l'Unità

"Dio non perdonare i carnefici". Offesi da Varsavia gli ebrei pregano a Birkenau. Auschwitz 50 anni dopo. Anche il Nobel per la pace Wiesel diserta la cerimonia ufficiale. Il tedesco Herzog unico capo di Stato presente al rito nel lager 

di Paolo Soldini

Due cerimonie contrapposte. Da una parte quella ufficiale, organizzata dalle autorità polacche e polemicamente disertata dalla maggior parte delle delegazioni ebraiche, che si sono viste espropriate dell' Olocausto. Dall'altra la preghiera degli ebrei a Birkenau. Con loro, unico capo di Stato, il presidente tedesco Herzog. Elie Wiesel, premio Nobel per la pace: «Nessuna pietà per i carnefici». Walesa ricorda il suo anti-totalitarismo.

AUSCHWITZ. «Dio misericordioso, non avere pietà per coloro che, costruirono questo luogo. Non avere pietà per coloro che non ebbero pietà dei bambini ebrei. Non perdonare n' loro né i loro complici». Elie Wiesel è invisibile, sommerso, dalla folla, ma la sua voce si sente chiara. Sale nel vuoto di un silenzio improvviso, grave come il messaggio che porta. Ė un momento duro, una pietra sull'anima, questa cerimonia. Preghiera, discorsi, silenzi in un pomeriggio di disgelo, con l'aria quasi tiepida in pieno inverno. Quando succedeva, allora sembrava una buona cosa che il freddo se ne fosse andato. Ma poi si scioglieva la neve e il fango invadeva tutto: non c'era mai «un meglio» ad Auschvvitz, come dice Maria König, una sopravvissuta. Anche adesso c'è il fango in fondo alla ferrovia che porta dritta dritta dentro Birkenau, la fabbrica della morte a due chilometri dal campo originario, sul piazzale tra il crematorio 2 e il crematorio 3. Quelli forniti dalla premiata ditta Topf di Erfurt, i cui eredi, oggi, rivogliono beni e proprietà sequestrati dai sovietici dopo la guerra e c,è già una bella pratica in corso. Sotto ad ognuno, disposte a “L” c'erano le camere a gas. Semplicissimo: sotto si ammassava e sopra si bruciava; Höss, il capo del Lager, prima di essere giustiziato fece in tempo a vantarsi: tutto funzionava così scientificamente che riuscivamo a «liquidare» anche 2Omila prigionieri al giorno. Poco più in là verso l'ingresso del campo, dove il binario si sdoppia, c'era la rampa dove avveniva la “selezione”, con il semplice cenno della mano di un medico: da una parte quelli giudicati ancora in grado di lavorare; dall'altra, direttamente alle camere a gas, le persone anziane, quelle già troppo consumate dalla fame e dalla debolezza. E i bambini. Quanti bambini sono stati uccisi ad Auschwitz e Birkenau? Nessuno lo sa, ma si calcola che possano essere stati tra il 10 e il 15% dei totale degli ebrei uccisi nei lager, che oscilla tra 1,2 e 1,6 milioni. Più di centomila dunque, forse duecentomila. Sono i bambini di cui parla Wiesel, in questo silenzio di piombo che impone la sua legge anche a fotoreporter e cameraman, perfino ai queruli inviati a caccia di interviste nella propria lingua. “Tanti bambini, tanti, sempre di più, che arrivavano così quieti e così belli», quelli che «nella memoria ora spezzano il cuore a noi, ma non toccarono il cuore dei loro assassini”. Da una parte e dall'altra della ferrovia ci sono le baracche. Quelle a destra guardando l'ingresso ospitavano le donne e si sono conservate. Quelle a sinistra, quelle degli uomini, furono smantellate dai polacchi, perché ne avevano bisogno a Varsavia, durante i lavori per la ricostruzione dei centro storico.

Sparuta delegazione italiana.

Molti girano per il campo alla ricerca di tracce di chissà cosa, ricordi propri, segni del passaggio d'un padre, d'una madre, d'un fratello, d'un congiunto, d'un conoscente. 0 solo in un tentativo di capire, di cercare, un contatto fisico che aiuti a stabilire una relazione con l'assurdità, di questo cimitero senza tombe, nel quale, come dice una donna, “camminiamo sulle ossa dei nostri morti”. Un gruppo composto da Marcello Pezzetti, storico del Lager, Luisella Mortaro Ottolenghi, del centro di documentazione ebraica, e una delegazione del consiglio regionale lombardo (è l'unica rappresentanza ufficiale dei nostro paese, oggi e non è molto), cerca testimonianze del passaggio di deportati italiani. Là in fondo è la baracca della quarantena raccontata da Primo Levi nel suo libro; qua proprio davanti al camino del forno numero 2, c'erano due ebree italiane, che hanno raccontato come si poteva morire di freddo o di caldo ammucchiate in dieci sulle tavole che facevano da «letto». Da una delle finestre si poteva vedere e ascoltare, forse, l'orchestrina delle detenute che, per ordine delle SS, era costretta a suonare sulla rampa all'arrivo dei treni e durante la «lezione», e poi quando i Kommandos uscivano o tornavano dal lavoro. Qualche settimana fa è stata pubblicata la storia di una ragazza dell'orchestrina: imparò a suonare la fisarmonica e si salvò. Prima di Wiesel altri hanno parlato, ed altri parleranno dopo. In un ventaglio di lingue che ridisegna quella koinè linguistica e culturale, quell'inquieto ma fecondo miscuglio di genti che fu questo pezzo d'Europa centrale e la cui unità i nazisti (anche questa è una colpa, e grave) distrussero per sempre: il polacco, lo yiddish, il tedesco, l'ebraico. Nell'ebraico i nomi dei martirio hanno conservato il loro suono tedesco, sembrano gocce di veleno,quando parla Sheva Weiss, il presidente della Knesset per ricordare che Auschwitz è il più grande cimitero ebraico del mondo, e diventano un grido disperato alla fine del Canto dei morti intonato dal Gran Rabbino di Polonia Menachem Joskowicz, prima che tanti, con la kippà e il talled sulle spalle depongano corone e bandiere con la stella di David sulle rovine del crematorio 2.

