l'Unità

 Giorno della Memoria 

La resistenza tedesca contro la Shoah

L’uomo che visse morendo

di Bruno Gravagnuolo

Questo è un romanzo della memoria. Un piccolo grande romanzo storico. Ma «piccolo» solo per quel tanto che attiene a una vicenda circoscritta nel luogo e nel tempo: la Lunigiana e il Levante ligure. E il tomo di mesi tra fine 1943 e fine 1944. Di rilievo però. Perché la storia si staglia a pieno titolo sull'intera tragedia di quegli anni. E racchiude un'intensa lezione civile. Degna di essere trasmessa, specie ai più giovani. Che del periodo 1943-45 ricevono echi confusi dalla «smemoria» di una storia ridotta a baruffe mediatiche o a recriminazioni strumentali. Per lo più dirette contro la Resistenza e la sua eredità ideale. La  vicenda narrata è presto detta. Ruota attorno a un personaggio comune e singolare: il capitano di marina Rudolf Jacobs, classe 1914, nato a Brema. Il cui profilo Luigi Monardo Faccini ha dissepolto e scolpito con perizia di scrittore-cineasta allenato agli archivi. Figura comune, almeno in apparenza. Alto e segaligno e con il labbro superiore smussato, per chissà quale ferita. Simile, come ha scritto lo stesso Faccini, a certi «magroni» di tratto «celta e longobardo», che appaiono familiari agli abitanti della Lunigiana. Quasi una sagoma modellata dalla stessa fatica dei contadini di quelle parti, abituati a menar fendenti con la falce fienaia nei campi collinari. Ma «ordinario» Jacobs, anche perché eguale a tanti giovani tedeschi di quel tempo spediti nell'inferno della guerra e sparsi ai quattro angoli d'Europa. A impadronirsi dello «spazio vitale» preteso dal Terzo Reich su ordine di Hitler. Nondimeno, c'è qualcosa che «stona» nella figura e nei modi di Jacobs. L'aria fragile di una postura a malapena marziale nel capitano. Almeno come ce la restituisce una foto che lo ritrae. E poi strane propensioni. L'interesse per l'arte. Per un crocifisso di Brueghel perduto in qualche pieve lì attorno. E l'ascolto clandestino della musica classica alla radio, mentre il dramma di fuori imperversa. E un curioso senso di giustizia. Che lo induce a far rispettare i diritti di chi lavora alle costruzioni fortificate sulla costa, per conto della organizzazione Todt. Furono tutte queste cose ad attrarre l'attenzione degli uomini delle Squadre di Azione Patriottica tra Lerici e Sarzana in quel fine 1943. E fu nelle pieghe di queste stranezze, che la singolarità dell’uomo Jacobs irruppe, nella corazza comune che insieme a tanti coscritti tedeschi egli aveva dovuto indossare. Così la notte del 3 settembre 1943 l'ufficiale tedesco abbandona il suo comando col suo attendente. E va a raggiungere i partigiani della Brigata Muccini. Poi l'istruttoria. La diffidenza, il dialogo. La durezza di un confronto tra due mondi, altri e nemici. Che infine si scioglie in fiducia reciproca e diviene amicizia. Travalicando i termini di un contratto vantaggioso per i partigiani, senz'altro allettati dall'acquisto di un uomo in possesso di cognizioni logistiche sui piani degli occupanti. E in grado di fare da interprete con eventuali prigionieri tedeschi. Sta di fatto che Jacobs è ben più che un transfuga con valore di scambio tattico. E non è un semplice disertore, deciso a farla franca con qualche benemerenza in vista del tracollo del suo paese. AI contrario. È un uomo lacerato. Ben conscio dello strappo tragico che ha consumato con la sua pa­tria. Ma consapevole che quello strappo va attuato. E che la scelta di passare al nemico è doverosa. Per riscattare insieme la sua biografia e quella del suo paese. Un paese che con la «deiezione» nel nazismo aveva pervertito le sue migliori tradizioni di umanità cosmopolita e di giustizia. Sicché, contro il parere degli stessi partigiani, Jacobs va incontro alla sua sorte, con un'azione disperata che ha sapore di catarsi. Assalta la guarnigione delle Brigate nere di Sarzana, e cade nel luogo in cui sarà sepolto e che gli darà nuova nascita: il 3 novembre 1944. Cade, come «l'uomo che nacque morendo». La scelta, atto finale di una lunga sequenza ben narrata da Faccini, ha il sapore di un raptus. Ed è pervasa di furia dell'«autentico». Quasi che il capitano abbia voluto togliersi di dosso l'infamia di cui fu pur partecipe. Tentativo di strapparsi la pelle lasciandoci la pelle, alfine riuscito. Non già però gesto suicida. Piuttosto di liberazione e dignità. Per certi versi gesto d'amore verso la nuova patria del Levante che aveva imparato ad amare con la sua gente minuta. Nonché verso la prima patria, restituita alla sua dignità di nazione europea. La terra di Kant, Hegel, Hölderlin, Bach e della grande musica sinfonica che adorava. E c'è dell'altro, forse. Un tema che ha appassionato il cinenarratore e «ricercatore» Faccini. Ru­dolf, «il traditore», si chiama Jacobs, ed è figlio di un architetto umanista e liberale di Brema, che già lo aveva messo in guardia (inascoltato) contro le seduzioni del totalitarismo nazista. La madre di Rudolf è invece una Rosenthal. Jacobs e Rosenthal sono probabilmente due cognomi ebraici, benché entrambi i genitori appaiano cri­stianizzati da generazioni. L'ipotesi è allora che Rudolf, con il suo gesto, abbia pagato un tributo anche all'infamia dello sterminio perpetrato dalla sua patria. E abbia inteso risarcire idealmente la colpa del tradimento che una certa Germania inflisse col nazismo ad un'altra Germania. Da una parte dunque la nazione tedesca classico-umanista e illuminista. Dall'altra il romanticismo reazionario e razzista. Che travalica l'umano richiamo per le «radici», imponendo a se stessa una cittadinanza basata sul «sangue». E al mondo l'imperialismo dei «grandi spazi» da conquistare e purificare etnicamente. Le due Germanie si inseguono in Jacobs. E alla fine l'una, quella luminosa e civile, uccide l'altra, quella oscura e imbestiata. Il prezzo è la morte in battaglia del Capitano. Accanto alla Resistenza. Fin qui la vicenda di Jacobs, emblema morale di tante sconosciute diserzioni tedesche. E che Faccini reinterpreta dall'interno, viaggiando dentro i conflitti dèl protagonista. Ma c'è una verità ulteriore nel romanzo, fatto di echi salmastri di Levante, di umori terragni e sequenze spezzate, di campi lunghi e dialoghi serrati. C'è nel racconto la Resistenza, colta nel suo sapore germinale. Nella sua povertà di ribellione popolare contro il sopruso. E c'è persino il «consenso» alla Rsi. La mediocrità dell'inerzia plasmata dalle abitudini del lungo regime. L'ambivalenza di un mondo che deve sopravvivere. E la famosa «zona grigia» dell'«attendismo». Con le umane viltà di un paese piagato da guerra e occupazione. Curioso paese l'Italia, dove la ferocia poteva convivere con la bonomia e la solidarietà spicciola. E tuttavia, dalla «presa diretta» di Faccini sul set storico dei luoghi, una cosa viene fuori: l'elementare impulso alla Liberazione della gente. Di là del destino di ciascuno. L'impulso partiva da lontano geograficamente. Sotto lo schianto della farsa bellicista-fascista e la sferza di rappresaglie e deportazioni. Da Napoli, con le «Quattro giornate». E poi da Roma «Città aperta», via via per la dorsale appenninica, al nord, verso le Alpi.Verso il povero Levante dei «magroni». Fino alle città liberate dai partigiani, prima dell’arrivo degli Alleati. La Resistenza fu minoritaria militarmente. Ma di popolo. Almeno nel sentimento diffuso della stragrande maggioranza degli italiani. Il che vale anche per quelli che rimasero «alla finestra». Liberazione quindi. Ecco il senso storico predominante di quegli anni. Di gran lunga prevalente anche sugli inevitabili tratti di «guerra civile», dimensione questa che il dato italiano della Rsi collaborazionista, con i suoi volontari, non basta a certificare. Lad­dove si trattò semmai di «guerra ai civili» nazifascista, con annessi contraccolpi. Perciò sbagliano e ci ingannano quelli che riducono il 1943-45 a una faida tra connazionali. Su cui stendere un velo di oblio, oppure un «equanime» giudizio parificatore tra le parti. Del resto «Resistenza», oltre che pulsione elementare contro la ferocia, fu evento europeo. Non certo insorgenza locale e fratricida. Fu istinto collettivo di rivolta contro l'oppressione totalitaria, intriso di valori universalistici: democrazia, eguaglianza, libertà, giustizia, dignità umana. E sono le medesime «stelle polari» che stanno davanti al cammino dell'Europa e del mondo globale di oggi. Le stesse intraviste da Rudolf Jacobs nel suo sacrificio. Ma non discesero dall'alto, come da una legge rivelata. E affiorarono tra il dolore e il brulichio della Napoli occupata. Come in mezzo alle genti di Levante che Faccini ritrae. Solo che lì, tra le Apuane e il mare, accadde l'impensato. L'oppressore si strappò la pelle di dosso. Balzò in prima fila contro i suoi. E divenne fratello degli oppressi.

