La storia è racconto attraverso i libri

I testi che accompagnano la presentazione sono in genere quelli diffusi dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati

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GOLI OTOK - Italiani nel gulag di Tito

Giacomo Scotti

L'isola calva (o nuda)
Aveva ragione Stalin o Tito?.
 

  Commento di Gabriele Polo, "il Manifesto"*, 6 ottobre 2002
Friuli Venezia Giulia, dopoguerra. Un migliaio di giovani, ex partigiani e operai, decidono di raggiungere la Jugoslavia per contribuire alla costruzione del socialismo. Tra l'inizio del 1946 e la fine del 1947 due flussi «migratori» si incrociano sull'incerto confine che divide Italia e Jugoslavia. Tutti parlano l'italiano pieno di influssi dialettali dell'alto Adriatico, ma lo spirito e le ragioni della migrazione sono molto diversi, quasi opposti. La prima «corrente», più numerosa (profughi), parte dalle coste istriane e dalmate e fugge alla «slavizzazione» di quelle terre, portandosi addosso l'accusa di complicità nazionale con il fascismo che in quelle terre ha seminato discriminazioni durante il ventennio di pace e terrore nei cinque anni di guerra. In senso inverso si muove l'altra «corrente», per correre incontro ai propri ideali politici, decidendo di «andare a costruire il socialismo» nella neonata repubblica popolare di Jugoslavia. Dei primi molto si è parlato per 50 anni, anche se quasi sempre per rivendicare le terre e le case abbandonate e, propagandisticamente, in chiave anticomunista e razzista (!!! ndr gli unici che conosco che definiscono Tito un fascista sono ex comunisti). Dei secondi quasi nessuno si è occupato, tanto scomoda era la scelta di quegli italiani che decidevano di vivere nella Jugoslavia di Tito. A loro è dedicato il libro di Giacomo Scotti - Goli Otok, italiani nel gulag di Tito, giunto alla terza edizione - che racconta la storia degli italiani emigrati in Jugoslavia nel dopoguerra, aggredendo fin dal titolo la sua parte più dura, quella di una sorte quasi beffarda che fa finire molti di loro ai lavori forzati su un'isoletta deserta del Quarnero, con l'accusa di essere spie del Cominform. Sono chiamati «i monfalconesi», anche se non tutti vengono dalla cittadina dei cantieri navali vicino a Trieste; forse perché molti di loro in quella fabbrica lavorano, forse perché a Monfalcone sotto il fascismo opera la cellula di fabbrica più forte del Pci clandestino. Il 9 settembre del `43 in mille escono da quel cantiere navale e, dopo un breve scontro con la polizia, ancora in tuta da lavoro, salgono in montagna, battezzandosi «Brigata proletaria» per combattere nazisti e repubblichini, in contatto con la resistenza slovena attiva già da più di un anno sui monti del Carso e nella valle dell'Isonzo. La prima battaglia, nei pressi di Gorizia, per loro è un disastro: impreparati e male armati, quasi metà muoiono, una parte sbanda, un'altra viene integrata nelle fila del IX Korpus dell'armata di liberazione di Tito e due anni dopo (il 3 maggio del `45), con quelle divise, entrano da liberatori a Monfalcone, accolti da quella parte della città che chiede l'annessione alla nuova Jugoslavia.

Ndr: poiché io do sempre la parola a tutti la critica del libro l'ho lasciata al "Manifesto". Polo deve anche essere rimasto indietro nella nuova analisi politica dell'est. Se parlassi di ingenuità di Polo mi taccerebbero come quello che spara alla Croce Rossa: se dicessi che Polo da politico non ha capito niente della politica, gli rovinerei probabilmente una luminosa carriera politica. Il ragazzo è probabilmente troppo giovane per non sapere che stare contemporaneamente al mattino con l'aguzzino e al pomeriggio con la vittima non paga più. Lascio quindi a voi la difficile scelta: Aveva ragione Stalin o Tito ?.

*Il periodico nasce dalla componente di sinistra del Partito Comunista Italiano (PCI) che con Pietro Ingrao aveva sostenuto nel corso dell'XI congresso alcune battaglie per la democrazia interna al partito. La rivista, che già si pubblica da giugno '69, assume posizioni in contrasto con la linea maggioritaria del partito (in particolar modo rispetto all'invasione Sovietica in Cecoslovacchia Agosto '68, con l'editoriale uscito nel secondo numero intitolato "Praga è sola") che ne chiede la sospensione. Il gruppo politico del M. tiene con "Potere operaio" un congresso, nel febbraio 1971,che dovrebbe sancire l'unificazione tra le due forze e che si chiude invece con una rottura.

