (which would no doubt have caused a bloody Italian reprisal and would have filled LRDG's operational area with lots of Italian troops). His unit later worked its way up through Tunisia and served as an intelligence-gathering and surveillance unit behind German lines in Italy.Shortly after his best-selling book on Popski's Private Army was published he was diagnosed with a fatal brain tumour and died on 15 May 1951.

L'addestramento

1943- Don “Carlo” ha attraversato le linee al sud….Anche Il molto interesse per la sorte dei prigionieri ma non altrettanto per la Resistenza. Regnava allora fra gli Alleati, specie fra gli Inglesi, molta sfiducia sulla capacità e volontà degli Italiani. La delusione per l'esito dell'armistizio, che non aveva raggiunto lo sperato obiettivo di scombinare i piani strategici dell'esercito germanico, era ancora troppo bruciante. I litigi, le beghe tra ufficiali che avevano seguito il Re a Brindisi, erano poi oggetto di commenti, che rasentavano il disprezzo. Comunque fu detto in definitiva, se gli Italiani erano davvero decisi a battersi, non mancavano tedeschi e fascisti da disarmare. Solo in seguito se ne sarebbe riparlato. Non potevo arrendermi così e perorai le mie buone ragioni con disperato calore, difendendo quei soldati, fra i quali tanti ragazzi delle mie montagne, che non avevano opposto resistenza al colpo di mano tedesco solo perché le condizioni, in cui erano stati sorpresi, rendevano a priori inutile qualunque sacrificio. Ma fra gli Italiani, assicurai, molti erano disposti, come me, ad una dura lotta. In questa schermaglia oratoria l'unica consolazione era quella che, quanto meno, mi stavano ad ascoltare. Tutto si risolse con una specie di sfida: volevo dar prova del mio coraggio? Mi avrebbero messo subito alla prova. Non sapevo di cosa si trattasse, certo un' operazione molto rischiosa, ma non potevo più tirarmi indietro: si trattava di dimostrare qualcosa, non solo per me ma anche per tutti coloro che, lassù al nord, erano decisi a muoversi sulla sola promessa che qualche aiuto non sarebbe mancato; ero sicuro che quei ragazzi avrebbero saputo riabilitare il buon nome degli Italiani. Fui licenziato e un ufficiale mi accompagnò: era munito d'una busta contenente istruzioni, di cui sarei venuto a conoscenza solo all' ultimo momento. Mi trovai di nuovo a Termoli e qui fui messo in forza nella 14a Sezione della «A Force», reparto specializzato nel ricupero dei prigionieri alleati. L'indomani stesso fui scortato fino agli ultimi avamposti, oltre il Monte Cifone, e qui salutato da un «good bye». Ero solo, ora, in terra di nessuno con la lettera ancora sigillata in mano. L'aprii e lessi le istruzioni: dovevo rilevare, per un tratto d'una decina di chilometri di fronte e tre di profondità, lo schieramento avversario, segnando su una carta topografica militare la dislocazione dei mezzi corazzati, delle artiglierie, delle truppe, annotando anche ogni altro elemento d'interesse militare. Era il 16 ottobre (43).