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«La Germania ha tradito l'umanità...»

IL BRANO Così il disertore Jacobs  i racconta ai partigiani nel romanzo

di Luigi Faccini

Finisci di contarci la tua favola...», gli chiesero, le sera stessa; masticando la razione di pane intinta nel latte. «Dov'ero rimasto?», disse, il Capitano. «A quando navigavi...», disse, l'astioso, che aveva stemperato l'ira con abbondante curiosità... «Ma del mare non ne avevo più voglia. Mi sentivo solo e ignorante. Il lusso miserabile dei postriboli sembrava essere il mio destino, così tornai in Germania. Era il '36. Avevo quasi ventitré anni. Amburgo, Brema, tutte le città industriali, erano in pieno rigoglio. Il lavoro ferveva e il mio Paese sembrava riscattato dalla povertà e dalle umiliazioni che ci avevano inflitto a Versailles con il trattato di pace. Le parate militari erano feste di popolo e a Berlino si preparavano i giochi olimpici. Nessuno si vergognava più di essere tedesco. In quel trionfo io mi ci buttai a capofitto. Mio padre mi dette dell'idiota. «Non solo torni quando è meglio girare al largo, ma non ti accorgi che stiamo danzando sull'orlo di un abisso. Non è una festa. È un funerale!». Non gli volli credere. Lui mi tolse il saluto e rifiutò di conoscere la donna che stava per darmi un figlio. Tentò di prendermi per fame. lo mi trovai un lavoro nei cantieri che fortificavano le coste sabbiose del nord, verso l'Inghilterra. Perché quello era il nemico storico della Germania, quello che ci avrebbe impedito di espanderei ad est. Quando arrivò il patto di non aggressione con i russi, sapevamo tutti che non l'avremmo rispettato. I tedeschi, non solo Hitler, volevano fare un solo boccone della Polonia, per poi andare oltre. I contadini, ma anche tanti operai, parteggiavano per Hitler. E i contadini, in Germania, erano la terza parte della popolazione. Aprii gli occhi dopo il secondo figlio. Le fotografie dei primi campi di concentramento venivano pubblicate sui giornali. Si praticavano violenze pubbliche sugli oppositori politici e sulle minoranze. Aiutai a fuggire dalla Germania un mio collega ebreo. Se non avessi avuto moglie sarei andato via con lui. Compresi fino in fondo l'amarezza di mio padre. Come milioni di miei connazionali avevo messo il collo nel cappio del razzismo e dell'ingiustizia. Ero, come tanti, come quasi tutti, complice di Hitler, prostituito a sogni di potenza che sembravano vicini a realizzarsi. Non potei sfuggire alla guerra. Essere studente e padre di due figli non bastò ad esentarmi. Avevo venticinque anni. Più della sconfitta di El Alamein, fu la difesa a oltranza di Stalingrado, e la strage di soldati tedeschi che Hitler pretese, ad aprire gli occhi a molti. Ma il sogno al quale avevano aderito accecava ancora la maggioranza. Carcerieri di noi stessi e degli ebrei, che Hitler aveva eletto a nostri nemici mortali, non ci restava che seguirlo. Da assassini felici ci trasformammo in gregge assassinato. Dopo Stalingrado venne l'apocalisse di Kursk. Non ne sapete niente? Fu come dieci Stalingrado! Hitler voleva immolarci al sogno di dominio universale che gli sfuggiva. Nacque la congiura per costringerlo a chiedere l'armistizio, perché il mattatoio della guerra avesse fine, perché i tedeschi guarissero dell'infezione hitleriana, perché la Germania era esausta, ma correva incontro alla sua perdizione, perché eravamo, e lo saremmo stati per secoli, l'abominio del mondo. Stauffenberg, Dio l'abbia in gloria, non è riuscito nel suo tentativo. Ma io, appena ricevuta la notizia, ho perduto la voglia di uccidermi. È da quel momento tristissimo che desidero combattere. E se combattere vorrà dire perdere la vita, l'avrò perduta contro l'uomo della distruzione, contro i tedeschi che rifiutano l'umanità quale specchio della comune origine e del comune destino. Rispondo con una domanda all'ultima che avrei voluto mi faceste. Voi vi sentite traditori della vostra Patria? Se la causa per cui vi battete è giusta, gli altri sono traditori! lo non mi considero un traditore del mio Paese. Il mio Paese ha negato l'umanità. Io sono diventato nemico di quel Paese. Come potrei sentirmi un traditore se considero il mondo la mia Patria, se considero l'umanità il mio popolo?», disse, il Capitano, con mitezza inesorabile. I partigiani sarzanesi ne furono conquistati...

«Sei comunista, allora!», disse l'astioso, che sorrideva a tutti denti...

«Non lo so. Non ho avuto il tempo di pensarci...», disse il Capitano...

«Come vuoi che ti chiamiamo?», disse l’astioso, che ormai era solo curiosità...

«Fate voi...»

«Vuoi un nome di animale o di pianta?», disse "Rico". «Ce n'ho di quelli che mi piacerebbe darti...»

«O preferisci il nome di un posto?», disse un partigiano d'età, con i capelli grigi. «Vieni da lontano. Sei straniero...»

«Per i tuoi sei sparito dalla circolazione. Vuoi chiamarti con un nome che non esiste?», disse un altro, dallo sguardo triste, con due fedi nuziali all'anulare sinistro...

«C'è anche Fritz che ha bisogno del nome di battaglia..», disse il Capitano, felice dell'accoglienza che andava manifestandosi...

«lo vorrei un nome che mi ricordasse mia madre e mio padre, la mia città...», disse Fritz, «Non voglio dimenticarmi da dove vengo...».