Critiche feroci

Wiesel ha parlato in inglese. E in inglese, forse perché il suo messaggio arrivi proprio a tutti, parla anche Jean Kahn, presidente del Congresso ebraico europeo. Ė l'intervento più «politico», e il più duro. Kahn denuncia l'indifferenza nei confronti dell'Olocausto, «le falsificazioni, i tentativi di banalizzare il martirio, quelli degli storici "revisionisti"». Ma ci sono responsabilità anche «in una parte della chiesa cattolica», che ha cercato di «cristianizzare la Shoah»,  mentre le autorità polacche hanno cercato di «organizzare una cerimonia nazionalistica nascondendo l'Olocausto». La critica è pesante, richiama antichi contenziosi e rimanda, intanto, alla polemica di questi giorni e di queste ore. Quella per cui le organizzazioni ebraiche hanno deciso di indire questo appuntamento, diverso e contrapposto alla prima cerimonia, ufficiale e «polacca», che si era tenuta un paio d’ore prima all’università di Cracovia. Molti sono tenuti qua nel fango del campo, per non andare là, tra i banchi preziosi dell’antico ateneo jagellonico. Alcuni invece partecipano a tutte e due le cerimonie, nello spirito che Maurice Goldstein, presidente del Comitato internazionale degli ex deportati nei campi di concentramento, spiega qui a Birkenau: il momento è grave e chiede l’unità più larga; il significato di Auschwitz non sta nella memoria ma nel presente, in un mondo in cui ricompaiono odii razziali e pulizie  «etniche», di fronte a una gioventù che è insidiata da ideologie neonaziste ed sposta alle menzogne di chi nega perfino la verità storica dell’Olocausto. Ma Diesel, Kahn, il presidente della comunità ebraica tedesca Ignatz Bubis, Sheva Weiss all’università non si sono fatte vedere, segnalando una rottura che è dolorosa e che, da parte polacca, c’era stato anche qualcuno che aveva cercato di ricomporre, almeno negli ambienti del cattolicesimo più liberale. Invano. Mercoledì sera, d’altronde, la tensione era precipitata in un vero e proprio incidente, con il fermo da parte della polizia del rabbino newyorkese Avri Weiss, il quale aveva cercato di impedire la celebrazione di una messa nella chiesa cattolica adiacente a Birkenau.

Walesa anti-totalitario

Eppure ci sono anche note positive e di speranza nel confuso calderone di eventi di questo cinquantenario. Accanto ai rabbini e agli esponenti delle organizzazioni ebraiche, alla preghiera e ai discorsi qui a Birkenau s'è visto, con un cappello nero calcato sulla testa, Roman Herzog. La presenza del presidente della Repubblica tedesco è stata una scelta consapevole e coraggiosa, un gesto morale e politico compiuto mandando consapevolmente al diavolo gli scrupoli diplomatici che avrebbero potuto sconsigliarlo. E forse anche le considerazioni di politica interna che hanno sempre frenato altri alti dirigenti politici (come il cancelliere, tanto per fare un nome), da dimostrazioni troppo impegnative. Insieme con il collega bulgaro Jeliu Jelev, Herzog è stato l'unico fra i capi di stato e di governo che sono stati invitati alle celebrazioni a chiedere di partecipare anche alla preghiera di Birkenau. Aveva avuto un tono del tutto ufficiale, invece, la cerimonia all'università, quella durante la quale Lech Walesa, il primate polacco Jozef Glemp e il rettore delll'ateneo Aleksander Koj hanno aperto le celebrazioni del cinquantenario, che sono proseguite nel pomeriggio con riti religiosi nei templi di cinque confessioni a Cracovia e con l'esecuzione di un'opera di Penderewski per culminare oggi in una commemorazione davanti all'ingresso di Birkenau. Ieri all'università Walesa ha rivendicato le sue battaglie da leader di Solidarnosc «contro il totalitarismo, l'asservimento e l'umiliazione della dignità dell'uomo». Gli stessi valori, ha detto, vuoi far valere oggi da presidente della Repubblica.

Da l'Unità, 27 gennaio 1995, per gentile concessione

sommario