Fino al 19 riuscii a sgusciare inosservato fra i vari capisaldi tedeschi, portando a buon punto il lavoro affidatomi, al quale mi ero dedicato con accanimento, a riprova che di italiani disposti a giocare la pelle ve ne erano ancora. Nel pomeriggio di quel giorno stavo iniziando la marcia di ritorno, quando mi imbattei in un vecchio, rimasto solo nella sua casa. Egli mi avverti che un certo numero di prigionieri evasi era nascosto in un bosco vicino. Li rintracciammo e proposi loro di unirsi a me per attraversare il fronte. Dopo qualche incertezza (potevo anche essere una spia dei tedeschi, per quanto ne sapevano) si convinsero. Fattosi buio, iniziammo il cammino. Durante il tragitto ci trovammo sotto un micidiale fuoco di artiglieria, che ci privò di un compagno, centrato da una granata. Poi, a poca distanza dalla base di partenza, quando credevamo di essere oramai al sicuro, accadde il peggio: ci imbattemmo nei tedeschi. Per salvare gli uomini, che venivano dietro di me, mi lanciai in avanti gridando la parola d'ordine. Fui catturato, caricato sopra un sidecar e accompagnato ad un vicino Comando di reggimento. La parola d'ordine pronunciata era la mia condanna: come la sapevo? chi me l'aveva rivelata? Ero una spia. Il tribunale di guerra fu presto costituito, un verbale venne stilato e firmato da quattro o cinque ufficiali presenti: di tutto capivo solo la parola Kaput. L'esecuzione doveva avvenire al bivio fra Palata e Tavenna. Ancora una volta, proprio al culmine del dramma, qualcosa mi fece sorridere: nel trambusto non ero stato neppure perquisito! Questo mi infuse una specie di consapevolezza che la mia opera non poteva finire il, che avrei consegnato i miei appunti ai destinatari. Mentre l'auto, condotta da un militare, s'avvicinava al punto fatale, l'ufficiale alla mia sinistra teneva la pistola puntata contro il mio fianco. La mia testa lavorava febbrilmente: colpirgli la mano e lanciarmi al tempo stesso dalla macchina sembrava l'unica, disperata possibilità. Invocai di nuovo l'aiuto della Madonna di Bismantova (a lato) e non avevo finito di farlo che l'ufficiale, cui forse la presenza dell'autista infondeva sicurezza, s'accinse ad accendere una sigaretta: per farlo dovette tenere un attimo la pistola fra le ginocchia; quanto bastava perché mi lanciassi dalla macchina in corsa. Caddi oltre il ciglio della strada, rotolai per un dirupo. Inutilmente gli spari echeggiarono alle mie spalle ed i proiettili sibilarono per l'aria. Verso le nove di mattina entravo trionfante al Comando di Divisione, che da Termoli s'era trasferito a Guglionesi. Lascio immaginare il coro che mi accolse e come venni subissato di domande: stavano proprio compiangendo la mia sorte, dopo che i prigionieri, riusciti a mettersi in salvo grazie al mio gesto, avevano raccontato della mia cattura e davano per scontata la mia fucilazione. Il colonnello «Popskj» (bio a sx) riunì subito i volontari scatenati del suo reparto privato. Partì come un razzo e tornò dopo qualche ora, riferendo che mi aveva «vendicato»: le sue vendette sottintendevano massacri di tedeschi. L'indomani nuova partenza per Bari, accompagnato da un encomio e dalla certezza d'aver conquistato un po' di stima. Al Comando dell'VIII Armata venni accolto da cordiali «0- key». Fui pregato anzitutto di stilare un piano di ricupero dei prigionieri, il che terminai in breve, ottenendo il consenso del Comando, garantito anche dall'appoggio di mezzi aerei e della Marina: la cosa fu presa tanto sul serio che dovetti sottopormi a due corsi accelerati di paracadutismo e di sbarco, esperienze che mi tornarono assai utili in seguito. Scelsi «Carlo Coletta» quale mio nome di copertura.