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LA VICENDA. Si intitola L'uomo che nacque morendo, il romanzo che Luigi Monardo Faccini, regista di film come Garofano Rosso e Nella città perduta di Sarzana, ha dedicato a Rudolf Jacobs, capitano tedesco della Kriegsmarine. Che combatté con i partigiani del Levante Ligure, trovando la morte in un'azione eroica a Sarzana, dove è sepolto, il 3 novembre 1944. Ispirato a una vicenda vera, sarà in vendita domani con l'Unità a euro 6,90 più il prezzo del quotidiano. Opera basata su rigorose fonti documentarie, di cui pubblichiamo la prefazione oltre al brano qui sotto, è affresco genuino della Resistenza e indagine originale sulle diserzioni tedesche.

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Impunità per i nazifascisti: danno la colpa a Togliatti

La maggioranza: «Niente occultamento. Si trattò di amnistia». L’Unione protesta

di Claudio Lenzi

Sessant'anni e quelle 15mila vittime ancora non hanno pace, oltre che giustizia. Si doveva stabilire una volta per tutte chi, come e perché fu deciso di occultare quasi mille fascicoli relativi a crimini nazifascisti perpetrati in Italia tra il 1943 e il 1945 e si è finiti, invece, col dividersi nuovamente sul tema che da troppo tempo sta al centro del dibattito politico italiano: quale il grado di continuità fra il regime fascista e i successivi governi democratici? Colpa di An, che continua a non avere dubbi: l'Amnistia Togliatti avrebbe perdonato «buona parte dei reati compiuti dai fascisti», per 50 anni nascosti in uno stanzino chiuso a chiave di Palazzo Cesi, attuale sede del Consiglio della Magistratura militare, «in quanto le milizie della Rsi non venivano riconosciute forze militari». Per inciso, non lo sono ancora oggi, dopo il tentativo fallito appena 10 giorni fa di equiparare i repubblichini ai partigiani sullo status di combattenti. Quello che più lascia perplessi, però, è che in sintesi, per la destra, non ci fu occultamento. Di fronte a una simile falsità, storica oltre che politica, la Commissione parlamentare d'inchiesta sui crimini nazifascisti, che martedì ha concluso i propri lavori dopo oltre tre anni di audizioni, si è presentata spaccata, con l'Udc del presidente Tanzilli a sostegno della relazione di minoranza del centrosinistra. «Negando l'occultamento - ha spiegato Tanzilli, minacciato di morte durante i lavori della Commissione - si nega tutta una serie di cose. Più grave mi sembra il passaggio in cui i reati commessi dagli italiani vengono ritenuti di natura politica e quindi amnistiabili nel 1959». Se la tendenza, ora, dovesse essere confermata in sede di voto, previsto per la settimana prossima, esistono buone possibilità di un inconsueto «ribaltone» finale. Una relazione che, forte del lavoro della maggior parte dei consulenti (7 contro 4) incaricati dalla Commissione, è andata ben oltre le indagini successive al rinvenimento del cosiddetto «Armadio della vergogna», condotte dal Consiglio della Magistratura Militare nel 1999 e dalla Camera dei Deputati nel 2001. Occultamento ci fu e c'è stato anche dopo il 1994; per almeno 5 motivi: il rifiuto del governo italiano di dare corso alla richiesta di estradizione da parte di altri Paesi (Jugoslavia e Grecia, ma non solo) di militari italiani, quali presunti criminali di guerra, per celebrare i processi a carico di costoro; la discussione a livello internazionale, circa la ricerca di uno strumento di tutela giuridica rispetto al problema della prescrizione dei reati; la contiguità tra la magistratura militare, che avrebbe dovuto giudicare quei crimini, e i militari della Rsi che li avevano commessi; il progressivo accentuarsi della Guerra Fredda, contesto entro il quale non era ben vista la celebrazione dei processi a carico di militari tedeschi. Non v'è dubbio, infine, che i governi italiani dell'immediato dopoguerra erano fortemente impegnati nella ricostruzione del Paese devastato dal conflitto, e quindi protesi alla ricerca di sostegni economici, in particolare dagli Usa. Sulle responsabilità politiche, oltre alle già note missive del 1956 tra Taviani, ministro della Difesa, e Martino, ministro degli Esteri, esiste un ulteriore carteggio entro il quale si può annoverare la corrispondenza di Andreotti, degli anni 1962-1963, relativa alla vicenda Liebbrand e quella del 1965 con Santacroce, relativa ai casi di crimini rimasti impuniti. Andreotti ha ribadito di non sapere niente. «Non è possibile negare l'occultamento e attribuire a un comune sentire di voltare pagina rispetto a un passato doloroso il fatto che non si celebrarono i processi su crimini consumati dai nazifascisti in Italia tra il 1943 e il 1945 - ha detto Carlo Carli, capogruppo Ds e relatore di minoranza in Commissione -. È inaudito, poi, sostenere che i crimini di guerra sono reati di natura politica - ha aggiunto il senatore Ds Walter Vitali ­ come confermato peraltro con una sentenza della Corte di Cassazione sulla vicenda Priebke del 2003». Vero, come vero è il fatto che la vicenda non si conclude qui. Al prossimo governo il compito di creare un archivio della Memoria, di rendere pubblici tutti gli incartamenti custoditi nei vari ministeri e di ridare vigore ai disegni di legge che già 10 anni fa ipotizzavano la soppressione della magistratura militare a favore di una più composita organizzazione della magistratura ordinaria.

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Miriam, voci della Shoah

«Parte della destra – dice Miriam – per rattopparsi l’anima sembra aver scoperto Israele. Forse cerca un’idea di potenza»

di Toni Jop

«Per esempio, li hai visti i manifesti? Ci sono i ritratti di due ragazzi, entrambi con la kefiah. Mi chiedo: che vuoi dire, se non semplicemente strizzare l'occhio ad una platea che si accontenta di quel che ha sempre mangiato e digerito? Se si cerca la pace, perché non mostrare la kefiah accanto alla kippah? Mi chiedo dove stia parte della sinistra mentre so dove sta parte della destra, lo vedo». E dove sta la destra, Miriam? Miriam ha un cognome che viene dalla Libia, Meghnagi, ma è un'ebrea fuggita dalla Libia. Molti in Italia la conoscono, ne conoscono l'arte, perché è una delle voci più intense di un immenso catalogo musicale mediterraneo che orbita attorno alla tradizione ebraica. Una intellettuale e una artista che calca palcoscenici di mezzo mondo con una voce dolce e potente, canta e quando canta è un altro modo del dire le cose di un passato spesso doloroso. Teatro e adesso anche il cinema: sta per uscire il cd con le musiche da lei composte e interpretate nella colonna sonora del film «Giosuè l'ebreo» con cui Pasquale Scimeca ha raccolto alla Mostra di Venezia un caloroso successo.

Allora, Miriam, dove sta la destra.?

Oh, la destra, cercando di rattopparsi l'anima, ha scoperto nella vicenda ebraica tutto ciò che a noi ebrei, e di sinistra, piace di meno: il potere che in qualche modo racchiude.

A cosa ti riferisci?

All'idea di potenza intrinseca nello stato di Israele ­ che io, come molti altri amiamo davvero per motivi del tutto diversi - per l'atomica, perché sostenuto da quell'idea di lobby tenace e molto dotata che per lungo tempo è stata invece ingigantita e demonizza­ta proprio dalla destra culturale europea. Per quell’efficienza militare che nell’immaginario del mondo Israele è riuscita a conquistarsi. Tutto questo sembra aver spostato parte della destra, lo si vede: ora simulano attenzione alla questione ebraica, anzi cercano consensi proprio nelle comunità con una iniziativa intensa che rischia di dare frutti. E intanto ignorano la grandezza di Israele che sta nella sua letteratura, nella sua poesia, nella sua scienza...

Parli di un'opera di seduzione e non fa male diffidare di chi vuole sedurti, soprattutto se fino a qualche istante prima il seduttore ha sottoscritto tutti gli atti di esclusione dell'ebreo...