  Tramontata quest'ipotesi, incerta la sorte di Trieste, un migliaio di ex partigiani, giovani e operai dei cantieri, spinti dalla disoccupazione e dalla fede politica decidono di lasciare le loro case e di andare a costruire il socialismo in Jugoslavia: Pola e Fiume le principali mete. Lì riprendono a lavorare in fabbrica, «per mettere il proprio mestiere al servizio della causa comune». Ma da subito si scontrano con una realtà diversa da quella che avevano immaginato; poi con la rottura tra Tito e Stalin del giugno `48 tutto precipita. Sono italiani e si trovano a fare i conti con la diffidenza delle popolazioni slave, per cui l'Italia continua a essere sinonimo di fascismo e discriminazione razziale; sono internazionalisti e si trovano di fronte un partito - quello jugoslavo - impegnato nella difficile unificazione di popoli per secoli divisi puntando sul cemento di una nuova identità nazionale, quella degli «slavi del sud»; sono operai specializzati, molto politicizzati, fieri del proprio mestiere e convinti di poter edificare una società nuova come si costruisce una nave e si misurano con un apparato statale e di partito socialmente segnato dalla realtà contadina delle popolazioni serbe, croate, bosniache. Così quando il Cominform «scomunica» la Jugoslavia di Tito, optano per Stalin - spinti anche dal partito italiano - e non lo nascondono. I funzionari - già diventati burocrati - che da Zagabria vengono a Fiume e Pola per dissuaderli dall'opporsi non li convincono: fino a quando è possibile manifestano pubblicamente il loro «internazionalismo», il «primato della classe operaia». Poi vengono licenziati dalle loro fabbriche e dispersi: alcuni decidono di tornare in Italia - dove il Pci li mette ai margini o li ignora (e comunque li consiglia di non parlare) - altri vengono deportati in Bosnia per il «lavoro volontario» in cave e miniere. Alcuni, i più in vista, dopo processi sommari con l'accusa di tradimento e spionaggio al servizio del Cominform, finiscono a Goli Otok, il campo di concentramento aperto nel luglio `49.

  Lì incontrano i protagonisti di una seconda fase dell'opposizione comunista italiana a Tito, i cominformisti veri e propri, un piccolo manipolo di militanti che a Fiume fondano persino un'organizzazione clandestina, chiamata «Comitato circondariale di Rijeka del Partito comunista internazionalista jugoslavo»; un'entità virtuale, che non riesce mai ad andare al di là di piccole azioni di propaganda (volantini e giornali che arrivano da Trieste in valige a doppio fondo, su indicazione di Vidali) e viene presto smantellata dalla polizia segreta jugoslava. Insieme con altre migliaia di ex militanti del Pc jugoslavo - tra essi anche alcuni importanti dirigenti e generali dell'armata di liberazione - schieratisi col Cominform e contro Tito. Il gulag di Goli Otok rimane un carcere politico fino al `56, poi con la normalizzazione dei rapporti tra Jugoslavia e Urss dopo la morte di Stalin, si riconverte in carcere per detenuti comuni e i «politici» sopravvissuti vengono progressivamente liberati.

Giacomo Scotti, attraverso le testimonianze, le memorie e i documenti ufficiali stima che circa 30.000 prigionieri politici furono detenuti sull'«Isola calva» e che quasi 4.000 vi morirono, per stenti o torture. Il suo libro non segue un rigoroso filo cronologico, in esso le testimonianze e i documenti ufficiali si rincorrono per comporre un quadro drammatico non tanto nelle dimensioni del fenomeno quanto nella sua portata politica e morale. Scotti, che conosce bene la storia degli italiani emigrati in Jugoslavia per scelta politica essendo uno di loro, in questo libro coraggioso non cede alla tentazione della propaganda; esattamente come i protagonisti della persecuzione politica

G. Pansa - Mi ero imbattuto in Andrea Scano mentre preparavo la tesi di laurea sulla guerra partigiana tra Genova e il Po. Eravamo nella seconda metà degli anni Cinquanta e lui era rientrato da poco in Italia, dopo un'orribile prigionia all'Isola Calva, o Goli Otok, in Jugoslavia. Ma allora, per me, era uno dei tanti comandanti garibaldini di cui tentavo di ricostruire le vicende. Non sapevo altro di Scano. Così come non conoscevo nulla di quel gulag e dei comunisti italiani che vi erano stati deportati da Tito. Iniziai ad avvicinarmi alla sua storia soltanto nel 1980 quando lessi «Compagno Tito. Una biografia critica» di Milovan Gilas, tradotto in Italia dalla Mondadori. Lì seppi per la prima volta dell'inferno di Goli Otok. E ricordo che ne ricavai un'impressione profonda, quella che ti da una storia insospettata e crudele. Imparai qualcosa di più sette anni dopo, leggendo un altro libro di Gilas, «Se la memoria non m'inganna... Ricordi di un uomo scomodo», pubblicato dal Mulino.