   

... I lanci a Gova ripresero copiosi. Il materiale, controllato e catalogato, veniva dal magg. Johnston diviso fra le varie Brigate in proporzione degli effettivi di ciascuna. In mezzo ai garibaldini cominciò a serpeggiare la voce che noi godessimo di un trattamento di preferenza, perché eravamo tutti in divisa, mentre molti di loro erano ancora in abiti borghesi. Ma in realtà mentre loro all'atto dello sbandamento avevano scambiato le divise con abiti civili da contadino, noi avevamo mantenuto le nostre armi e le nostre divise. In più non essendoci sbandati avevamo avuto a Poiano un lancio tutto per noi. E ancora: molte delle armi che venivano loro consegnate i garibaldini le avviavano alle loro squadre in pianura. Un giorno feci arrestare alcuni garibaldini della formazione di «Vincenzo» sorpresi a sottrarre materiali sul campo di lancio. «Vincenzo» mi mandò un ultimatum: o liberavo i prigionieri o mi avrebbe attaccato con la sua formazione. Gli risposi che lo attendevo a piè fermo. «Monti» saputa la cosa si precipitò a Gova per chiedere la liberazione. Gli risposi che qualora Vincenzo avesse ritirate le sue minacce e chiesto scusa gli avrei reso gli uomini: venni soddisfatto e gli rilasciai i partigiani. A Gova frattanto oltre al magg. Johnston era venuto anche il Col. Davis della missione modenese, perché non si sentiva troppo tranquillo in mezzo a quelle formazioni. Le uccisioni indiscriminate che venivano ad opera delle formazioni garibaldine modenesi, attribuite al carattere violento e crudele del Commissario generale «Davide», indussero il Col. Davis a convocare questi presso la sua sede. L'incontro fu drammatico. Ero presente anch'io con il magg. Johnston. Come conclusione il Col. Davis (a lato sotto) mise «Davide» Poppi (un fratello prete) di fronte a questo dilemma: o lasciare le formazioni e passava il fronte o lo avrebbe dichiarato criminale di guerra. «Davide» scelse la prima soluzione, anche se temporeggiò alquanto con la scusa della impraticabilità delle piste a causa della neve". Verso Natale anche Johnston passò il fronte e venne sostituito dal Cap. Lees" il quale venne subito da me e mi riferì che il Col. Wilcockson, dirigente di tutte le missioni di collegamento - la sua sede era a Fiesole - gli aveva detto di appoggiarsi a me e di mantenere la sua missione nella zona delle mie formazioni.
   

da sx Nardi "capitano", Poppi "Davide", Torquato Bignami "Nino"

7 luglio 1944 Repubblica di Montefiorino
Viene creato il corpo d'armata Centro-Emilia da cui dipendono le formazioni partigiane della montagna modenese e reggiana. Territorio presidiato da tali formazioni, quello dei comuni modenesi di Prignano, Polinago, Frassinoro e Montefiorino nel modenese e quello dei comuni reggiani di Toano, Villa Minozzo e Ligonchio. Dal comando suddetto, dipendono anche le formazioni reggiane dislocate nel territorio di Ramiseto e Vetto. Dirigenti del nuovo organismo unificato sono: Mario Ricci (Armando) Comandante; Didimo Ferrari (Eros) Commissario; Riccardo Cocconi (Miro) Vice Comandante; Osvaldo Poppi (Davide) Vice Commissario; Cap. Mario Nardi Capo di stato maggiore.
Maj. Rossetti definiva personalmente il Ricci: crudele, spietato, violento, dittatore, despota e arbitro della vita e della morte delle genti, attribuendogli numerose uccisioni di civili e militari della R.S.I. e tedeschi, da lui eliminati personalmente o per interposta persona e poi fatti passare come caduti in azioni di fuoco o per rappresaglie tedesche, "giustiziati" mentre "tentavano la fuga" e con il Ricci venivano denunciati i suoi fidati aiutanti "Ercole" e "Davide", che egualmente derubarono e depredarono la popolazione senza pietà. Criticata anche la sua pretesa combattività giudicata pura millanteria, e, per finire: incompetente come comandante militare, interessato più ai suoi beni personali che alla conduzione della guerriglia, dotato di grande scaltrezza, istintivo buon senso, immediata valutazione dei fatti contingenti. "Armando" e i suoi aiutanti avevano potere di vita e di morte sui loro uomini ed abusavano per ambizione e interessi personali di tale potere. (Cfr. Petracchi - op.cit).
http://www.mauricebignami.it/eguali/Torquato.html  Bignami:una vita travagliata LA "FUGA" D'ARMANDO (ottobre 1944)

