La storia è racconto attraverso i libri 

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

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Edizioni Thyrus Arrone Terni 1991

IL LABIRINTO DI GHIACCIO

di  GINO PAPULI

dalla prefazione di Giulio Bedeschi: Ho letto con intensa attenzione le pagine di Gino Papuli, che senza dubbio mettono in luce una vicenda finora conosciuta solo per sommi capi e citata pii che altro per accenni, credo proprio per la ragione che l’Autore indica nel breve commento che conclude la «nota storica». Ancora una volta resta dimostrato come la faziosità condizioni la Storia, privandola di informazioni sostanziali e rendendola deliberatamente monca nel suo formarsi, con le conseguenze conclusive di cui tutti soffriamo.
La rievocazione di Papuli, precisa, ponderata misurata tanto da voler essere in molte circostanze quasi distaccata per un suo scrupolo di obbiettività che bene si nota nelle sue parole ha l’efficacia che viene dall’avvertire, nel leggere, che l’Autore non si è mai discostato dalla realtà e verità dei fatti; e pertanto il suo scritto rappresenta un documento che non deve andare disperso. La scrittura è scorrevole, esatta, godibile, con alcune venature dalle quali spesso traspare una commozione che l’Autore, per una sorta di pudore e di rigore, si sforza di contenere. Quindi un testo vivo, penetrante, del tutto aderente alla drammaticità del soggetto trattato; e degno, degnissimo di essere conosciuto e diffuso.

Gino Papuli

 

Ingegnere e giornalista.
Oltre alla sua attività di dirigente di industria svolta presso le Acciaierie di Terni e nel Gruppo FIAT, ha iniziato sin da giovane ad affermarsi come giornalista scientifico e come esperto di archeologia industriale e di storia della tecnologia. Scrive per il quotidiano «La Stampa» e collabora a riviste ed emissioni radio-televisive. Tra i suoi libri: «I colori del ferro», «Il grande Maglio di Terni», «Operaio ignoto» (poesie), «La divulgazione della scienza». Assertore della necessità di una stretta coesistenza tra la cultura tecnologica e quella umanistica, è stato tra i più attivi collaboratori di Leonardo Sinisgalli in «Civiltà delle macchine». Nel 1985 ha ricevuto il «Premio Glaxo
» per la divulgazione scientifica.


IL LABIRINTO DI GHIACCIO

L’argomento riguarda l’anabasi di un gruppo di uomini coinvolti nella disfatta del «fronte russo», nell’inverno 1942-43. Dal punto di vista storico, il racconto si riferisce alle vicende della «Colonna Carloni»: una formazione «spontanea» nata dall’unione di reparti di varia provenienza i quali, nel caos della ritirata, riuscirono a svolgere una funzione di retroguardia in favore della enorme colonna di uomini in rotta nel settore sud. Sfuggita fortunosamente all’accerchiamento nemico, la «Colonna Carloni» venne impiegata, ultima formazione italiana combattente, sul fronte orientale nella difesa del Nipro (Dnieper)
Poiché le vicissitudini d itale formazione sono state taciute dalla storiografia ufficiale e trascurate dai memorialisti (vedi in calce), Il labirinto di ghiaccio si propone di colmare questa lacuna attraverso una narrazione scarna ed efficace nella quale i veri protagonisti sono «gli eventi» nella loro ineluttabile crudezza.

Nota del sito: Atene e Sparta "o con questo o su questo"

Il "distacco", come direbbe Bedeschi, del racconto di Papuli, il suo non immedesimarsi nella tragedia generale, ci riconduce ad un atteggiamento ricorrente della classe degli Ufficiali, spesso confusa con la mancanza d'animo. Ieri come oggi la responsabilità di chi guida e comanda abbisogna a volte anche di questo. Le paure del capo si trasmettono moltiplicate per cento ai sottoposti. Tipico è il caso del momento in cui gli ufficiali si strappano i gradi per non subire sorte diversa dagli altri e questi altri capiscono che ormai è finita. E' la macchina bellica, le sue scale gerarchiche, le sue aspettative storiche e politiche. Il suo racconto asettico di morti e congelati si scioglie alfine nelle pagine centrali quando, appiedato anche per poco è costretto a subire il conflitto e a rivalutare l'opinione dell'altro, del codardo amico e del nemico: quel conflitto rappresentante per noi la "crociata contro il male" per il nemico è la "guerra patriottica" di difesa. Due categorie "inconciliabili" riscattate con le ultime parole del libro ... questo lunghissimo silenzio (lettere da casa) ci pesa come una condanna per una colpa non commessa. Solo la quasi certezza dell'imminente rimpatrio ci da conforto e rassegnazione. Al tempo stesso la nostra mente cerca di immaginare la situazione in Italia, le condizioni di sacrificio della nostra gente, i commenti ufficiali e clandestini sulle sorti della guerra, le possibili soluzioni del conflitto. Il naufragio delle nostre aspettative è ormai evidente, l'entusiasmo della nostra fede e l'ottimismo dei nostri vent'anni stanno andando a fondo. Ci chiediamo quale sarà il nostro futuro e non troviamo risposte. Neppure qui al fronte, luogo della Verità

