La storia è racconto attraverso i libri | |
| |
Di Gianni Baldi In questa sezione non compaiono solo libri sui bersaglieri, dall’audience più o meno alta, ma qualsiasi tipo di libro, romanzo o altro che abbia attinenza coi fatti storici narrati nelle due sezioni (antica e moderna) del sito. Una occasione per prendere due piccioni con una fava ci viene data dal romanzo Dolce Egeo, guerra amara di Gianni Baldi e dal successivo film uscito 3 anni dopo, Mediterraneo, che ne ricalca liberamente lo spirito (non le vicende) per saperne di più sulle isole greche http://www.dodecaneso.org/bibliografia.htm |
Dolce Egeo, guerra amara
Recensioni:
Giovanni Dall'Orto: Gli amori omosessuali
dei soldati italiani durante il fascismo Naturalmente il libro non è solo questo ma queste pagine sembrano siano diventate l’icona del movimento gay italiano se un altro commentatore, Giovanbattista Brambilla così si esprime in http://www.culturagay.it/cg/recensione.php?id=10767 Salvatores (riferendosi al film Mediterraneo http://digilander.libero.it/freetime1836/cinema/cinemamediterraneo.htm da qui tratto che riassumiamo nella scheda cinema) ha adottato le situazioni e le atmosfere di quella "guerra dimenticata" applicandovi gli schemi della retorica generazionale "post-sessantottina" già sperimentati nei suoi precedenti film di successo Marrakech Express (1989) e Turnée (1990). Il risultato è meramente commerciale e opportunistico, senza alcuna ambizione storicistica, anzi, addirittura ci sono delle enormi pecche di ricostruzione storica (ad esempio s'impiega un bell'aereo da turismo anni Sessanta mentre dovremmo essere nel 1943). Il film è di un provincialismo e superficialità desolanti. ….(il film in effetti vinse l’Oscar come miglior film straniero). Ma come fu veramente quella guerra?. Come ce la raccontano i veri protagonisti?...... Con raro talento descrittivo, Gianni Baldi passa dal reportage realistico a un discorso di tipo simbolico sulla Natura e sul Piacere, in un ambiente che libera la naturalità dell'eros dalle sue costrizioni moderne. E finalmente si parla anche del grande tabù dell'omosessualità all'interno delle truppe in maniera precisa, senza vergogna, la più vicina alle semplici pulsioni primarie e senza tanti discorsi psicologici che la giustificano. Cadono così le false ipocrisie, da "coda di paglia", in favore della ricerca dell'autenticità e onestà del racconto, il tutto nella riscoperta dello spirito giovanile, di sacrificio, dei propri vent'anni a quegli eventi storici. Dolce Egeo, si presenta perciò come una delle poche testimonianze, se non l'unica, dirette e fedeli della vita "segreta" all'interno delle truppe italiane nel mare greco. Da un brano del libro: .. D'altronde mi sembrava abbastanza naturale che una comunità maschile, senza contatti con la società civile ...... esprimesse la propria sessualità attraverso rapporti omoerotici. I ragazzi del 4° erano certamente ragazzi "normali" (alcuni sposati, altri fidanzati e comunque tutti portati al sesso femminile e frequentatori di casini) eppure qui, al settore, in mancanza di donne e fuori dal solito contesto sociale, dove vigevano le regole della morale comune, diventavano "diversi" e si comportavano diversamente. |
Ndr: naturalmente il libro è altro e il film pure, e questo è uno dei pochi casi a cui a un film non si richiede l’attinenza storica, cosa che a Brambilla sembrava importante. Non ricordo proprio il particolare dell'aereo ma di aerei che sembravano degli anni 60 c’era il Fieseler Fi 156 C Storch meglio nota come CICOGNA talmente moderna da risalire al 1936: Il libro è uno spaccato sull’Italia del fascismo, sulla sua bassa classe militare e sulla tipica arte nostrana di arrangiarsi. Questo e altro si trova nel volume di Baldi e spetta a voi andare a scoprire tutta un'epoca leggendo pagina dopo pagina le gioie e le tragedie di quei ragazzi italiani in guerra, gli amori con le ebree. Se ancora oggi molti locali nelle isole, parlando italiano, ci ripetono "Italiani come noi... brava gente" o come diceva il Pope ”una faccia una razza” un pò di merito va anche a questi ragazzi che recuperarono parte della dura (fame e miseria) dominazione italiana e tedesca. |
|