dal sito ANPI -  LA VITA DI POPPI

Osvaldo Poppi: Nato a Reggio Emilia il 13 marzo 1908, ivi deceduto nell'aprile del 1980, proprietario terriero. Compresa la realtà sociale delle campagne reggiane, Poppi che era ufficiale della Milizia fascista e che dal 1932 era segretario del Fascio di San Bartolomeo (RE), nel 1936 entrò nella organizzazione comunista clandestina. Arrestato nel 1939, per il suo impegno antifascista è condannato a vent'anni di carcere. Dopo tre anni e mezzo di detenzione, evade e si rifugia in Svizzera. Il 3 agosto 1943 rientra clandestinamente a Reggio Emilia e, col nome di battaglia di "Davide", dopo l'armistizio è designato responsabile militare per la zona montana. Assolve all'incarico sino a che Giuseppe Alberganti non decide il suo trasferimento a Modena, come responsabile dei GAP locali. Ferito alla gola durante un'azione a Pieve Trebbio (MO), nell'aprile del 1944 "Davide" riesce a raggiungere le formazioni partigiane sull'Appennino modenese e, come commissario politico di Mario Ricci "ARMANDO", le ricompatta e le riorganizza; getta anche le basi di quella che diverrà la repubblica partigiana di Montefiorino. Nell'autunno del 1944 "Davide",  per superare problemi sorti con i partigiani delle "Brigate Italia", decide di attraversare le linee e di portarsi a Roma. All'indomani della Liberazione è chiamato a Milano, quale membro del comitato economico del CLNAI. Allo scioglimento di tale organismo, torna nella sua Reggio e abbandona la politica attiva.

Ermanno Gorrieri la Repubblica di Montefiorino (vedi a pagina 17 di questo sito)- ... La zona, a 1300 metri di altitudine, è impervia e quasi disabitata e la situazione si fece difficile per i partigiani. Così la descrive lo stesso Armando in un articolo: «La situazione era diventata abbastanza critica non solo per il clima rigido, ma soprattutto perché non avevamo un solo chicco di grano, né altri generi alimentari. Sostammo così in quella zona per 6-7 giorni nutrendoci di castagne bollite e di carne - quando se ne trovava - senza sale. Fummo costretti a nutrirci di carne di mulo, ma anche quella fini, Inoltre i partigiani portavano ancora gli indumenti estivi, cioè i pantaloncini corti, senza giacche, senza coperte: una situazione grave che incideva sul morale degli uomini. Si tenga conto che i partigiani erano circa 1500, e ci trovavamo in una zona pressoché disabitata, sprovvista di tutto » . A questo punto Armando e i suoi uomini si trovarono di fronte ad una difficile scelta: tentare di rientrare nella zona partigiana modenese, seguendo gli itinerari, battuti nel passato, di Ospitale-Fellicarolo-Passo del Lupo oppure di Trentine Rocchetta-Monte Penna, orientandosi eventualmente a passare temporaneamente ad ovest della via Giardini, con l'incognita della possibile presenza di truppe tedesche; oppure indirizzarsi verso l'Appennino bolognese-pistoiese, cioè verso le linee alleate. Scelsero la seconda soluzione. Da quel momento Armando scomparve dalla scena partigiana modenese. (si inseriranno nei reparti della V armata Usa in Garfagnana assieme a G.L e Matteotti)....È un fatto però che Armando era il Comandante della Divisione, e non della sola Brigata «Gramsci »; il grosso delle forze della Divisione non aveva abbandonato il teatro della guerra partigiana: molti pensavano che, per lo meno, FIAMME VERDIArmando, sistemata la 64a Brigata oltre il fronte, avrebbe dovuto ripassare le linee per riprendere il suo posto di Comando. Inoltre, al momento di dirigersi verso la zona del fronte, egli non si era preoccupato di informare delle proprie intenzioni chi rimaneva in territorio partigiano: evidentemente la drammatica situazione in cui si trovava glielo aveva impedito. Ciò provocò una ridda di ipotesi e di notizie contraddittorie sulla sua sorte, per cui il Comando della Divisione e lo stesso CUMER rimasero a lungo nell'incertezza (smentirono il fatto parlando di propaganda ingiuriosa, provocatoria e diffamatoria) e non poterono provvedere tempestivamente a riorganizzare le forze per la sperata discesa verso Bologna. Infine, poiché alcune delle sue formazioni non lo avevano seguito nello sconfinamento, si determinò, nella Valle del Panaro, una situazione caotica, caratterizzata dalla presenza di gruppi vari e di partigiani isolati, più o meno sbandati, privi di ordini e di direttive. A fine ottobre lo stesso Armando poneva fine alle dicerie ed assicurava di essere oltre il fronte come già si diceva fra le bande. I comandi diramarono l'ordine di esaltare la figura di Armando ma non di seguirne l'esempio.