Pag 58 e segg…. una granata colpisce l’affusto, una delle ruote di «elektron» si frantuma, il pezzo si mette di traverso e frena il traino. Non resta che abbandonare anche quest’ultima bocca da fuoco. Asportarne l’otturatore è un’operazione che richiede alcuni minuti, sotto un tiro nutritissimo che ci procura alcuni feriti. Riprendiamo la corsa. Ora, ai sentimenti di paura per la nostra sorte, si aggiungo la consapevolezza di aver perduto — con la fine dell’ultimo cannone — la funzione e l’amor proprio di artiglieri.
L’acquavite non è benzina
Durante le operazioni di sganciamento da Skassyskaja altri Camion sono stati abbandonati per mancanza di carburante. Dei circa 60 automezzi del 2° Gruppo ci resta, a parte la «1100» passata al Col. Carloni, un solo «626» (fiat) sul quale, per un gioco del caso, mi trovo anch’io. Costituiamo l’ultimo nucleo motorizzato del nostro Reggimento in una precaria formazione di cui fanno parte uomini della «Sforzesca», della «Pasubio» e del Gruppo germanico Schuldt.
Questo superstite autocarro ha anch’esso «i litri contati» e somiglia molto, ormai, ai tanti cavalli che abbiamo visto procedere faticosamente sul ghiaccio, senza mangiare, sino a cadere morti. Cerchiamo di economizzare benzina come possiamo, ma ci rendiamo conto che si tratta soltanto di prolungare di qualche chilometro un’agonia ineluttabile. Poi toccherà alla suddetta «1100» del comando, una piccola berlina di colore blu fabbricata per usi civili e requisita d’urgenza per essere destinata al l2O°Artiglieria quando questo Reggimento (una formazione «bis» del 20°Artiglieria di stanza a Padova) è stato allestito per rimpiazzare le Batterie a Cavallo operanti nell’ambito della Divisione «Celere». Mettere insieme l’equipaggiamento della nuova unità non deve essere stato facile, una parte degli autocarri e dei trattori è stata distolta da contingenti previsti per il fronte africano, e difatti erano dipinti in giallo-sabbia. Nessuna meraviglia, quindi, che del complesso facessero parte vetturette civili come questa che, nonostante il suo aspetto per niente militaresco e piuttosto anacronistico nelle circostanze attuali, ha ancora un aspetto dignitoso. E stata molto utile nelle frequenti ricognizioni, facendo risparmiare benzina agli autocarri. La filettatura di una candela è spanata, ogni tanto la candela salta e batte sotto il cofano; l’autiere la riavvita con un po di stoppa e riprende la marcia. Non tutti sono perfetti.
Proseguiamo a tratti, per dar modo agli appiedati di precederci nella direzione che, provvidenzialmente, ci ha indicato l’aereo tedesco sottraendoci ad una sorte definitiva. Nessuno ha voglia di parlare, gli avvenimenti delle ultime ore, e specialmente la perdita dell’ultimo cannone, hanno reso ancora più depresso il nostro stato d’animo. Oltre a ciò, la consapevolezza delle esigue possibilità di evitare la morte o la cattura comincia a roderci con il tarlo della rassegnazione, cosi come già ha fatto con tanti altri. La luce del giorno è finita da ore, ma il lento procedere deve continuare per mettere spazio tra noi e i reparti corazzati nemici che ci hanno attaccato nel pomeriggio. Improvvisamente, un lampo e uno scoppio: un camion tedesco, che ci precede di circa cento metri , è saltato su di una mina posta all’imbocco di un piccolo ponte. Riusciamo a passare con cautela e paura, ma anche con una buona dose di fatalismo.