Pag 10 segg... Sulla banchina del porto (Barletta) trovammo ad accoglierci alcuni ufficiali del 9° Regina (di stanza a Rodi) i quali presero in consegna i nostri reparti e li condussero in caserma. Il sottotenente che rilevò il mio plotone, un tipo scuro come un arabo e al forte accento siculo, mise in riga i soldati urlando come un ossesso. Dal suo comportamento riconobbi subito lo stile della scuola allievi ufficiali di Palermo, dalla quale anch’io provenivo, e dove si insegnava a comandare con l’urlo. I richiamati spediti in Egeo appartenevano alle classi dal 1901 1908 ed erano quindi uomini non più giovanissimi, sui 30/35 anni. Dopo i giovani delle leve 1910-1915, già mobilitati e spremuti per le guerre d’Africa e di Spagna, toccava ora agli anziani. E anziani o per lo meno precocemente invecchiati lo erano davvero tutti, questi soldati. Provenivano in maggioranza dal proletariato agricolo pugliese o comunque meridionale, e mostravano nel fisico sciupato e anche nel carattere sentito, lagnoso, i segni di una vita di stenti e di fatiche: per di più erano quasi tutti malazzati per i postumi della malaria, che nelle loro zone d’origine era un malanno collettivo, quasi endemico. Al Deposito truppe dell’Egeo di Barletta, dove allora confluivano le truppe per il Dodecaneso, i richiamati si erano presentati, cartolina precetto alla mano, abbastanza puntualmente, con l’animo rassegnato e fatalistico dei poveri, ai quali non è consentito ribellarsi, pena guai maggiori. Però nel loro intimo detestavano la vita militare, la *naja*, che li strappava alle famiglie e ai paesi d’origine per inviarli in luoghi lontani in nome di una Patria fascista di cui ignoravano o non capivano le ragioni politiche e ideali. Chiusi nell’angusto orizzonte della vita militare e campestre, schiacciati dai bisogni primordiali, i cafoni del sud non erano infatti in grado di percepire, se non nel modo del tutto primitivo, i messaggi ideologici del regime.: sembravano vivere fuori dello Stato, affatto estranei ai grandi miti nazionalistici del tempo. Certo sapevano e parlavano del Duce, e anche applaudivano il SUO nome, ma lo facevano solo perché riconoscevano in lui il più potente dei potenti, la personificazione stessa paterna e tirannica del potere, cui spettava a suo libito dispensare premi e castighi. E proprio in nome del Duce, con la pervicacia dei postulanti, assediavano da mattina a sera le autorità civili e militari per impetrare favori (raccomandazioni, licenze, piccoli privilegi) o anche legittimi riconoscimenti, ma sempre con tono umile, rassegnato, pregando e supplicando, come se chiedessero una grazia. E tuttavia avevano trasformato il Centro di mobilitazione di Barletta, dove avvenivano le operazioni di vestizione e di inquadramento, in una specie di bolgia, nella quale come una turba tumultuosa e urlante si agitavano in continuazione per i motivi più vari e anche senza alcun motivo. Nell’ora del rancio s’accalcavano tutti insieme attorno ai pentoloni di sbobba fumante e non c’era verso di metterli in fila. Consumata poi la loro razione individuale, tornavano all’attacco e ne pretendevano un’altra, perché, là fuori dei cancelli del Deposito, parenti e amici stavano anch’essi in attesa del rancio del governo. Tutti quanti rubavano a man bassa, specie i capi di vestiario: scarpe, camicie e perfino pezze da piedi. E non solo derubavano i magazzini militari, magari con la connivenza dei piantoni di guardia, ma si derubavano anche e soprattutto fra di loro. Cosicché ne nascevano risse a non finire fra individui singoli o piccoli clan di paese, per sedare le quali gli ufficiali erano chiamati a intervenire di continuo. E in questi casi bastava a volte l’urlo dell’attenti — ah, l’effetto magico di certe parole! — per placare i tumulti e ricondurre i litiganti a uno stato di calma. Per la verità in questa gente covava sempre un senso di riottosità e di ribellismo, e bastava un nonnulla, magari un ritardo nella distribuzione del rancio o della cinquina, a scatenarlo; però la rabbia non sfociava mai in aperta sommossa. Il cafone meridionale era troppo abituato alla sottomissione verso l’autorità, troppo condizionato dal suo stato di sottoproletario, per sentire la voglia e il coraggio di un atto rischioso. Infatti, durante tutto il periodo trascorso a Barletta, non m’era mai capitato di assistere a un solo episodio di ribellione, di diserzione o anche di grave indisciplina. | |
Pag 122 segg. .. mai come nel periodo precedente la guerra
furono presentate tante domande per il passaggio in servizio permanente
effettivo da parte di ufficiali di complemento, in prevalenza meridionali