Davies. La riunione di Gova ebbe luogo a fine novembre (44). Presenti: Davide (Poppi), Secondo (Luigi Benedetti), Wainer (Severino Sabbatini), Lino (Paganelli), Claudio (Gorrieri) e Gianfranco (G. E Ferrari). Con la nuova direzione delle formazioni partigiane modenesi, stabilita a Civago nei primi giorni di dicembre di quel 1944, Davide non ebbe alcun incarico. Egli dice «ebbi la sensazione che di me diffidasse anche il PC ... » e decise di andarsene. (Gorrieri, o.c. pag. 511, O. Poppi, o.c. pag. 112). Dal memoriale di Don “Carlo”. Sono i primi di gennaio. Don Poppi (fratello di Osvaldo “Davide”), mio fratello Giulio ed alcuni altri avevano raggiunto Civago per passare le linee: vi rimasero bloccati in una capanna per vari giorni. Mentre mio fratello era inviato presso il Col. Wilcockson, don Poppi andava per intercedere per suo fratello affinché venisse dimesso dal campo di concentramento (!!!).

Nota del curatore del libro-La missione di don Orlando Poppi era un' altra. Doveva portare due lettere di P. Marconi a De Gasperi e riportarne la risposta. Del resto in quei giorni Davide non aveva ancora passato il fronte. Gli Alleati comunque fermavano e chiudevano in campo di concentramento, in attesa di accertamenti sui motivi del passo, chiunque avesse passato le linee, salvo avessero chiare credenziali degli scopi della loro missione. La formazione «Armando» fece la stessa esperienza per qualche tempo.  

«Modena»: ten. russo Victor Pigorov, fuggito dal campo di concentramento fu pure ospite della famiglia Cervi, poi di don Borghi a Tapignola, ove si trovava quando avvenne lo scontro con la pattuglia fascista andata per arrestare il prete (che finì ucciso). Riuscì a circondarsi di un gruppo di ex prigionieri russi, e seguì «Sintoni» nella zona della Val d'Enza, operando con la 32' Brig. Garibaldi. Avuti altri 30 russi, provenienti dal parmense, il gruppo raggiunse 70 unità e fu costituito in Battaglione. Nei primi di marzo 1945 si porta a Minozzo e prende contatto con «Carlo», che lo mette a disposizione di Mc. Guinty (cap.no Farron, capo di un «Commando» inglese calato sul nostro Appennino). A fine mese assumerà la denominazione di «Compagnia Russi» nel Btg. Alleato. (Franzini, o.c. pag. 610).

Il commissario..“Eros”..