Dall'altra, a sinistra, purtroppo c'è gente che, secondo me, non ha ancora capito e non riesco nemmeno a dire "pazienza" perché un bel po' di ragazzi non vengono messi nelle condizioni di apprezzare il fatto che Israele non è una forzatura della storia e che la "questione ebraica" non appartiene agli ebrei ma è il dramma dell'umanità. E che, se continua cosi, Israele sarà intesa come l"'ebreo" tra le nazioni.

Ti ho vista e sentita sul palco. Ci sono momenti in cui, raccontando, pare che sotto la pelle della mitezza cerchi di farsi strada una durezza strana che non so definire né con il rancore né con l'aggressività, ma c'è...

Lo so. lo racconto e quasi crollo sotto il peso della testimonianza perché calarsi nelle vesti di un so­pravvissuto è un vero salto mortale. Ricordo cose indicibili che tuttavia non ho vissuto, ricordo l'impronunciabilità di un dolore che non ha eguali nella vicenda di questa Terra. Contribuisco all'elaborazione del lutto. È un'operazione faticosa, trasmette responsabilità. E mentre lo fai, pensi a quanti più o meno educatamente ti rimproverano di non aver fatto niente per resistere alla Shoah. Ma è falso che non ci sia stata resistenza e in questo sussurrato rimprovero c'è una tal dose di crudeltà che...Sì che sono dura, eccome se lo sono, in fondo, è il teatro che mi concede la trasparenza di una testimonianza personale, poiché quella che tu chiami durezza è roba mia, come la dolcezza del resto che prima o poi la riscatta tutta... .

Mitezza, dolcezza: questa è l'anima ebraica che non piace alla destra, non c'è traccia del potere che quella cultura sa riconoscere...

Fermati un attimo, scusa: ce n'è per tutti, e mi di­spiace. Chi sa o ricorda che durante la Resistenza, i molti ebrei che vi aderirono furono costretti a camuffare la loro origine? Che anche dopo la fine della guerra gli ebrei furono ancora discriminati dalla Repubblica?

Aggiungi che ci sono corresponsabili diretti della Shoah che non hanno mai provato a riflettere, non dico a fare autocritica. Penso a intere regioni austriache...

Ho lavorato con il Forum Austriaco e ho incontrato una sensibilità davvero corretta e promettente anche se l'Austria, a differenza della Germania, mi inquieta tutt'ora...

Dici che la tua generazione, quella che non ha visto e vissuto la Shoah, sta contribuendo alla elaborazione del lutto. Chissà se il mondo comprenderà che state svolgendo un servizio universale...

Speriamo. Noi dobbiamo farlo e lo facciamo sospesi su un grande vuoto, quello creato dalla Shoah tra la generazione che ha vissuto e per questo è stata sterminata e la nostra. Tento di riprendere i fili di quei milioni di esseri umani cancellati assieme alle loro storie. In controtendenza rispetto ai modelli di comunicazione: facciamo implodere l'immagine ed esplodere la parola.

l’Unità, 26 gennaio 2006


Nel giorno della memoria

di Furio Colombo

Cè una domanda che, nella festività della pasqua ebraica, viene rivolta a coloro che si riuniscono per celebrare il «Passover»: perché questo è un giorno speciale? I bambini si abituano ad ascoltare questa domanda e aspettano dai più anziani la risposta. Anche nel «Giorno della Memoria» la risposta viene data, ancora per un poco, dai più anziani. E cioè da coloro che c'erano e che sono sopravvissuti alla Shoah. Ma il fatto che l'evento diventi occasione di Storia, narrazioni, rievocazioni, ricordi nelle scuole italiane, il fatto che così tanti ragazzi partecipino da alcuni anni alle visite in ciò che resta dei campi di sterminio, nella raccolta di testimonianze e alle assemblee di ragazzi in cui quelle testimonianze si ascoltano, ci dice che presto saranno alcuni tra i più giovani a spiegare «perché questo è un giorno speciale». Ho assistito a molte assemblee studentesche in questi giorni in varie scuole di Roma, ho incontrato e ascoltato gli studenti che - in occasioni ormai numerose - hanno visitato i campi di sterminio nei viaggi organizzati, e spesso guidati, dal sindaco di questa città, e mi sono reso conto che, tra quei ragazzi che ho ascoltato e a cui ho parlato, non ci sono equivoci sul giorno della memoria. Questa – diranno quando toccherà a loro parlare - non è una commemorazione, non è una celebrazione, non è una funzione istituzionale. Anche se a volte vi sono autorità, non riguarda le autorità. Non risuona nelle piazze ma nelle coscienze. È l'avventura personale e coraggiosa di chi osa accostarsi a un delitto che è avvenuto in Italia, fra italiani sulla base di leggi, di manifesti «scientifici» sulla razza, di denunce volontarie tutte italiane unico Paese in Europa ad avere un re che ha firmato le leggi di discriminazione e di abbandono dei suoi cittadini, unico ad avere avuto la vergogna di un «Tribunale della Razza». Ci vuole coraggio, ho detto, perché imparare, secondo l'imperativa ammonizione di Primo Levi, «a sapere che cosa è accaduto perché potrebbe ripetersi», vuol dire smontare almeno in parte il mito del Paese buono in cui i soli colpevoli sono i tedeschi. Bastano i documenti del Centro di Documentazione Ebraica di Milano per sapere quanti, fra gli ottomila ebrei italiani scomparsi nell'inferno della Shoah, sono stati denunciati (anche a pagamento) consegnati, arrestati e messi a disposizione dei campi nazisti dai loro concittadini, colleghi di lavoro, rivali di cattedra, vicini di casa. Ci vuole coraggio a constatare che tutti (tutti) i firmatari del «manifesto della razza» hanno continuato indisturbati, dopo la liberazione, le loro carriere professionali e universitarie senza neppure negare o abiurare, semplicemente tornando alle loro cattedre e anzi salendo ulteriori gradini di prestigio accademico. Ci vuole coraggio a rendersi conto che la burocrazia italiana ha tenuto testa a lungo alle richieste di indennità, ricostruzione di carriera, restituzione di beni ai sopravvissuti italiani dei campi di sterminio anche anni e decenni dopo la fine del fascismo. Agli studenti del Liceo Flauto di Roma, che hanno documentato in modo limpido e toccante il loro viaggio a Mauthausen, ho potuto ricordare le tre raccomandazioni di un bel testo di David Bidussa: «Il giorno della memoria non è un giorno dei morti, è il giorno dei vivi». È il giorno in cui anche coloro che guardano all'evento tremendo dello sterminio dalla distanza di due generazioni, si rendono conto delle strade a cui si arriva a eventi che appaiono disumani ma sono stati reaizzati da esseri umani in tutto e per tutto simili agli altri esseri umani, non incolti, non selvaggi, spesso bravi e ubbidienti soldati, bravi e obbedienti bur­crati, bravi e obbedienti docenti. «Il giorno della memoria aiuta a capire che tra un "prima" e un "dopo" della civiltà che vantiamo come superiore, c'è un vuoto». In quel vuoto sono stati fatti precipitare dal razzismo fascista e nazista sei milioni di esseri umani ebrei e altri milioni di persone dichiarate moralmente, politicamente o fisicamente inferiori. «La memoria», ha scritto David Bidussa, «non è un fatto ma un atto, l'atto di ricordare. L'apparente semplicità di queste parole contiene due cose vere su cui troppo spesso si sorvola. La prima propone ancora la domanda: che cosa è successo, davvero? È domanda essenziale, in tempi di negazionismo più o meno strisciante, più o meno consapevole. Solo rispondendo a questa domanda si può arrivare all'altra: siamo sicuri che non potrà accadere mai più? Proprio nei «giorni della memoria è stato pubblicato a Roma un libretto dal titolo «Breve sogno». Autore è un docente dell'Università La Sapienza di Roma, Franco Martinelli. Il sogno che qui viene narrato è di combattere a fianco dei tedeschi per «l'onore dell’Italia». È espresso chiaramente con queste parole: «La Decima Mas dopo l'8 settembre si costituisce come corpo militare autonomo che firma un patto di alleanza direttamente con le Forze armate germaniche ed è alle sue dipendenze». «La guerra contro gli alleati era intesa come scontro di forze militari e di culture: la cultura nazionale contro la cultura di nazioni multirazziali come Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna...». «E i partigiani? I partigiani quando ci vedevano scappavano. E io dico: la guerra partigiana non è servita ad accorciare di una frazione di secondo la fine della guerra, anzi è servita a incrementare gli odi». Questa citazione è utile per ricordare che solo pochi giorni fa il Senato della Repubblica Italiana stava per votare la legge che equipara i combattenti di Salò con i partigiani che hanno liberato l'Italia. Ma basterebbe confrontare i nuovi testi di glorificazione degli eroi di Salò con la documentazione nazionale e internazionale sulla caccia italiana agli ebrei per sapere che tutte le forze fasciste hanno combattuto ben poco «a fianco dei camerati tedeschi SS contro gli  americani e hanno agito molto di più come «dipendenti» (definizione di Martinelli) per combattere partigiani e arrestare ebrei (si veda «L'olocausto italiano», di Susan Zuccotti, edizioni Mondadori). Per questo mi è sembrato importante denunciare il rischio della legge che stava per essere votata al Senato italiano nell'incontro con gli studenti romani del liceo Flauto, nonostante le continue vivaci interruzioni del preside di quella scuola che riteneva ogni riferimento a quella legge, «in pieno periodo elettorale», assolutamente proibito. Ma per fortuna ho avuto il sostegno appassionato e totale degli studenti. Sono gli stessi studenti a cui il presidente Ciampi ha detto, poco più tardi: «Adesso siete voi gli eredi di quel passato. Adesso tocca a voi raccontarlo». Ecco che cosa è il giorno della memoria. Imparare e ricordare che la Shoah non è la commovente narrazione di alcuni grandi film, che la spaventosa violenza razziale che ha attraversato l'Europa è un delitto che i nazisti, senza i fascisti, non avrebbero mai potuto commettere, non solo in Italia, ma in tutta l’Europa occupata. Ecco che cosa è il giorno della memoria. Ricordare che la minaccia del presidente iraniano che vuole distruggere Israele è anche negazione sarcastica e crudele della Shoah, una negazione in cui rivive intatta, a distanza di generazioni, la distruttiva anima nazista e fascista. Ecco che cosa è il giorno della memoria. Sapere che, anche quando ti interrompono e vogliono impedirti di parlare, non commetterai mai più il delitto del silenzio. Sul silenzio italiano (anche il silenzio dei grandi, dei celebri, dei famosi) nel periodo delle leggi razziali, l'Italia non ha ancora cominciato a riflettere, preferendo affidarsi alla memoria dei giusti. I giusti sono tanti e alleviano la ferita. Ma molti, molti di più sono stati i complici del silenzio. Il silenzio è il cemento indispensabile dei regimi. Ed è il silenzio che non dovrà esserci mai più.