che preferivano la carriera militare a quella del maestro o del burocrate
o del a paglietta , e non soltanto per ragioni economiche, ma anche e
soprattutto di prestigio sociale, Il regime fascista, esaltando nella sua
ideologia i valori e i miti della vita militare (come l’amor di patria, la
bella morte in battaglia, il coraggio fisico, la guerra a igiene del
mondo.), teneva a privilegiare e a valorizzare al massimo lo status
d’ufficiale il ruolo delle forze armate nella società nazionale. Non c’è
dunque da stupirsi che i giovani, già predisposti per matura e
inesperienza alle più varie e strane infatuazioni, si lasciassero
influenzare dall’implicito appello alla carriera militare, contenuto nella
cultura ideologizzata prevalente nel paese. Se poi nel mestiere
dell’ufficiale effettivo non trovavano lo stimolo o l’occasione per vivere
pericolosamente, secondo i dettami del Duce, vi scoprivano almeno la
maniera di vivere comodamente, senza dover tanto tribolate come nella vita
civile, dove per poter andare avanti occorreva lavorare, assumersi
responsabilità prendere iniziative. Sotto le armi invece (come diceva
quello straordinario testo di filosofia militare che era il regolamento di
disciplina) bisognava solo obbedire in modo pronto, rispettoso e assoluto
ai superiori; il resto, cioè l’avanzamento di carriera, o l‘aumento di
stipendio veniva da sé, per anzianità, col trascorrere: del tempo. E col
tempo si acquisiva anche quella mentalità conformista, succube,
deresponsabilizzata ligia ai regolamenti e alle forme, che faceva del
militare un essere a sé stante nella società nazionale. D’altronde tutto
nella vita militare era regolamento, procedura, cerimoniale: dal suono
della tromba per le razioni di giornata all’alza-ammaina bandiera, dal
saluto d’ordinanza alle esercitazioni in ordine chiuso. La forma è
sostanza diceva giustamente il maggiore Fanizza. E si può anche
aggiungere, parafrasando un vecchio motto sul monaco, che l’abito, la
divisa, fa il militare. Effettivamente a quei tempi la divisa era un
fattore importantissimo, decisivo, per indurre un giovane a intraprendere
la carriera delle armi: e non tanto per ragioni di apparenza, di
abbellimento esteriore (l’uomo in divisa, anche il più scalcagnato, faceva
sempre la sua figura), quanto e soprattutto per ragioni più profonde,
interiori, simboliche. La divi era il simbolo di uno status particolare,
di una condizione privilegiata, e superiore. rispetto ai comuni cittadini.
…. Gli ufficiali di complemento che aspiravano al servizio permanente
effettivo guardavano naturalmente con favore all’entrata in guerra
dell’Italia, perché, con il conseguente incremento dei quadri, avrebbero
avuto maggiori possibilità di realizzare la loro aspirazione. La stessa
cosa poteva dirsi, e a maggior ragione, riguardo agli ufficiali effettivi,
i quali, se non avevano problemi di status, ne avevano però di carriera:
con la guerra, avrebbero potuto ottenere gli avanzamenti di grado e le ambitissirne decorazioni, difficili da conseguire in tempo di pace. E
tutti quanti per la verità apparivano smaniosi di esibire i galloni con
molti filetti e un bel petto (come si diceva) con molte decorazioni. Il
fascismo per la sua politica imperialistica, di cui il militarismo era
l’inevitabile corollario, aveva valorizzato al massimo, oltre ogni merito,
il corpo (o la corporazione) degli ufficiali effettivi, soprattutto
attraverso le guerre d’Africa e di Spagna. Dal canto loro, i beneficati
ricambiavano i favori con un’adesione convinta, spesso entusiastica, al
regime. Sapevano bene che il fascismo rappresentava al meglio, sia i loro
interessi materiali sia i loro valori ideali: i successi bellici del
fascismo erano i loro stessi successi. Perciò, pur proclamando con enfasi
la loro fede monarchica, sanzionata dal famoso giuramento di fedeltà al
re, gli ufficiali di carriera erano quasi tutti autenticamente, convintamente fascisti. Mai forse nella precedente storia d’Italia, c’era
stata, come durante il fascismo, una così piena e genuina adesione delle
forze armate a un regime politico. E del fascismo, per un processo di
identificazione e di osmosi, l’uffìcialità italiana aveva assimilato anche
i vizi peggiori: il culto dell’apparenza e la superficialità
pressappochista, il linguaggio reboante, il carrierismo sfrenato, il