... Il Manifesto è dalla parte della Cecoslovacchia di Dubcek e Secchia è dalla parte dell'URSS, ma entrambi intravedono, paradossalmente, nella natura sociale del paese del socialismo innumerevoli crepe che hanno portato anche a quella situazione. Il gruppo de Il Manifesto condivide le critiche maoiste e cinesi alla sclerosi burocratica sovietica per il filtro della 'rivoluzione culturale' (ma la matrice maoista scomparirà gradualmente dal codice genetico del gruppo), Secchia è contro i frutti perversi del revisionismo kruscioviano, ma non può accettare 'la guerra' tra i due più grandi paesi del socialismo, nè che possa dichiararsi una equiparazione tra imperialismo americano e 'socialimperialismo sovietico' ....Ferdinando Dubla,direttore del C.S. e Documentazione marxista-opere di Secchia Agosto 1998

  Mi capitò di parlarne con qualcuno. E un amico di Alessandria mi disse che un partigiano della nostra provincia, per l'appunto Scano, era passato per gli orrori del gulag descritto da Gilas. Provai a cercarlo, ma mi spiegarono che era morto verso la fine del 1980.Qualche anno dopo, venne a trovarmi al giornale uno studente universitario di Santa Teresa, il paese natale di Scano, in Gallura. Era Enrico Poggi e stava preparando la tesi di laurea proprio su Andrea. Gli consegnai tutto il materiale che possedevo. E seppi poi che si era laureato nell'anno accademico 2000-2001, alla facoltà di Scienze politiche dell'ateneo di Sassari, con il professor Manlio Brigaglia. La tesi, di 120 pagine, era intitolata «Per una biografia politica di Andrea Scano (1911-1980)».Ho molti ringraziamenti da fare. Prima di tutto, a Enrico che mi ha consentito di leggere la sua tesi e di utilizzare documenti che aveva trovato. Ma Scano, nipote di Andrea, mi ha consegnato la poesia inedita dello zio sugli orrori dell'Isola Calva. PRIGIONIERI DEL SILENZIO SPERLING & KUPFER EDITORI MILANO http://www.thule-italia.net/Comunismo/Pansa Gianpaolo - Prigionieri Del Silenzio.rtf 

Giacomo Scotti non si pente della scelta fatta, ma con altrettanto rigore documenta e denuncia una delle tragedie della sua (e nostra) storia. Proprio per rispetto a quella storia, alla vicenda di migliaia di militanti stritolati dalle leggi della geopolitca. Perché Tito ha mille ragioni per opporsi a Stalin e cementare su quella rottura una nuova identità nazionale e un nuovo assetto statale, ma nel farlo sacrifica la vita di migliaia dei «suoi»(ndr: ma anche di altri), affermando quella discriminazione che intende negare: il nazionalismo jugoslavo serve a combattere i nazionalismi croato e serbo, ma riproduce, verso «gli altri», le stesse dinamiche etnocentriche; la battaglia contro lo stalinismo e il culto della personalità di Stalin dà vita a un nuovo autoritarismo e a un nuovo culto della personalità. E anche a causa di ciò l'autogestione fallirà. Il dito mignolo - che Stalin pensava bastasse a mettere in riga il ribelle Tito - ci appare ora come una metafora di una persecuzione politica che ricorda - in sedicesimo - quella delle purghe e dei gulag staliniani: la Jugoslavia del primo dopoguerra perde la scommessa della democrazia socialista abbattendosi su quegli «stranieri» arrivati lì in nome della rivoluzione e della solidarietà internazionalista.

  Nel 1954, ad esodo concluso, agli italiani superstiti furono a quel punto riconosciute alcune tutele sotto la pressione internazionale. In molte città dell'Istria fu introdotto il bilinguismo (sloveno-italiano o croato-italiano). Agli italiani fu concesso di avere propri periodici e una radiotelevisione (Capodistria); venne inoltre garantito il diritto a ricevere l'istruzione nella propria lingua. Tra i pochi cittadini di etnia italiana che decisero di restare in Istria l'allora giovane comunista e partigiano Ligio Zanini che quando abbandonò la lega comunista iugoslava non aderendo alla dittatura titoista fu qui recluso per tre anni, dal 1949 al 1952. Zanini poi insegnò letteratura italiana in una scuola istriana.
     