.. questi non sapeva rassegnarsi all'idea che io non volessi i Commissari politici nelle mie formazioni: voleva farmi ingoiare il rospo. Per raggiungere lo scopo non aveva esitato a ricorrere al ricatto nei confronti di Marconi. Questi si batteva strenuamente per salvare dalla fucilazione una persona, che per ragioni umanitarie meritava la più grande compassione. «Eros» mise come condizione che Marconi mi convincesse ad accettare il Commissario politico almeno presso il mio Comando. Era stato scelto un certo «Formica» (Davide Valeriani), studente universitario e, a detta di Marconi, buon ragazzo, che non avrebbe creato noie. Di fronte a tale ignobile ricatto, non potei che cedere, riservandomi ovviamente di valutare l'elemento e, nel caso, di prendere i miei provvedimenti.
Giunse Formica che mi diede subito un'impressione poco gradita. Evitava la mia vicinanza come quella degli altri del Comando. Quasi ogni giorno andava presso i distaccamenti, perché, diceva, voleva fare la conoscenza degli uomini. Qualificandosi come membro del Comando delle «Fiamme Verdi» era benevolmente accetto, tra l'altro nella ospitalissima Canonica di Minozzo, ove si fermava volentieri a mangiare e dormire. Quivi lo aveva sorpreso il rastrellamento invernale ed egli, anziché cercare di ricongiungersi con noi, si era rapidamente accodato ai garibaldini, dimenticando persino la sua cartella con molti documenti. Al mio arrivo a Minozzo la cartella mi venne consegnata e non potei esimermi dall' esaminarne il contenuto. Fra l'altro vi era una relazione destinata ad «Eros», Il Formica riferiva che, in base alle istruzioni avute, si era dato molto da fare per fondare cellule nei miei distaccamenti, ma vi aveva trovato un ambiente così refrattario che i suoi sforzi erano riusciti pressoché nulli. Verso il 20 di gennaio, dopo il ritorno a Febbio del c.u., ritornò anche «Formica». Non gli dissi nulla, ma lo pregai di andare a Febbio, per consegnare ad «Eros» un mio plico sigillato. In esso, oltre alla relazione, avevo. messo una lettera di accompagnamento di questo tenore: «Caro Eros, dalla allegata relazione potrai renderti conto della inutilità di sciupare le indubbie doti di Formica fra le mie formazioni, ove non ammetto la politica di nessuno partito, meno che meno di quello comunista. Perciò te lo rimando, perché tu possa utilizzarlo altrove con maggior profitto. f.to Carlo». Non vidi più «Formica».
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Il Russo… a raggiungere le nostre forze era giunto in marzo anche un russo, certo “Modena" con un distaccamento composto in prevalenza di russi sfuggiti ai tedeschi. Anche lui era fuggito sin dall'autunno del '43 e aveva trovato rifugio presso don Borghi. Aveva partecipato alle prime battaglie, compresa quella di Cerrè Sologno. Aveva poi ripiegato nel ramisetano, ove «Sintoni» lo aveva usato nel terrorizzare la popolazione e nella messa in atto di saccheggi e soppressioni. Stanco del ruolo che gli si faceva recitare si era staccato da «Sintoni» ed era venuto da noi. Disponeva di un gruppo di uomini veramente coraggiosi. Pure in marzo venne lanciata in zona una trentina di soldati inglesi, un vero «commando» di uomini che non conoscevano paura, comandati dal Col. Mac Guinty. Appoggiato a questo fu costituito un gruppo di volontari, chiamato «Gufo Nero», costituito da partigiani italiani in prevalenza della pianura. «Barbanera» dr. Annibale Alpi, lasciò la carica di Intendente generale e dette vita ad una formazione indipendente chiamata «Battaglione Alleato», costituito da inglesi, russi e italiani, suddivisi in compagnie. Il commando inglese e il Gufo nero si misero di prepotenza all'onore della cronaca col fulmineo attacco al comando tedesco di Villa Rossi ad Albinea ( (Botteghe 25 marzo 1945)

dal sito Anpi  

Don Domenico Orlandini - Nato nel 1913, deceduto a Pianzano di Carpineti (Reggio E.) il 18 ottobre 1977 è stato uno dei pochi sacerdoti cattolici che, ignorando le regole canoniche, abbiano impugnato le armi contro i nazifascisti. Non a caso era amico di don  Borghi, MOVM. Don Domenico era parroco a Poiano di Villa Minozzo (RE) quando, dopo l'armistizio, in contatto con i Servizi segreti inglesi, si adoprò nel salvataggio di moltissimi prigionieri di guerra alleati. Nella primavera del 1944,  paracadutato sull'Appennino reggiano, organizzò i collegamenti tra partigiani e Alleati. Nel mese di giugno "Carlo", partecipò ai combattimenti che, il giorno 8, portarono alla liberazione di Ligonchio, alla creazione della "repubblica di Montefiorino" e poi all'amministrazione della "Zona libera", nella quale "Carlo" operò come intendente delle  formazioni partigiane reggiane. Dalla fine di agosto don Orlandini tentò di rimarcare la distanza ideologica tra i suoi partigiani ("Battaglione Fiamme Verdi"), e quelli delle "Garibaldi", ma lo stesso CLN fece confluire nelle "Fiamme Verdi" (che divennero così 284ma Brigata Fiamme Verdi), forti contingenti di combattenti, senza discriminazioni partitiche. Gli uomini di "Carlo" si distinsero soprattutto nei combattimenti di monte Prampa (10/01/1945), Costabona (15/01/1945) e nella battaglia di Ca' Marastoni (01/04/1945). Dopo la Liberazione, don Orlandini fu decorato dagli inglesi con la "Victoria Cross".