Poco dopo avviene ciò che doveva avvenire: il motore del camion da due o tre starnuti e si ferma. la benzina è finita. Guardo interrogativamente Vespa, le sue riserve segrete sono purtroppo esaurite, tuttavia facciamo un controllo dei bidoni per vedere se vi siano delle rimanenze: nulla. Solo un «kanister» è quasi pieno, è uno di quelli nei quali, giorni fa, avevamo messo l’acquavite trovata nella sussistenza tedesca. So che non può funzionare, ma dico ugualmente a Vespa di versare qualche litro nell’alimentatore che si trova dietro il cruscotto. Vespa esegue, poi cerca di mettere in moto. Inutilmente. Scendiamo tutti, portiamo via la calotta dello spinterogeno, ci accingiamo a vivere anche noi la sorte degli altri che ci hanno preceduto. E una sorte che, ormai, dovrebbe esserci nota e che tuttavia ci spaventa: non tanto per la fatica fisica e per la quasi certezza di congelamento agli arti: ma per il pericolo di abbrutimento e di abulia. Lo spettacolo di gente avvolta in coperte, con piedi fasciati di stracci, che si trascina per solo spirito di sopravvivenza, che litiga per una patata o per un posto dentro un pagliaio o dentro un’isba, questo spettacolo lo abbiamo davanti agli occhi.
Sinora la fortuna e la disciplina ci hanno consentito quasi sempre di salvaguardare la nostra dignità di uomini e di soldati. Finirà anche per noi questo privilegio? Cerco di riflettere e non posso fare a meno di constatare che l’atteggiamento tenuto sinora verso gli sbandati va rivisto. La nostra condizione di «truppe regolari combattenti» ci ha fatto considerare, sinora, questi poveretti come uomini non sempre esenti da colpe. Tale giudizio è nato, forse, dai molti episodi di cui siamo stati testimoni: episodi, talvolta, di palese codardia, talaltra di rifiuto agli ordini. In realtà, nel novero del «serpentone» vi sono diverse categorie di individui che non possono — certo — essere tutte mediate ai livelli più bassi. Molti di loro sentono ancora vivo lo spirito di corpo o, perlomeno, la solidarietà umana; e si prodigano non solo egoisticamente per la ricerca di un salvataggio comune. E da costoro che vengono gli episodi più toccanti, come il rifiuto ad abbandonare compagni feriti e malati, il rendere partecipi gli altri del raro cibo o di qualche essenziale indumento. I loro sacrifici non saranno mai sufficientemente conosciuti. Poi ci sono i «furbi» i quali sperano di sopravvivere grazie alla loro presunta abilità di spostarsi separatamente dal grosso della colonna (pur restandone in vista) in modo di non richiamare l’attenzione del nemico e di avere la possibilità di arrivare prima degli altri ad accaparrarsi una gallina o un riparo per la notte, infine vi sono i «reietti», talmente provati fisicamente e moralmente da essere nella palude della debilitazione e della pazzia: il loro contegno è spesso imprevedibile e assurdo, tanto da rendere arduo o inutile ogni tentativo di colloquio e, quindi, di organizzazione tesa al bene di tutti. I malati, i congelati, gli alienati sono, in genere, la coda della colonna, i più esposti agli attacchi delle forze nemiche e dei partigiani, la «palla al piede» della nostra anabasi. E questa coda lascia, lungo il cammino, una scia di moribondi sempre più fitta.
Mi rendo conto che, nella ipotetica graduatoria delle situazioni noi della «colonna Canoni» ci siamo sentiti ai primi posti ed abbiamo guardato al lungo «serpentone» con compassione mista a risentimento nato dalle implicazioni tattiche (il dover condizionare la nostra poca capacità bellica alla funzione di retroguardia della massa inerme) e pratiche (il fatto di trovare sempre strapieno ogni luogo di riparo al quale ritenevamo dl avere precedenza per la nostra funzione di combattenti)., In sostanza, ci siamo atteggiati a giudici senza averne diritto e senza conoscere le singole circostanze.  Ora che Ia condizione di reparto «autotrasportato» è venuta meno, Il modo di vedere le cose non ha più nulla di elitario: andiamo a piedi come gli altri e possiamo unicamente considerarci fortunati per aver goduto più a lungo di certi vantaggi materiali. Quanto ai vantaggi morali, nulla possiamo dire: ci chiediamo soltanto quale sia, ora, il tempo che ci separa dall’assumere l’aspetto e il comportamento dei più.