Claudia Sonia Colussi Corte (Isola Vicentina - Croazia, 1944) Diario "L'isola nuda" memoria 1946-1956 - Brani  http://www.archiviodiari.it/schede/colussi.html 

Guidata da un padre idealista e rivoluzionario, una giovane famiglia lascia l'Italia per trasferirsi nella Jugoslavia di Tito, terra del socialismo reale. Però, quando si deteriorano i rapporti con l'Unione Sovietica di Stalin, l'uomo viene imprigionato per quattro anni nell'isola di Goli Otok, con l'accusa infondata d'essere una spia di Mosca.

  Goli Otok (Isola Calva detta anche Nuda) sta nel Canale del Velebit: di 4,7 km² di superficie e con un perimetro costierio pari a 11,8 km. l'isola si trova tra Veglia (Krk) Arbe (Rab), Sveti Grgur (S.Gregorio) e Prvic. La parte settentrionale dell'isola è inaccessibile e nuda e il mare vicino alla costa ha una profondità di 30 m. La costa settentrionale e quella che guarda verso sud est e più frastagliata e con poca vegetazione. L'insenatura più grande si chiama Mala Tetina. L'isola è stata disabitata fino ai tempi recenti. Durante la I guerra mondiale l'Austria l'Ungheria vi internò i prigionieri russi del fronte orientale. Dal 1948 al 1956 sull'Isola Calva c'era il famigerato lager per i prigionieri politici della Jugoslavia. Dopo il 1956 vennero spediti a scontarvi la pena criminali comuni e giovani delinquenti macchiatisi di crimini gravi. I detenuti dell'Isola Calva, che viene anche chiamata «l'Alcatraz croata» erano costretti ai lavori fisici più duri: lavoravano nella cava di pietra (estate temperature di 35-40 gradi C, inverno raffiche di bora). La maggior parte degli edifici del penitenziario si trovano tra le insenature Mala Tetina e Melna. Il carcere nell'Isola Calva è stato chiuso nel 1988. La sua stessa esistenza venne tenuta nascosta all'opinione pubblica internazionale per lunghi anni e solo i fatti accaduti successivamente in Jugoslavia ne consigliarono la chiusura. La vicina isola di S.Grgur (S.Gregorio), a un miglio nautico di distanza, spartì il destino tragico dell'Isola Calva. Dopo la II guerra mondiale vi si trovava un penitenziario per donne.
     
La moglie e la figlia - l'autrice del testo, allora bambina - si trovano isolate, e accusate anch'esse come nemiche del popolo". A distanza di anni, la figlia racconta questo calvario di efferata e brutalissima violenza. Era l'anno 1946, la guerra era finita, ma la pace nella Zona B era ancora precaria. Mio padre aveva lasciato l'Italia, precisamente Monfalcone, dove nel cantiere aveva già un lavoro, per andare a vivere a Lussimpiccolo (Mali Losinj-ex Jugoslvia). Lì era nato e lì aveva trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza. Quando suo padre morì, aveva soltanto quattordici anni. La famiglia, che era numerosa, si trovò in grande difficoltà e miseria. La lotta quotidiana per la sopravvivenza era ormai fatto consueto. La fame, le umiliazioni, le ingiustizie e lo sfruttamento da parte di coloro che avevano tutto in abbondanza portarono mio padre, dal cuore puro e nobile, ad interessarsi a quella dottrina politica, a quel pensiero socialista che avrebbe unito tutti i popoli nella lotta per l'uguaglianza e per il benessere dell'umanità.   Claudia è stata testimone silenziosa di un sogno infranto: quello del padre, affascinato dal comunismo sovietico, alla ricerca di una terra ideale che accogliesse lui e la famiglia. Così, nel 1946, Claudia e i genitori lasciano Monfalcone e si trasferiscono a Lussimpiccolo, paese d'origine del padre, dove l'uomo crede di poter concretizzare le sue speranze di uguaglianza. La Russia è troppo lontana “Allora perché non andare a vivere al paese natio, Lussinpiccolo, che è il più bel paese del mondo? [...]. La Jugoslavia non era lontana. [...] Così la grande, incomparabile madre Russia, protettrice di tutti i paesi socialisti, gli sarebbe stata più vicino”. Ma le tante speranze sono ben presto vanificate: la Jugoslavia si rese indipendente politicamente ed economicamente dall'Unione Sovietica e per il padre di Claudia, impegnato nelle attività di partito, la rinuncia alla lotta “per un futuro migliore del proletariato” è inaccettabile. È così che il Tribunale Supremo di Spalato lo arresta e lo condanna a quattro anni di reclusione e a un anno di libertà condizionata per attività sovversiva: prigioniero politico è deportato a Goli Otok, l'Isola Nuda. Claudia e la madre, sfrattate, senza reddito e spaventate da possibili rappresaglie, tornano in Italia nell'attesa di notizie, che giungono a sorpresa, circa un anno dopo. Il rientro in Jugoslavia per Claudia, che ha circa 10 anni, coincide con il ricordo indelebile di Goli Otok, l'isola che “divenne la tomba per tanti innocenti, e per tantissimi fu il luogo dove le mostruosità commesse dagli uomini agli uomini arrivarono al loro apice”. Situata a nord della costa croata, trasformata in un campo di concentramento per detenuti politici, “è un'isola priva di vita e con il suo aspetto che evocava la morte, era ideale per un carcere dove nessuna legge umana sarebbe più esistita”. Nel gennaio 1954, dopo molte ore di viaggio, le due donne incontrano per quindici minuti un uomo irriconoscibile. Per le feste natalizie, grazie a un'amnistia, ”un bussare quasi timido turba la quiete della casa”. Claudia riabbraccia il padre “con le guance scarne [...] vestito poco e male [...] con la testa rasata”.
     