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Perché non accada mai più

di Piero Fassino

Non è solo ricordo di una spaventosa tragedia del passato, ma un appuntamento che guarda al presente e al futuro. Così il Parlamento italiano la volle, istituendola nel luglio del 2000: perché in ciascuno di noi sia iscritto il ricordo della deportazione e dello sterminio di milioni di ebrei perpetrato dal nazismo. Un annientamento conosciuto anche dagli ebrei italiani, perseguitati non solo dall'occupante nazista, ma anche dal regime fascista e dalla Repubblica di Salò. E se quando parliamo di Olocausto la memoria corre immediatamente ai luoghi terribili di quell'enorme genocidio - Auschwitz, Dachau, Birkenau, Mauthausen, Buchenwald, Ravensbruck  - non possiamo dimenticare che luoghi altrettanto atroci si trovano nel nostro Paese. Il Portico d'Ottavia a Roma, la Risiera di San Sabba a Trieste, il Binario 21 a Milano, il campo di concentramento di Fossoli ­ dove oggi porterò l'omaggio dei Democratici di Sinistra - e gli altri luoghi che furono teatro pubblico del crimine contro gli ebrei rimangono per sempre testimonianza atroce e terribile di ciò che è accaduto anche nel nostro Paese. Il 27 Gennaio non ricorda, dunque, un dolore privato, ma una tragedia collettiva che riguarda la memoria pubblica degli italiani. Le leggi razziali votate all'unanimità dal parlamento fascista, la persecuzione degli ebrei italiani dopo l’otto settembre 1943, la loro deportazione nei campi di sterminio, e infine la loro eliminazione nelle camere a gas e nei forni crematori, non sono il ricordo esclusivo di una comunità e neanche soltanto parte di una tragedia terribile che ha segnato l'Europa in­tera del '900. L'Olocausto del popolo ebraico - e con esso il martirio di tanti altri, antifascisti, prigionieri di guerra, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili mentali e fisici, intere popolazioni slave ­ interrogano la coscienza collettiva di un continente e delle sue nazioni. Pongono sulla bilancia della storia interrogativi universali che riguardano ognuno di noi e ogni generazione. La Shoah - «annientamento» ­ e la macchina dello sterminio messa in funzione in Europa dai nazisti, colpì gli inquilini della porta accanto. E in Italia le leggi razziali fasciste dall'autunno del 38, estromisero dalla vita del nostro Paese migliaia di cittadini che fino a quel momento erano compagni di scuola, colleghi di lavoro, stimati professionisti, amici, uomini pubblici. Migliaia di cittadini italiani ebrei a cui prima si tolse la dignità e poi la vita stessa. Per questo la memoria della Shoah riguarda tutti e interroga il presente. Perché ognuna di noi avrebbe potuta essere quel vicino di casa, quell'amico, quel collega. Perché ciò che è accaduta potrebbe ripe­tersi, pur sotto altre forme e con altre dimensioni. La memoria non è un fatto statico., è un processo, un'azione, un impegno morale. Aver fissata sul calendario civile del nostro Paese la data della liberazione di Auschwitz, il 27 Gennaio del 1945, così come hanno fatta altri Paesi europei e le stesse Nazioni Unite, non significa, dunque, guardare al passato. Perché la memoria pubblica diventi coscienza collettiva, occorre tradurre lo sguardo su quel tempo, in una strumento di lettura della nostra condizione presente. Fare della memoria un atto che si compie tra vivi per mettere in comune tra noi valori che servono ora. Per questa la sinistra italiana ha, oggi come ieri, il dovere di alimentare la memoria e di es­sere protagonista di questa condivisione di valori. Perché è sui valori condivisi che si cementa l'unità di un Paese, la solidarietà di una nazione, il rispetta dell'identità e dei diritti di ognuna. Per affermare così una concezione della cittadinanza fondata non salo sull'uguaglianza dei diritti e dei doveri - i valori irrinunciabili di libertà, eguaglianza e solidarietà della Rivoluzione francese - ma anche sul riconoscimento pieno delle differenze, individuali e collettive e di genere. Ogni anno, nella ricorrenza del Pessah gli ebrei recitano: «in ogni generazione ognuna deve considerare se stessa come personalmente uscita dall'Egitto). Questo lascito che, scavalcando i millenni, chiede ad ogni ebreo di considerare se stessa come liberato dalla schiavitù e di valutare casi ogni giorno ciò che rende liberi, facciamola nostro, come mo­nito operante. Perché nulla e nessuno sia dimenticato. Perché l'orrore che è accaduta, non accada mai più.

