l'Unità

I martiri di piazzale Loreto
di Ibio Paolucci

Quindici cadaveri sbattuti impietosamente sul selciato guardati a vista per tutta la giornata dai fascisti della Guardia nazionale al servizio degli occupanti nazisti. È la mattina del 10 agosto 1944 e i Quindici, prelevati da San Vittore, sono stati fucilati poco prima su ordine del capitano dele SS Theodor Saewecke, il boia di Piazzale Loreto, da un plotone della legione «Ettore Muti». I Quindici, di estrazione sociale diversa e di diversa età, erano stati condannati a morte in risposta ad uno strano attentato compiuto due giorni prima, alle otto del mattino. contro un camion tedesco targato WM 111092. Parcheggiato in viale Abruzzi cinque ore prima dal caporal maggiore Heinz Kuhn, che poi si era pesantemente addormentato sul volante, il mezzo, colpito da uno o più ordigni, saltò in aria, ferendo leggermente l'autista e provocando la morte di sei passanti e il ferimento di altri di altri cinque, tutti italiani. Nessun morto fra i tedeschi e, quindi, stando alle disposizioni, pur feroci, dei tedeschi non avrebbe dovuto esserci nessuna rappresaglia. Il bando di Kesserling, infatti, prevedeva la fucilazione di dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Strana, come si è detto, anche la dinamica dell'attentato. Difficile da capire perché il caporal maggiore Kuhn avesse parcheggiato l'automezzo in quel posto quando, a poco più di un centinaio di metri, in via Battaglia, esisteva un'autorimessa controllata dalla Wehrmacht. Ora, quel militare, non poteva non sapere che parcheggiare in pieno centro, restando sopra il mezzo, in una Milano dove le forze partigiane erano molto forti, era estremamente pericoloso. Per completezza informativa, inoltre, occorre ricordare che il comandante dei Gap, Giovanni Pesce, medaglia d'oro al valor militare, ha sempre escluso che quell'attentato fosse opera dei suoi uomini. Dunque, un mistero. Nessun tedesco ucciso ma Saewecke impose la fucilazione di quindici antifascisti. Fu sua la compilazione della lista. Lo attesta l'impiegata Elena Morgante, del comando delle SS di Milano. La decisione dell'orrendo massacro, fu interamente tedesca. Gli Italiani furono tagliati fuori, usati solamente come manovalanza. La Morgante, infatti, quando venne interrogata dagli inglesi della «Special Investigation Branch», affermò di avere ricevuto il 9 agosto del '44 dal capitano delle SS, Theodor Saewecke, la lista dei quindici da fucilare perché la battesse a macchina e di aver sentito impartire l'ordine di andarli a prelevare a san Vittore, indicando anche le modalità esecutive. Le stesse autorità fasciste furono messe di fronte al fatto compiuto. Il massacro dei Quindici martiri di piazzale Loreto e il macabro spettacolo dei loro cadaveri lasciati sotto il torrido sole d'agosto, suscitò una profonda ondata di commozione e di sdegno, al punto che persino Mussolini fece sapere all'ambasciatore Rahn che tali metodi «erano contrari ai sentimenti degli italiani e ne offendevano la naturale mitezza». Figurarsi: la mitezza delle tante stragi naziste, delle inumane torture e degli assassinii quotidiani. Quindici i martiri ed ecco i loro nomi: Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo Del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Giovanni Galimberti, Vito Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti, Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo, Vitale Vertemati. A loro, Alfonso Gatto, ha dedicato una magnifica poesia: «Ed era l'alba, poi tutto fu fermo/ la città, il cielo, il fiato del giorno./ Rimasero i carnefici soltanto/ vivi davanti ai morti./ Era silenzio l'urlo del mattino,/ silenzio il cielo ferito:/ Un silenzio di case, di Milano./ Restarono bruttati anche di sole,/ sporchi di luce e l'uno e l'altro odiosi,/ gli assassini venduti alla paura». Nello stesso piazzale il 27 aprile del 1945 vennero scaricati i cadaveri dei gerarchi fascisti, compreso quello di Benito Mussolini, fucilati a Dongo, su ordine del CLN. Soltanto oltre cinquant'anni dopo, in un tribunale militare italiano, è stato possibile chiedere giustizia. A Torino il Pm Pier Paolo Rivello, al termine di una lunga e rigorosa inchiesta, ha chiesro e ottenuto nel 1999 la condanna all'ergastolo per Saewecke, naturalmente in contumacia. Quel processo, però, avrebbe potuto celebrarsi 50 anni prima, nella primavera del 1953, se il fascicolo che lo riguardava, come peraltro tantissimi altri, non fosse stato nascosto nell'armadio della vergogna, dove rimase sepolto fino al dicembre del 1995. In quel lunghissimo periodo, Saewecke, morto nel 2004, nel proprio letto, alla bella età di 93 anni, non solo non è stato processato, ma ha potuto ricoprire nella RFT incarichi di grosso rilievo: collaboratore dei servizi segreti americani, consigliere del governo federale, direttore delle scuole di polizia, vice capo della polizia di sicurezza, incarico quest'ultimo con il quale il criminale nazista è andato in riposo, fruendo di una lauta pensione.

Da l'Unità, 9 agosto 2005, per gentile concessione

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