Marciamo silenziosamente da qualche ora, in un’oscurità bluastra che rende meno netti i confini tra realtà e fantasia dei nostri pensieri. Poi, ad un tratto, un brusio proviene dalla testa della colonna e si propaga con intensità crescente: è l’effetto di una notizia esaltante che desta un’eccitazione incontenibile: davanti a noi c’è la linea tedesca, siamo fuori della «sacca». La prudenza ci suggerisce di attendere una conferma, troppe volte siamo stati scottati dalla delusione. Ma ecco che verso mezzanotte superiamo, finalmente, i capisaldi germanici e procediamo per il paese di Mikajlowski ove ci fermiamo esausti e felici.
Appena giorno organizziamo una pattuglia, ci facciamo prestare un camion dai tedeschi ed andiamo a recuperare il nostro «626» a cui l’acquavite non è piaciuta. E’ una soddisfazione di non grande rilievo pratico che, però, assume un significato particolare. Gli autisti si impegnano con alacrità nel pulire il circuito di alimentazione, il reparto germanico che presidia il paese ci fornisce della benzina, noi abbiamo ancora un «nostro» camion. Mentre, sulla strada, siamo intenti a questo compito, transita un gruppo di automezzi tedeschi con un paio di cingolati d’assalto. Da una grossa Mercedes scende un generale e chiede chi comandi la nostra colonna. Si presenta Carloni. Il colonnello italiano — basso, reso goffo dai grosso elmetto e dal corto pastrano — non sembra a disagio di fronte alla distinta figura dell’ufficiale tedesco che lo sovrasta. Si parlano in francese, sento alcune frasi. Carloni dice: «Mon Général, dateci delle armi pesanti e torneremo a combattere» il suo interlocutore risponde che non è possibile, la situazione è grave per tutti gli alleati, occorre resistere con le armi leggere che ci restano. Poi saluta, risale in macchina e riparte con i suoi subalterni. Lo stato d’animo di coloro che, sia pure provvisoriamente, sono scampati alla prigionia, ci fa accettare senza recriminazioni gli eventi che si succedono. La cattura ci è sempre apparsa come un’alternativa altrettanto buia che la morte, forse soltanto un prolungamento di sofferenze per giungere allo stesso fatale epilogo.
Carloni ci chiama a rapporto: la nostra funzione di retroguardia combattente è, per il momento, sospesa. Assumiamo quella di reparto di retrovia che deve riorganizzarsi. Vengono formate nuove Compagnie senza, peraltro, cancellare i reparti di origine. Ci attende una lunga marcia di trasferimento al di là del Donez. Partiamo il 30 dicembre mattina. La nostra colonna non ha l’aspetto di quell’interminabile serpente scuro di uomini sgominati, ma è pur sempre un’espressione amara della sconfitta. Le nostre divise sono ancora abbastanza decenti per quanto logore, a volte strappate, bruciacchiate o scolorite. Abbiamo finalmente potuto togliere gli elmetti e rimettere le «bustine» sopra i passamontagna Chi ha perso la bustina l’ha sostituita con copricapi «fuori ordinanza» per lo più ispirati alla foggia russa o addirittura prelevati ai civili. Il nostro aspetto non è molto marziale ma ancora sufficientemente militaresco. Marciamo con brevi soste, dalle prime luci del giorno al tramonto, coprendo distanze giornaliere di 20-36 chilometri.