Lasciò Lussinpiccolo appena diciottenne. Per lunghi anni fece il marinaio e vagabondò per il mondo. Nonostante ciò, non rinunciò mai ad approfondire tutto quello che trattava l'idea marxista. Era un autodidatta. Capì che la Russia, il cui nome era risuonato oltre i mari, sarebbe stato il paese dei suoi sogni. Ritornò in Italia al principio della guerra. Conosciuta mia madre a Roma, in casa di sua sorella la sposò. Dopo un anno, in un paesino vicino a Vicenza, nacqui io. Mio padre volle darmi il nome russo di S. Questo era il primo segno di affetto e di dedizione alla Russia. Avrebbe voluto tanto poter andarci a vivere. Ma la Russia era troppo lontana e per mia madre troppo oscura e misteriosa. "Allora perché non andare a vivere al paese natio, Lussinpiccolo, che è il più bel paese del mondo?", pensò mio padre. La Jugoslavia non era lontana. Era l'alleata dell'Unione Sovietica e faceva parte del blocco orientale. Così la grande, incomparabile madre Russia, protettrice di tutti i paesi socialisti, gli sarebbe stata più vicina.   Ad un certo punto, dalla parte occidentale dell'isola sbucarono degli uomini seminudi e malconci. Il loro aspetto non sembrava più umano. Erano prigionieri che in fila ritornavano dal lavoro forzato. Con un andamento stanco sparirono dietro un casermone lungo e basso dal colore grigiastro davanti al quale passeggiavano alcune sentinelle. Subito dopo questo venne permesso lo sbarco...... Senza parole, mia madre ed io ci sedemmo sopra una panca. Restammo sole. Il cuore cominciò a battere forte ed il respiro cominciò a mancare, il momento tanto atteso dell'incontro stava per avverarsi. Entrò mio padre accompagnato da un poliziotto. Ci alzammo di scatto, la sua figura era quasi irriconoscibile. Allargò le braccia scarne e ci strinse tutte e due sul suo petto. In quel momento nessuno di noi disse nulla. Con il respiro rotto dall'emozione, restammo a lungo abbracciati piangendo. Mia madre, vedendo mio padre con l'aspetto mutato in modo sconcertante (pesava forse circa 35-40 chili), nell'impeto del sentimento, gli stava per dire quello che le veniva dalla mente alle labbra: “Cosa ti hanno.  ”. Ma mio padre intuì di colpo quale sarebbe stata la sua domanda e le impedì di proseguire, dicendole: “Sto bene, ho soltanto lo stomaco che alle volte mi fa male, ma non è niente di preoccupante”.... Il tempo di 15 minuti, concesso per la visita, era scaduto, tutto finì qui. Un'altro forte abbraccio e i nostri volti si bagnarono di lacrime. Il poliziotto fece cenno a mio padre di uscire. Vidi che voleva dirci ancora qualche cosa, ma il poliziotto non dimostrò ne tolleranza ne comprensione. Mio padre uscì senza voltarsi. Il mio pensiero: “Chissa se lo rivedremo mai più?” fu sicuramente anche il pensiero di mia madre, ma non ce lo confidammo per non affligerci e vicenda ulteriormente.
Claudia è stata testimone, sino all'ultimo, della sorte di suo padre, che è deceduto con nel cuore “quell'immagine incancellabile che ebbe della Russia, leggendo i libri dei suoi grandi scrittori”.

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