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L'obbligo del ricordo

di Corrado Stajano

Anche se si sono visti e rivisti il cancello di Auschwitz, con quella scritta «Il lavoro rende liberi», le immagini dei forni crematori, i cadaveri ammonticchiati simili a larve, anche se si sono ascoltate le memorie dei sopravvissuti e si sono letti i libri della sterminata bibliografia sulla Shoah, si prova ogni volta un colpo al cuore. Si prova ogni volta un colpo al cuore quando ci si trova davanti a un brandello di quel passato, una lettera, un manifesto, una fotografia, un documento. Tutto questo fu vero? Si ha quest'impressione, ad esempio, osservando al Museo di storia Contemporanea di Milano che ha allestito una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia dal 1938 al 1945 la pagella di una bambina che fa da specchio a quel tempo atroce. Si chiama Gisella Vita Finzi, nata a Milano il 17 agosto 1930, «di razza ebraica». Non è iscritta alla Gioventù italiana del littorio, frequenta la scuola mista per israeliti, la IV, alla Scuola elementare di via Spiga, nel centro della città. Siamo nell'anno scolastico 1939-1940, «l'anno XVIII dell'Era Fascista», e la bambina, in una fotografia accanto alla sua pagella, cammina in un viale - le norme «per la difesa della razza» sono state approvate nel dicembre 1938 - leggendo con evidente preoccupazione il Corriere della Sera. Proprio su quel giornale è ora in corso una polemica tra storici e scrittori: se sia utile o meno il «Giorno della memoria», il 27 gennaio di ogni anno, istituito dal Parlamento , con una legge del 20 luglio 2000 in ricordò dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. C'è chi depreca l'evento, fortemente critico. Come se non fosse il frutto di un'umanità riscattata ricordare quella macchia nera che pesa sulla coscienza del mondo. Un mondo dove la causa della tolleranza non è mai vinta, dove ogni conquista civile e sociale va riconquistata, dove i segni dell'indifferenza, del cinismo, della caduta dei lumi sembrano perenni e lo dimostra anche la gratuità di questa controversia giornalistica. Sulla Shoah non si conosce mai a sufficienza, nonostante gli studi, le sentenze dei tribunali del dopoguerra, i materiali documentali accumulati negli archivi. Alla mostra di Milano colpiscono ancora i vecchi album di fotografie delle famiglie ebraiche sterminate, le lettere anonime - gli impiegati della Società Assicuratrice italiana di Milano che denunziano al prefetto il direttore «ebreo despota» - la fotografia della devastazione, nel 1941, della Sinagoga di Ferrata di cui scri­verà Giorgio Bassani, i foglietti di carta da pacco gettati dai convogli dei deportati ­ «Avvertire a Prima negozio di via Nazionale che la moglie e la madre stanno insieme» - , i cartelli sulla porta dei bar: «In questo locale gli ebrei non sono graditi». Drammi e dolore. Non bisogna dimenticare che persino nella Shoah trova posto l'equivoco pregiudizio «Italiani brava gente». Anche Hannah Arendt, nel suo La banalità del male, scrive del comportamento benevolo dei cittadini della penisola nei confronti degli ebrei perseguitati. Ci furono effettivamente uomini e donne che si prodigarono per salvarli. I religiosi furono spesso fraterni, i conventi si spalancarono. Alla Certosa di Farneta, vicino a Lucca, i padri certosini pagarono con la vita. Funzionari dello Stato si barcamenarono nel doppio gioco. Ma ci furono poi coloro che per odio antiebraico, per furore ideologico, per denaro, per vendetta, compirono azioni abbiette condannando a morte con le loro delazioni il vicino di casa, il compagno di scuola, il rivale in amore o in commercio. Queste motivazioni si intrecciano spesso tra loro. I soldi, la car­riera, l'avidità di mettere le mani sui beni degli ebrei fecero insomma da molla all'agire nefando. La solidarietà umana fu scarsa, la paura fu motivata. Anche quei professori universitari che dopo le leggi del 1938 presero il posto dei 96 colleghi espulsi dagli atenei non si posero troppi problemi morali (se non altro, però, non firmarono condanne a morte come fecero più tardi nel tempo tanti connazionali con le loro spiate). È uscito di recente un libro di grande interesse, Caino a Roma, di Amedeo Osti Guerrazzi, professore di Storia contemporanea alla Sapienza, pubblicato dalle edizioni Cooper, documentata ricostruzione di quel che accadde allora nella capitale. La ricerca, che ha per sottotitolo «I complici romani della Shoah» fa crudamente luce sulle responsabilità di tutta una comunità. Non ci fu soltanto l'agire belluino della bande fasciste, La Kock, la squadra Perrone, il gruppo Cialli Mezzaroma di Palazzo Braschi. Ci furono i singoli che approfittarono di quel che stava accadendo e fecero della tragedia ebraica un immondo mercato. Per la denuncia di un ebreo adulto la tariffa pagata dai nazisti era di 5000 lire; per una donna 3000 lire; per un bambino 1500 lire. Questo di Amedeo Osti Guerrazzi è un libro pieno di storie che neppure un giallista nero avrebbe saputo inventare perché eccessive, non credibili. Ma purtroppo vere. Umberto Spizzichino e Luciano Luberti erano amici fin dalle scuole elementari all’Istituto Pestalozzi, in via Montebello. Nel 1944 Umberto decise di fuggire in Svizzera e chiese aiuto all'amico. Luciano gli diede appuntamento in viale Manzoni. Dove le Ss lo portarono in via Tasso, poi a Fossoli, poi ad Auschwitz dove morì il28 agosto 1944. Molti portinai si trasformarono per cupidigia in pericolosi delatori. Come lo diventarono colleghi d'ufficio, baristi, negozianti, piccoli imprenditori che si impadronirono della quota del socio, autisti che denunziarono piena fiducia in loro, trafugatori di merce che gli ebrei avevano nascosto prima di fuggire. Non tutti erano stati uomini di malavita. Colsero l'occasione, diventarono complici delle Ss italiane, furono protetti da questurini, usati dai tedeschi che avevano altro cui pensare in una città cresciuta a dismisura nel numero degli abitanti, sotto il fuoco dei Gap, con gli alleati alle porte. Ci furono anche ebrei che tradirono i correligionari. Come Celeste Di Porto, conosciuta come la «Pantera nera» del ghetto, bella e feroce, legata a Giovanni Cialli Mezzaroma, un ex capitano degli arditi che, scrive Osti Guerrazzi, «ebbe sulla coscienza la sorte di decine di ebrei da lui o dai suoi sottoposti arrestati e consegnati ai tedeschi». Rubarono, depredarono, saccheggiarono in cambio di povere vite vendute. Memorie di un sotto suolo difficile da dimenticare. Davvero si può parlare di retorica sul cosiddetto «dovere della memoria»? Necessità della memoria, piuttosto, segno di libertà. Chi l’ha conosciuto sa bene come Primo Levi voleva che fossero soprattutto i giovani a sapere di quel passato. Perché nulla di simile - fu la sua angoscia fino alla morte - accada mai più.

