IL CINEMA  DI MICHELANGELO ANTONIONI

 "SETTE CANNE   UN VESTITO"


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  SETTE CANNE UN VESTITO (DOCUMENTARIO)
Regia: Michelangelo Antonioni

1949 - Durata: 10’ – committente SNIA
http://dailymotion.virgilio.it/video/x2omuu_sette-canne-un-vestito-1949_shortfilms

   

http://www.primiditorviscosa.it/archivi/marinetti_poema.htm  … Fiato fiato fiato e tutto s'innalza in un immenso fiato nelle bocche prone degli alti silos. Poi giù trituratissima miscela stridulante d'agonie giù nei bollitori rossi ostentati ventri d'acciaio nella trasparente cattedralica torre. Colori odori rumori di insolenza guerriera.... F.T.M

  Antonioni nacque a Ferrara nel 1912 e si accostò al cinema dopo la laurea in economia e commercio, attraverso l’attività di critica giornalistica. Al momento della realizzazione del documentario sulla Snia di Torviscosa, il regista aveva già alle sue spalle una discreta produzione documentaristica (Gente del Po, 1943-47, Nettezza Urbana 1948, L’amorosa menzogna, 1949, questi ultimi due entrambi premiati con un Nastro d’argento).Come Regista dopo aver collaborato alla sceneggiatura di "Un pilota ritorna" (1942) di Rossellini e lavorato come aiuto-regista per Marcel Carnè. In sette canne…è possibile ritrovare alcuni degli elementi che saranno approfonditi dal regista nei lungometraggi successivi (Il grido, 1956, Deserto rosso,1964) come la rappresentazione della campagna padana e degli insediamenti industriali che in essa si installano, cambiandola, ma sarebbe una deformazione eccessiva cercare di riconoscere i caratteri del cupo “neorealismo interiore” che sarà la marca stilistica caratteristica delle opere successive del regista. Bisogna segnalare che Antonioni, accettando di dedicare un cortometraggio a Torviscosa, andava a confrontarsi con un precedente, per certi versi “scomodo”, costituito da un’opera celebrativa, scritta da Filippo Tommaso Marinetti nel 1938 (Il poema di Torviscosa in piena stagione autarchica). È impossibile sapere con esattezza se il regista si sia confrontato volutamente con il componimento futurista, ma è impossibile non notare come il documentario segua quasi esattamente la scansione delle immagini evocate dal poeta, seppure cambiandone radicalmente le implicazioni.
   
  Anche Marinetti, come Antonioni, descrive in primo luogo la campagna veneta, soffermandosi però sul contrasto tra la mollezza femminea delle canne e la violenza (quasi uno stupro) con cui avviene la loro raccolta e lavorazione meccanica, vista come una sconfitta da parte della «dea Geometria» incarnata dalla civiltà industriale di cui Torviscosa e lo stabilimento della Snia sono l’incarnazione. Il documentario presenta un immagine armoniosa del mondo contadino, in cui la fabbrica si inserisce in maniera tutto sommato non distruttiva; gli stabilimenti sono «castelli misteriosi» e la trasformazione delle canne è piuttosto un processo magico con cui delle creature nate nel fango si trasformano in principesse (nella sfilata che, un po’ ingenuamente, chiude il film). Anche nella “favola”, tuttavia, trovano posto i forti contrasti tra la bianchezza incontaminata della cellulosa e le immagini più oscure delle macchine, e addirittura, nel commento, vengono utilizzate delle immagini letterarie spesso simili a quelle impiegate quasi un decennio prima da Marinetti, anche se ne viene notevolmente mitigata la violenza e l’esaltazione futurista grazie al loro inserimento, appunto, in un contesto quasi favolistico e al prevalere della finalità divulgativa su quella celebrativa: nel film gli ingranaggi trituratori «si impadroniscono» delle canne, i crogioli «le accolgono», mentre i fogli di cellulosa subiscono una «ubriacatura chimica di soda caustica» e il processo per l’ottenimento della viscosa è descritto come «tempesta chimica» che «realizzerà il miracolo»
     

 

  LABOR OMNIA VINCIT di Stefano Fregonese
Viale Marinotti è l’arteria del paese congiunge la piazza del popolo con gli edifici dell’amministrazione politica e civile, la farmacia e l’emporio alla spianata d’accesso alla fabbrica: un’area vasta come piazza duomo a Milano, chiusa ad est dai cancelli della fabbrica oltre i quali, l’ingresso dell’edificio direzionale è piantonato da due enormi lavoratori scolpiti nel tempo e nella pietra: ma il luogo potrebbe essere altrove, alle porte di Mosca o nella Chicago di Ford: LABOR OMNIA VINCIT, anche le ideologie che cercano di governarlo o di sfruttarlo. A nord, che nasconde la piccola stazione ferroviaria, l’edificio della Fondazione Marinotti, volumi che si intersecano e s’allungano con
la razionalità naturale di Lloyd-Wright. A Sud il piazzale s’imbuta in un naviglio ove un pescatore fa sue le anguille. Il viale che lo fiancheggia porta alla chiesa, tollerata ai margini di un pioppeto, lontano dalla piazza civica e da quella industriale. Questa non è città nata da beghine baciapile ma da lavoratori e fascisti.
Ad Ovest, di fronte ai cancelli della ex Snia-Viscosa ora Bracco l’ingresso a viale Marinotti è custodito da due edifici simmetrici per architettura e funzione: il TEATRO che dispensa cibo per la mente e il RISTORO, la mensa dei lavoratori che nutre il corpo e lo spirito sociale. A lato della mensa il Bar, rimasto quello del ’37, pavimenti di graniglia tirati a lucido e salottini con poltroncine in pelle anni ‘40. Beviamo il caffé e la grappa di tocai. La strada che imbocchiamo, guidati dalla indolenza e dal tocai, è un lungo drizzagno sterrato ombreggiato da due file di pioppi. Sembra non dover finire mai seppur questa in finitezza non angosci perché qui lo spazio, un tempo illimitato e limaccioso, si presenta ora disegnato ad angoli retti: la natura della terra si è lasciata ordinare dalla natura dell’uomo che tende a governare il caos e l’indecisione, spesso rinunciando alla libertà e alla creativa imprevedibilità della vita.
A volte il risultato è più sorprendente di quanto la fantasia immagini. Luca ferma l’auto e scendiamo stropicciandoci gli occhi. Di fronte a noi ad un paio di chilometri di distanza galleggia nel verde della pianura friulana un cargo di svariate tonnellate. Il cassero di poppa e le ciminiere si stagliano nel cielo azzurro. Siamo certi che il mare e la laguna siano altrove e volgiamo la testa ai quattro punti cardinali per rassicurarci che siano ancora al loro posto. Siamo incantati e divertiti. Sapevamo di Marina di Nogaro, un bacino di rimessaggio nel cuore della campagna, ma non ci aspettavamo un effetto così sorprendente. Proseguiamo. All’improvviso ai boschi di betulle e ai pioppeti si sostituisce una fitta ramaglia di alberi e boma, di sartie e vele ammainate come nei quadri soavemente metafisici di Folco Iacobi.

spunti da http://rivistapaginazero.wordpress.com/2007/07/04/torviscosa/  

 

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