 Questa (a lato) la lettera che Gino Papuli scrisse a Petacco presso la Rai Via Mazzini, 14 00195 Roma

Egregio Dott. Petacco,
essendo un superstite del fronte russo e conoscendo quasi tutta la bibliografia sull’argomento, ho comprato con curiosità il Suo recente libro “L’ARMATA SCOMPARSA”.

il 27/11/1998 a seguito della pubblicazione del libro "l'Armata scomparsa" l'ennesima stesura, dal punto di vista alpino, sulla campagna di Russia.
Petacco infatti pone la sua attenzione solo sull'anabasi Alpina tralasciano l'altra metà della ritirata (ritirata della Celere e quindi della Colonna Carloni, comprendente resti della Pasubio, Torino, Sforzesca e altri reparti, verso sud) senza la quale le vicende storiche risultano non solo incomplete ma alterate e sbilanciate dalla evidente omissione.
Papuli gli scrive con l'intento di poter smuovere le coscienze di chi ha il potere e l'opportunità di raccontare ad un pubblico vasto ed ha il dovere di scrivere la storia nella sua integrità ed imparzialità.
Troppo spesso anche i giornalisti più conosciuti cadono nel banale errore di raccontare solo una parte della storia senza approfondire e, in questo caso, evidentemente, senza conoscerla affondo.
(la lettera rimase senza risposta)

 

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Tutto quanto è stato pubblicato sino ad oggi sulle vicende di quel fronte manca, sovente, di serenità di giudizio e di organicità di trattazione; pertanto, l’aver voluto raccogliere e cucire in un solo testo l’essenza delle testimonianze scritte da vari testimoni di quelle tragiche vicende è stata, da parte Sua, una iniziativa interessante. Le Sue lodevoli intenzioni sono state – tuttavia – tarpate da carenze che nuocciono non poco alla completezza del contesto storico e, quindi, alla verità. Mi riferisco, in buona sostanza, agli avvenimenti che riguardano l’offensiva sovietica del dicembre ‘42-febbraio ’43 contro lo schieramento dell’ARMIR: avvenimenti che Lei ha riportato limitatamente al settore nord (quello tenuto dal Corpo d’Armata Alpino), ignorando del tutto quanto è avvenuto nel settore sud dove le Divisioni “Celere”, “Torino”, “Pasubio”, “Sforzesca” hanno subito vicissitudini che non è giusto liquidare con poche parole di condanna all’oblio. Lei sembra ignorare che nel caos generato dalla fulmineità e dalla potenza dell’attacco russo vi sono stati reparti che, pur con enormi difficoltà e perdite elevate, hanno continuato a combattere contribuendo al salvataggio di un gran numero di soldati battuti e sbandati lungo il percorso Werk Makejewka-Nish Petrowskij-Skassirskaja-Donez. Eppure, molte notizie su questa anabasi sono contenute sia nella scarna relazione dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito (che riporta anche le cartine topografiche), sia in diverse significative testimonianze raccolte da Bedeschi nel suo libro “Fronte russo – c’ero anch’io”. Ambedue questi testi sono inclusi nella Sua bibliografia, ma forse Lei non ha avuto la pazienza di leggerli per intero. Mancano, inoltre, due libri essenziali: “LA CAMPAGNA DI RUSSIA” del Col. Mario Carloni, ediz. Longanesi, 1956; e “BERSAGLIERI SUL DON” di Umberto Salvatores, Tip. Compositori Bologna 1958: libri il cui contenuto conferma quanto vado dicendo e dimostra, anche, che nella “Celere” vi erano due Reggimenti di Bersaglieri (il 3° e il 6°) e non solo il 3° come si evince dal Suo resoconto. Nei testi citati si parla, per di più, di un importantissimo evento che Lei ignora del tutto: l’impiego della “colonna Carloni” nella difesa del Nipro dal 10 al 17 febbraio 1943, ultima formazione italiana combattente, dopo che i resti dell’ARMIR erano stati già tutti ritirati dalle linee. Mi permetta, infine, di aggiungere che il “taglio” che Lei ha dato al Suo libro contribuisce a diffondere un equivoco di cui sono soprattutto responsabili i mass-media poco informati: quello secondo cui la campagna di Russia sarebbe stata combattuta soltanto dagli Alpini. Senza nulla togliere al valore di questi soldati, la verità storica e le esigenze di giustizia impongono che si tenga conto anche degli altri due Corpi d’Armata che costituivano la presenza italiana su quel fronte. Tralascio altre osservazioni di minore rilevanza, anche perché non voglio che questa mia lettera possa sembrare dettata da protagonismo di reduce o da pignoleria di vecchio. Contando di fare cosa gradita, Le allego la mia testimonianza dal titolo “Il labirinto di ghiaccio”. Spero che la sua lettura possa servire come contributo alle Sue opinioni sugli accadimenti del “fronte russo”, e come giustificazione alle mie critiche. Molti cordiali saluti. Gino Papupli