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Shoah, Berlusconi si dimentica del nazismo

Giorno della Memoria, dal premier nessuna parola sugli sterminatori - Ciampi agli studenti: le leggi razziali fasciste furono una vergogna – Il premier: il comunismo faceva molti più morti … Al Quirinale anche Veltroni: il futuro è di questi giovani che non vogliono scordare

di Mariagrazia Gerina /Roma

Nel Giorno della Memoria, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi impiega circa trecento parole per ricordare la Shoah nel consueto messaggio ufficiale, ma se ne dimentica una: «nazismo». Anzi due: «nazismo»e «fascismo». O meglio, a dirla tutta, si dimentica anche un'altra, non del tutto trascurabile data l'occasione: la parola ebreo. Difficile parlare dello sterminio di sei milioni di ebrei, quasi seimila italiani, senza pronunciare quelle parole chiave. Berlusconi ci è riuscito. Omissione compiuta, anche quest'anno. La stessa amnesia, infatti, aveva colto il premier alla vigilia della partenza per Auschwitz, lo scorso anno. Quel viaggio, a cui Berlusconi fa riferimento nel messaggio ufficiale di ieri e che - a voce - ha detto di voler ripetere «la prossima estate perché la scorsa non è stato possibile» con i figli, non sembra averlo guarito. Una strana forma di memoria selettiva la sua, che lo porta a parlare di «follie contrapposte» in questi termini: «Dall'altra parte c'era un'altra follia, un altro totalitarismo che si chiama comunismo, che era l'impresa più criminale e disumana insieme al nazismo che la storia ricordi, e che faceva ancora più vittime», ha spiegato Berlusconi agli studenti in visita ieri a Palazzo Chigi. «Sono preoccupato quando sento parlare della follia hitleriana, della pazzia del razzismo, del buco nero di Auschwitz», dirà qualche ora dopo il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche Amos Luzzatto, di fronte al presidente della Repubblica, in Quirinale. Altri ragazzi, altri discorsi, durante l'incontro di Carlo Azeglio Ciampi con gli studenti romani che nell'ottobre scorso sono stati in visita ad Auschwitz e a Birkenau. Ad accompagnarli il sindaco Walter Veltroni, il rabbino capo Riccardo Di Segni, il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche, quello della comunità romana Leone Paserman e i sopravvissuti, Tatiana Bucci, Piero Terracina, Shlomo Venezia, Ida Macheria, Giuseppe Di Porto, diventati guide della memoria nei viaggi che il Comune organizza ormai ogni anno. Un'iniziativa che si sta diffondendo «anche presso altre scuole italiane», osserva Ciampi, «e che mi auguro si diffonderà presto in tutta Italia». Nel suo discorso Ciampi ha voluto ricordare la «vergogna delle leggi razziali» e la «violenta aberrazione del nazifascismo», vissute dalla sua generazione, «che però ha saputo trovare in se stessa la forza di opporsi, di resistere e di combattere per la libertà». Dall' «orrore provato entrando ad Auschwitz sessantuno anni fa», ha ricordato Ciampi, «sono scaturite le istituzioni comuni e i valori di cui l'Europa oggi si alimenta» e anche i valori, «libertà, giustizia, pace, che hanno ispirato i sessanta anni di vita della Repubblica che quest'anno celebriamo». L'augurio del presidente è che le nuove generazioni siano «orgogliose» di raccogliere il testimone. «I ragazzi italiani sono migliori di come vengono ritratti», condivide le sue speranze Veltroni: «Se l'Italia può guardare con fiducia al domani è grazie a ragazzi come questi che conoscono l'importanza di non dimenticare nulla della tragedia assoluta che fu la Shoah. Le nostre radici sono in quegli anni». A loro si appella il sindaco: «Perché non si disperda un patrimonio grande e prezioso. Non si rinunci mai al dialogo e non si antepongano mai gli interessi di parte al bene comune, la polemica sterile ai problemi reali del paese».

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Dal ghetto ai lager – La memoria di quel giorno

TESTIMONIANZE E RIFLESSIONI Il racconto del rastrellamento a Roma e l'invito dello storico: gli studi e le ricerche sulla persecuzione antiebraica non sono affatto completati: conosciamo mol­to, ma non abbastanza

di Giacomo Debenedetti

Nel Giorno della Memoria, ci affidiamo alla memoria e testimonianza di Giacomo Debenedetti che in «16 ottobre 1943» (Einaudi, pagine 86, euro 8,00) ha dato voce ai protagonisti di un attimo di un terribile destino collettivo: gli ebrei di Roma rastrellati dai nazisti e deportati nei lager. In questa pagina pubblichiamo un brano del libro.

