Per conpletare questo excursus sull'arte di De Vittorio ci dobbiamo ora occupare della sua poesia legata al suo Salento rivissuto interiormente e filtrato attraverso le immagini della memoria, della vita e della speranza. Una movimentata geografia di simboli e di emblemi si esplica anche nella sua poesia, che diventa espressione di una sofferta esistenza. Il rapporto con la Gallipoli paesana di mezzo secolo fa è stretto e si manifesta sempre più nel ripercorrere paesaggi desolati salentini, scorci gallipolini, squarci di vita di povera gente. Compaiono anche qui gli alberi tipici delle nostre terre: gli ulivi, i fichi, i mandorli, le pale di fichi d'india che inebriano, colorano, fanno vivere i prati in tutte le stagioni. E piangon le chiese lungo la riviera / e, nell'interno, / gli angeli e i santi (Abbandono): le chiese di Gallipoli sparse per tutto il centro storico con la loro carica di mistero, di fede, d'arte, di religione e di superstizione si animano e sembra che vivano e soffrano con l'umanità che le circonda. E il mare diventa ancora una volta il simbolo della vita di un'intera città, ma anche il simulacro dellla morte da cui si odono le urla e i lamenti degli avi che imploran pietà (Abbandono).

In questo suo descrivere quasi incantato la vita di una terra, di un paese, di una gente nata sul mare e col mare nelle vene il De Vittorio spesso ritorna fanciullo e sente sulla sua pelle ormai ringiovanita il rumore dei piedi nell'acqua, / la gioia di aver preso un granchio, / il canto del suo mare (Il distacco).

Egli va alla continua ricerca delle radici della sua esistenza, del suo essere uomo nelle tradizioni paesane di un tempo e le racconta usando la lingua dei padri ormai perduta, il dialetto. In tal modo la sua poesia dialettale riporta alla mente scene di vita e paesaggi, come quello dei cambarini della Purità, ormai perduti per sempre e rimasti impressi, oltre che sulle tele e negli acquerelli, anche nella poesia di De Vittorio.

Si tratta di flash back del passato, di un rivedere, risentire, riascoltare con gli occhi della memoria involontaria episodi della vita di Gallipoli lontani e recenti, insomma si tratta di uno scavare per ricordare quando, da bambini, ci stupivamo per l'acquarulu che girava per le strette vie della città vecchia con un asino e un carretto carico di barili d'acqua; ci meravigliavamo per le storie relative alla superstizione della Santa Monaca, per cui si può trarre auspicio camminando di notte per le mura dalle voci della città semiaddormentata; ci spaventavamo nell'ascoltare la leggenda de lu Mallatrone, quella statua in legno coi vestiti sempre strappati nella Chiesa di San Francesco d'Assisi raffigurante il cattivo ladrone, che rappresenta il male dellla terra.

Ma al di là dei miti e delle leggende che la fervida fantasia dei salentini e dei gallipolini ha coltivato per secoli, nella poesia di De Vittorio non c'è solo la metamorfosi della pietra che si accartoccia e diventa fiore, volto, speranza, anima, c'è anche la sofferenza e la solitudine di una gente, che innalza al cielo echi di bestemmie, che si addormenta e sogna; sogna ciò che non ha, e nel cuore, come nel cuore di De Vittorio, uomo e poeta di carattere, vissuto tra questa gente, s'abbarbica la speranza di nuove aurore (Nuove aurore).

Giorgio Barba