lavativismo irresponsabile. Come scriverà più tardi, a guerra finita, e perduta, il gerarca Filippo Anfuso: Le forze armate italiane si erano permeate gradualmente dello spirito del fascismo, della sua corruttela, del suo affarismo, della sua inefficienza e soprattutto della sua abitudine a badare piuttosto alla retorica che alla sostanza . Dunque, le bellurie anzitutto. La forma è sostanza. “Facite ‘a faccia , feroce”, come ci raccomandava alla scuola allievi ufficiali di Palermo il nostro comandante. Meglio il passo romano delle esercitazioni a fuoco. Ecco le norme, o i principi, se così si può dire, su cui reggeva il nostro ordinamento militare alla vigilia della guerra. Tuttavia, nonostante la politicizzazione e anzi fascistizzazione delle nostre forze armate, gli ufficiali effettivi apparivano indifferenti, sordi, alle ragioni più propriamente politiche e ideologiche che il fascismo propagandava per giustificare la sua politica bellicista. Ogni volta che al circolo ufficiali o in caserma discorrendo dei fatti del giorno, capitava di toccare il tasto politico, subito i colleghi effettivi si chiudevano a riccio rifiutandosi di esprimere opinioni men che conformiste, oppure si rifugiavano nel loro credo tradizionale ripetendo fino alla noia che i militari non dovevano far politica, ma solo obbedire agli ordini del re. Il loro modo di pensare consisteva appunto nell’obbedienza pronta, rispettosa e assoluta quale era prescritta dal regolamento e ribadita dallo slogan mussoliniano “Credere, obbedire, combattere”. Purtroppo lo stesso disinteresse lo manifestavano anche verso questioni tecnico-militari di loro specifica, competenza. In quegli anni nella tecnologia delle armi e, di conseguenza, nella concezione strategica della guerra, era in corso una vera e propria rivoluzione, che si rivelerà in tutta la sua portata di lì a poco nella blitz.Krieg germanica contro la Francia e poi contro la Russia. E tuttavia i nostri militari di carriera sembravano ignorarla, e anzi non ne avevano neanche il sospetto. Sembravano ‘credere che i vecchi sistemi, d’altronde collaudati vittoriosamente in Africa e Spagna potessero funzionare anche in futuro. … Tuttavia, nonostante il diffuso conformismo ottimistico che rimoveva dalle coscienze il senso del reale, anche fra gli ufficiali effettivi c’era chi vedeva chiaramente lo stato delle cose, vale a dire lo stato di disastrosa impreparazione del nostro esercito in ogni campo: armamento, equipaggiamento, addestramento. Le truppe di fanteria (quelle presso cui io prestavo servizio) risultavano prive o carenti praticamente di tutto: cioè non solo di armi e di servizi, ma anche di capi di vestiario strettamente necessari, come le scarpe o le divise di ricambio. |
|
Il Dodecanèso è un arcipelago di 2714 km2 e 145.000 ab. Con capoluogo Rodi. Comprende le isole di Rodi (la maggiore), Coo, Scarpanto, Cálino, Stampália, Caso, Píscopi, Simi, Lero, Nisiro, Patmo, Calchi, Lisso, Gaidaro, Castelrosso, Alinnia, Lévitha, Arkói e tante altre minori. Le isole del D. sono quasi tutte montuose (1215 m a Scarpanto) e povere d'acqua. L'agricoltura (olivo, vite, ortaggi, frutta, tabacco e cereali) l'allevamento ovino e la pesca (in particolare quella delle spugne) sono le principali attività economiche degli abitanti. |
Le armi in dotazione ai reparti, com’è risaputo, erano ancora quelle della prima guerra mondiale, ossia il fucile modello 91, il famoso ta-pum’, la mitragliatrice Fiat 35 (che era poi la Fiat 14 con raffreddamento ad aria invece che ad acqua) e in più il mitragliatore Breda, una pessima arma che s’inceppava facilmente. La mitragliatrice Breda 36. un’arma più moderna, sulla carta in dotazione a tutti i reparti di fanteria, in Egeo non sarebbe mai arrivata: e anzi nel nostro reggimento a certe compagnie mitraglieri, come si è visto, venivano ancora assegnate le famigerate Saint-Etienne . Riguardo ai mezzi di comunicazione e di trasporto, il minimo che si può dire è che non ce n’erano a sufficienza, e anche quei pochi in dotazione apparivano obsoleti, inefficienti o addirittura fuori uso. Ad esempio si usava ancora il telefono da campo a pile, un residuo della prima guerra mondiale, che il più delle volte non si riusciva a far funzionare e che comunque era di limitatissima portata. Inoltre il tipo d’addestramento impartito alla truppa risultava del tutto antiquato, insufficiente e perfino ridicolo. Non si eseguivano quasi mai esercitazioni a fuoco per evitare lo spreco di munizioni, che i magazzini militari fornivano col