Pare che il primo allarme l'abbia dato una donna di nome Letizia, che il vicinato chiama Letizia l'Occhialona. «Oh Dio, i mamonni!». «Mamonni» in gergo giudio-romanesco significa gli sbirri, le guardie, la forza pubblica. Erano infatti i tedeschi che, col loro passo pesante e ca­denzato (conosciamo persone per cui questo passo è rimasto il simbolo, lo spaventoso equivalente auditivo del terrore tedesco), cominciavano a bloccare le strade e case del Ghetto. Il proprietario di un piccolo caffè del portico di Ottavia - un «ariano» che, dalla posizione privilegiata del suo locale, ha potuto assistere a tutto lo svolgersi delle operazioni – era giunto poco prima da Testaccio, dove abita. Transitando per Monte Savello e per il Portico, non aveva notato nulla di anormale. (Ci sarebbe stato il tempo di salvarsi, dopo la sparatoria? o il quartiere era già circondato?). Dice che i passi cadenzati, lui cominciò a sentirli verso le 5 e mezzo (sulle ore non è stato possibile mettere d'accordo i testi­moni; quel tempo di sciagura deve essere stato terribilmente elastico, soggetto a valutazioni soltanto psicologiche). Non aveva ancora aperto la bottega, stava mettendo sotto pressione la macchina dell'espresso: socchiuse un battente, e vide. Vide lungo i marciapiedi due file di tedeschi: a occhio e croce, forse un centinaio. Nel mezzo della via stavano gli ufficiali, che disposero sentinelle armate a tutti i canti di strada. I radi passanti si fermavano a guardare. I tedeschi non si interessavano di loro. Solo più tardi cominciarono ad acciuffare chi portasse involti o valigie, indizi di tentata fuga. Noi seguiteremo a parlare del Ghetto, perché fu l'epicentro della razzia. Ma in altri punti della città il lavoro si era iniziato parecchie ore prima. Risulta, per esempio, che un avvocato, Sternberg Monteldi, da Trieste, era stato preso fin dalle 23 della sera precedente all'Albergo Vittoria, dove abitava con la moglie. Qui cominciano gli interrogativi sui criteri e sul modo come la razzia venne regolata. L'avvocato e la signora erano muniti di passaporto svizzero, quindi non figuravano sui registri della popolazione romana; non avevano fatto denuncie razziali, quindi non risultavano ebrei. Come giunsero i loro nomi alle Ss? Quanto alla procedura, si sa che in questo caso il fermo venne intimato in maniera durissima: i coniugi furono costretti a vestirsi alla presenza dei militi, che tenevano le armi puntate su di loro. Questo inizio anticipato avrebbe potuto gravemente pregiudicare i piani tedeschi. Sarebbe ba­stato che la notizia se ne propalasse, come avvenne la mattina successiva, che subito, non appena cominciata l'azione in grande, corse per tutta la città, permettendo ad amici e perfino a commissari di P.S. di avvertire parecchi interessati, quelli almeno a cui si poteva telefonare. Giunto la sera prima, un simile allarme avrebbe svuotato una buona metà delle case ebraiche. Invece l'arresto degli Sternberg, quantunque effettuato in un albergo, rimase segreto, le chiacchiere dei camerieri e del portiere di notte non bastarono a farlo trapelare, nemmeno negli uffici di Polizia, a quanto si dice, ne ebbero sentore; sicché la mattina dopo i tedeschi poterono operare ordinatamente, secondo i piani prestabiliti e col più ampio successo. Entriamo ora in una casa di via S. Ambrogio, nel Ghetto. Potremo seguire la razzia in tutte le sue fasi. Verso le 5 (ora psicologica, ripetiamo), la signora Laurina S. viene chiamata dalla strada. È una nipote che le grida: «Zia, zia, scendi! I tedeschi portano via tutti!». Questa ragazza, qualche momento prima, uscendo di casa in via della Reginella, aveva ve­duto portar via una intera famiglia con sei bambini, il maggiore dei quali di dieci anni. La signora S. si affaccia alla finestra. Vede ai lati del portoncino due tedeschi, armati di moschetto (o di mitra, non sa specificare). Qui si domanderà come abbia potuto la nipote gridare così dalla via, e parole tanto esplicite, alla presenza di due tedeschi (la via è angosciosamente stretta, un budello). Ripetiamo che i tedeschi, in massima, non rastrellarono la gente per via: fuor di caso furono presi soltanto quelli che, infelici, vollero farsi prendere. Né bisogna credere che la tragedia si sia svolta in un'atmosfera di muta e trasecolata solennità: le persone seguitavano a parlare tra di loro, a gridarsi degli avvisi, delle raccomandazioni, come nella vita di tutti i giorni. La fatalità svolgeva il suo lavoro sostanzioso, senza preoccuparsi del cerimoniale, senza badare alle inezie di forma. Il dramma entrava nella vita, vi si mescolava con una spaventosa naturalezza, che lì per lì non lasciava campo nemmeno allo stupore. Dapprima la signora S. suppose, come tutti, che i tedeschi fossero venuti a portar via gli uomini per il «servizio del lavoro». Questa idea, sparsa probabilmente ad arte, fu la rovina di molte famiglie, che non pensarono a mettere in salvo vecchie donne e bambini. Comunque, fidando nella presunta immunità delle donne, la S. si rifà cuore, si veste alla meglio, prende carte annonarie e borsa della spesa, poi scende per cercare di capire di che si tratti. Qualche giorno prima è caduta, trascina una gamba ingessata. Giunta per via, si avvicina ai tedeschi di sentinella, offre loro da fumare, quelli accettano. Dei due, l'uno poteva avere un venticinque anni, l'altro ne dimostrava una quarantina. Come in tutte le Mie Prigioni c'è sempre un carceriere buono, così in questa razzia ci saranno le Ss di ­ gran cuore: questi due, per esempio. La leggenda formatasi poi nel Ghetto ha deciso che fossero due austriaci. «Portare via tutti ebrei...» risponde il più anziano alla donna. Costei si batte la palma sull'ingessatura: «Ma io gamba rotta... Andare via con la mia famiglia... ospedale...» «Ja, ja» annuisce l'«austriaco», e con la mano le fa cenno di svignarsela. Mentre aspetta la famiglia, la S. pensa di mettere a frutto la sua amicizia con i due soldati per veder di salvare qualche vicino. Chiama anche lei dalla strada: «Sterina! Sterina!» «Che c'è?» fa quella dalla finestra. «Scappa, che prendono tutti!». «Un momento, vesto pupetto, e vengo». Purtroppo vestire pupetto le fu fatale: la signora Sterina fu presa con pupetto e con tutti i suoi. Dalla via del Portico di Ottavia giungono lamenti mischiati con grida. La signora S. si affaccia all'angolo della via Sant'Ambrogio col Portico. Com'è vero che prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po' sconnessa, le famiglie rastrellate: una Ss in testa e una in coda sorvegliano i piccoli manipoli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti coi calci dei mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni. Già sui visi e negli atteggiamenti di questi ebrei, più forte ancora che la sofferenza, si è impressa la rassegnazione. Pare che quell'atroce, repentina sorpresa già non li stupisca più. Qualche cosa in loro si ricorda di avi mai conosciuti che erano andati con lo stesso passo, cacciati da aguzzini come questi, verso le deportazioni, la schiavitù, i supplizi, i roghi. Le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini, conducono per mano i più grandicelli. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare: ed è anche più tremendo che dover dire: «non ce n'è» ai figli che chiedono pane. D'altronde è questione di tempo: se non li uccidono prima, verrà l'ora anche per questo. Taluno bacia le proprie creature: un bacio che cerca di nascondersi ai tedeschi, un ultimo bacio tra quelle vie, quelle case, quei luoghi che li hanno veduti nascere, sorridere per la prima volta alla vita. E certi padri tengono la mano sul capo dei figlioli, col medesimo gesto con cui nei giorni solenni hanno impartito la Birchàd Choanim: «Ti benedica il Signore e protegga...» - quella che invoca, per i figli di Israele, e promette la pace.

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La storia della Shoah ha ancora bisogno di Storia

di Michele Sarfatti

Anche questo 27 gennaio 2006 assistiamo al fiorire di mille iniziative sulla memoria della Shoah (e non solo). L'istituzione del Giorno della Memoria ha portato a una sorta di esplosione memoriale, che vede coinvolti comuni e scuole, enti culturali e prefetture. È troppo? È poco? No, non è di quantità che voglio parlare. Né voglio addentrarmi nella questione della qualità. Voglio porre pubblicamente una questione di altro genere. Voglio richiamare l'attenzione collettiva sul fatto che la Shoah ha un estremo bisogno di ricerca storica. La quale ricerca invece oggi appare in affanno, rispetto alla moltiplicazione delle benemerite iniziative di ricordo. Ma cos'è questa ricerca storica ancora mancante? Non conosciamo già molto di quella vicenda? Sì, conosciamo già molto. Ma: no, non conosciamo abbastanza. Faccio alcuni esempi. La ricerca storica è quella cosa che ci permetterà di sapere in quali strade abitavano e in quali strade vennero arrestati (o, invece, sfuggirono all'arresto) gli ebrei di Roma o di Siena o di Genova. Potremo così avvicinarci a conoscere chi preparò le liste degli arrestandi o a formulare ipotesi di lavoro più concrete sui meccanismi della salvezza. La ricerca è quella cosa che ci permetterà di sapere, ad esempio, quanti magistrati ebrei italiani vennero espulsi nel 1938, e quanti di questi furono poi uccisi. Oggi non lo sappiamo. La ricerca è quella cosa che ci permetterà di appurare, documenti tradotti e cronologie alla mano, quanto vi fu di originale e quanto di emulazione nelle legislazioni antiebraiche varate a Berlino, Brati­slava, Bucarest, Budapest, Roma, Sofia, Vichy, Zagabria. Oggi non lo sappiamo. La ricerca è quella cosa che ci permetterà di sapere cosa stava facendo in Romania l'italiano fascista antisemita Guido Landra, mentre lì si ammazzavano gli ebrei. Oggi non lo sappiamo. La ricerca è quella cosa che ci permetterà di sapere cosa facevano i rappresentanti della Repubblica Sociale Italiana a Bucarest, mentre la Romania non consegnava più ebrei ai nazisti e i repubblichini invece sì. Oggi non lo sappiamo. L'elenco potrebbe continuare a lungo. Ma la sostanza non cambia: la ricerca storica sulla persecuzione antiebraica non è affatto completata. Certo, in questi anni molto è stato fatto, innanzitutto dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea e poi da istituti storici, dipartimenti universitari, gruppi di ricercatori locali esistenti in varie città. Ma, come detto, la ricerca non è più in equilibrio con la crescita delle iniziative di memorizzazio­ne e delle conseguenti richieste sempre più specifiche. La soluzione della questione è nelle mani della società. Speriamo che opti per il potenziamento della ricerca.

l’Unità, 27 gennaio 2006

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