La Victoria Cross è la più alta onorificenza militare inglese assegnata per il valore "di fronte al nemico" ai membri delle forze armate. Questa decorazione ha la precedenza su ogni altro ordine, decorazione e medaglia. Può essere assegnata ad una persona di qualunque grado militare in qualunque servizio e ai civili sotto comando militare inglese.

Nelle immagini e nel racconto gli uomini di Don "Carlo" vestono divise inglesi che gli altri partigiani pur avendo ricevuto hanno gettato nell'autunno del 1944 per mettersi in salvo dai rastrellamenti tedeschi. A rafforzare l'uso della divisa (in guerra chi viene catturato in abiti civili e armato viene passato immediatamente per le armi) venne il decreto del Gennaio 1945 (ed anche uno successivo secondo alcuni autori di cui non trovo traccia e che equiparerebbe tutti i partigiani in questo senso). "Don Carlo" che tanto si era prodigato per portare in salvo i prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia dopo l'8 settembre capì per primo l'importanza del collegamento con inglesi e americani: paesi campioni di democrazia politica e parlamentare, oltre che liberatori. Fu infatti agente dei servizi segreti inglesi ed ottenne dal Ministro Casati del ricostituito governo democratico italiano il riconoscimento - sin dal 30 gennaio '45 - della sua brigata come Regio Esercito Italiano, con la denominazione "Battaglione Fiamme Verdi del Cusna".

 

Nota 23 al memoriale) Doveva essere ai primi di febbraio 1945. Il Decreto Casati porta la data del 20.1.45, ma arrivò alla Brigata nella prima decade di febbraio. Fu inviata copia conforme per conoscenza al Comando Unico il 26.2.45. Monti ne fu contrariato, perché non era stato messo al corrente della missione di cui era investita la Delegazione partita il 24 dico '44. Più contrariato fu Eros, perché nell' elencare i gradi del Comando della Brigata FF.W. non si parlava di «commissario». (Franzini, O.C. pag. 573). Nonostante si debba ammettere che fu un atto di indisciplina verso il CUMR e i Comandi superiori, si deve riconoscere che fu un successo per «Carlo». Veniva riconosciuta la sua «linea» sulla organizzazione partigiana, che si inquadrava nella tradizione dell'Esercito, il quale è al servizio e a difesa della Patria e della sua libertà ma non entra in questioni politiche di parte. Fu inoltre un altro successo, perché spinse le Formazioni garibaldine a regolarizzare la loro posizione e condotta. Una «Circolare» del Ministero per l'Italia Occupata del 18 marzo 1945 a firma del Ministro Scoccimarro, diretta al Comando Unico Montagna Reggiana (CUMR)- nota che non fu diretta anche agli altri Comandi delle province emiliane - consiglia di uniformare le varie «Formazioni partigiane** ... «con l'abbandono di ogni denominazione particolare (Garibaldini, Fiamme Verdi, Giustizia e Libertà, ecc.) ... e come sia necessario fare sparire ogni superflua differenziazione, distribuire le forze e costituire comandi con l'unico criterio della efficienza militare ... » perché questo «è un passo decisivo verso la meta che ci proponiamo ...


« Molta rabbia si era accumulata negli animi. Era impossibile che non esplodesse dopo il 25 aprile. Violenza chiama violenza. I delitti che hanno colpito i fascisti dopo la Liberazione, anche se in parte furono atti di giustizia sommaria, non sono giustificabili, ma sono comunque spiegabili con ciò che era avvenuto prima e con il clima infuocato dell'epoca. I fascisti non hanno titolo per fare le vittime» (Ermanno Gorrieri)

 

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