contagocce ai reparti. Si sprecavano invece le esercitazioni . in ordine chiuso, ossia le marce passo romano e i presentat’arm, che costituivano di fatto l’unica forma d’addestramento della nostra fanteria. Insomma, al soldato non s’insegnava a fare il soldato e ad usare i ferri del mestiere, che d’altronde non esistevano o risultavano fuori uso. In queste condizioni, alla vigilia dell’entrata in guerra, il nostro esercito non appariva in grado d’affrontare non dico un conflitto moderno fra grandi potenze, ma nemmeno una qualsiasi impresa militare abbastanza impegnativa. Purtroppo gli italiani allora, in seguito ai facili successi di questo stesso esercito povero e scalcagnato nelle precedenti spedizioni fasciste in Africa e in Spagna, si erano fatti una falsa idea della effettiva potenza militare del paese. Da quelle esperienze belliche parziali, limitate,avevano tratto la convinzione (e la propaganda fascista faceva di tutto per confortarli nella illusoria credenza) che anche l’Italia fosse diventata una grande potenza. D’altra parte, come sostenevano i fanatici e anche i giornali del tempo, il nostro paese non aveva forse dimostrato sfidando l’Inghilterra durante le inique sanzioni che neanche il leone britannico aveva osato azzannare la Lupa di Roma.? Figurarsi ora che l’Italia fascista si era alleata con un patto d’acciaio al potente Reich Germanico! Chi l’avrebbe più fermata? A questo proposito bisogna ricordare che fra la gente circolavano strane, strampalate opinioni sui rapporti fra Italia e Germania. Si diceva, ad esempio, che la Germania, oltre ad essere un alleato contro natura, era anche una nazione scalognata eternamente perdente: “che vinceva le battaglie, ma perdeva le guerre”. |
"Una faccia, una razza " Nicholas Doumanis, Edizioni Il Mulino Primo vero libro contemporaneo che, attraverso il metodo dell'intervista a numerosi anziani viventi e testimoni diretti della dominazione italiana, ricostruisce le vicende storiche del possedimento. Il Professore Doumanis (di chiare origine greche, rodiote che insegna Storia nella School of History della University of New South Wales di Sidney, in Australia), è discendente di emigranti venuti in Australia dopo l'esplosione di Megisti, ed ha compiuto la sua ricerca tramite l'indagine sul campo e quella documentale. Ne è venuto fuori un quadro storico, rigoroso ed equilibrato, che finalmente va al di là del negazionismo panellenico, un libro che dovrebbero leggere non solo gli italiani ma sopratutto i politici, gli storici e gli intellettuali greci che non hanno mai voluto, nè saputo andare oltre il solito teorema "Italia = regime fascista". http://www.filateliaefrancobolli.it/forum/viewtopic.php?p=44507 le vicende di Castelrosso o Kastelorizo Megisti | |
“Noi non aggrediamo altri, ma chi ci attacca deve sapere che la guerra è inevitabile: senza odio, solo per amore di libertà. - Amici Italiani, vi ho combattuto come nemici della Mia Patria, vi ho pianto nel settembre 1943 come uomo, Vi onoro sempre come combattenti-”. |
Il titolo richiama una frase stereotipata molto in uso tra i greci quando incontrano un italiano. Possibile che tanti anni di occupazione, dei quali ultimi tre come aggressori, non abbiano scalfito il sentimento di amicizia che i greci nutrono per noi? Eppure sottolinea con forza Doumanis nel suo libro, tutta la storiografia greca ufficiale mette in evidenza, per limitarci all'area coloniale, la tendenza "a scrivere la storia del Dodecanneso italiano esclusivamente in termini di 'oppressione' e 'resistenza'". Come è possibile tale discrasia con le testimonianze orali della gente del posto, la quale, seppur riconoscendo molti aspetti "negativi della dominazione italiana, come la chiusura forzata delle scuole greche alla fine degli anni Trenta, hanno anche ricordato" scrive Doumanis "l'epoca italiana come un periodo caratterizzato da opportunità d'impiego, ordine pubblico e sviluppo economico". E aggiunge: "Il dichiarare la propria avversione verso alcuni italiani, specialmente verso i fascisti, non ha impedito loro di definire la maggior parte degli italiani come 'brave persone' (kalì ànthropi), dotate stereotipicamente di buon carattere, calore e umanità". Tant'è che la ricerca di Doumanis non si limita a riportare le tante positive testimonianze dirette raccolte nelle isole, ma soprattutto a capire "perchè esse si siano affermate tra la gente del posto". Diego Zandel |