l'Unità

 Giorno della Memoria 

1946, a Glasgow nasce il "negazionismo"

di Francesco Cassata

Il primo a negare la Shoah fu, a quanto pare, uno scozzese di nome Alexander Ratcliffe, leader della Scottish - poi British - Protestant League, eletto consigliere a Glasgow nel 1933 sulla base di una campagna anticattolica. Tra la fine del 1945 e l'inizio del 1946, sulla rivista Vanguard, Ratcliffe sostenne che la Shoah era un’invenzione degli ebrei e che i cinegiornali, che mostravano la carneficina di Belsen e altri campi, erano in realtà pellicole «contraffatte nelle sale cinematografiche ebraiche». Da allora fino ai nostri giorni, il negazionismo ha rappresentato un filo rosso della destra radicale europea e americana: da Maurice Bardèche a Paul Rassinier, da Robert Faurisson a David Irving. Fino agli italiani, come Cesare Saletta o Carlo Mattogno. In Italia, gli esordi del negazionismo appaiono piuttosto stentati e risalgono probabilmente - come sostiene il principale storico dell'argomento, Francesco Germinario - al 1963, data della pubblicazione di un opuscolo da parte del Gruppo di Ar di Franco Freda. Emerge in queste pagine un'argomentazione centrale della futura pubblicistica negazionista: quella della non funzionalità dello sterminio degli ebrei rispetto alle necessità economico-militari del regime nazista in guerra. La Shoah sarebbe storicamente impossibile - si afferma - perché in contraddizione con le esigenze produttive dell'economia tedesca. Negli anni Sessanta e Settanta, il negazionismo italiano conosce due successive false partenze. Tra il 1965 e il 1967 vengono pubblicate, con scarsa diffusione ed eco, le principali opere del negazionista francese, Paul Rassinier, mentre, più di un decennio dopo, alla fine degli anni Settanta, si apre una nuova, effimera stagione di fermento negazionista con l’uscita di Auschwitz o della soluzione finale. Storia di una leggenda di Richard Harwood (pseudonimo del negazionista inglese Richard Verral) e di Lettera al Papa sulla truffa di Auschwitz dell’ex-generale delle Waffen-SS, Léon Degrelle. Nei due saggi sono sintetizzati alcuni luoghi comuni tipici del negazionismo: l’internamento nei lager come misura provvisoria derivante dal fallimento della politica antisemita precedente; il drastico ridimensionamento del numero delle vittime; l’inesistenza delle camere a gas e dei forni crematori; la banalizzazione della Shoah come momento comune a tutte le guerre. È questo un negazionismo dichiaratamente neonazista e antisemita, che non esita a riaffermare l’immagine diabolica dell’ebreo. Con una delle più paradossali aporie del cospirazionismo antisemita, tanto per Degrelle quanto per Harwood, Auschwitz è anch’esso espressione del complotto ebraico: la menzogna dello sterminio ebraico sarebbe stata costruita dagli ebrei per colpevolizzare storicamente i nazionalismi europei, per meglio attuare il dominio sionista-colonialista sull’Occidente e per realizzare la costituzione dello Stato d’Israele. Oltre che negli ambienti della destra radicale, agli inizi degli anni Ottanta, anche in Italia, come in Francia, il negazionismo italiano fa capolino fra le fila dell’estrema sinistra. I suoi protagonisti sono il militante dell'estremismo bordighista, Cesare Saletta, e il situazionista Andrea Chersi. Nei saggi del primo, il più importante, sono due le argomentazioni ricorrenti.  Lo sterminio degli ebrei - in numero assai limitato - è il risultato non di una scelta politica nazista, ma di un sistema concentrazionario sprofondato nel caos. In secondo luogo, le camere a gas e i forni crematori costituiscono il mito su cui si è fondata un’ideologia reazionaria e interclassista, l’antifascismo, colpevole di aver condensato l’interpretazione del nazismo nella centralità della Shoah, trascurando così il problema storico delle effettive radici di classe della dittatura hitleriana. In poche parole, lo sterminio degli ebrei sarebbe una truffa organizzata dall’antifascismo liberaldemocratico-stalinista in combutta col sionismo ai danni del proletariato rivoluzionario europeo. La terza fase del negazionismo italiano, la più virulenta, è anche la più recente, collocandosi fra il 1985 e il 1994. È un revisionismo negazionista in parte nuovo, che, sulla scorta della lezione di Faurisson, intende presentarsi non più come una «storiografia dei vinti», che contrappone la memoria del nazifascismo a quella dell’antifascismo, ma come l’unica ricostruzione storica credibile in quanto anti-ideologica e scientisticamente neutrale. In Italia, il nome di riferimento, in questo caso, è quello di Carlo Mattogno, con i suoi vari saggi e opuscoli, dal titolo quanto mai esplicito: Il rapporto Gerstein. Anatomia di un mito; La Risiera di San Sabba. Un falso grossolano; Il mito dello sterminio ebraico. Introduzione storico-bibliografica alla storiografia revisionista su Auschwitz. Due false testimonianze e Auschwitz. Un caso di plagio. L’approccio di Mattogno riprende, in particolare, due strategie argomentative elaborate alcuni anni prima da Faurisson: innanzitutto, la constatazione di imprecisioni nelle testimonianze dei sopravvissuti viene utilizzata come prova dell’inesistenza stessa della macchina dello sterminio; in secondo luogo, la presenza di un dibattito storiografico fra le diverse interpretazioni della Shoah si traduce in una prova dell’inesistenza stessa dell’oggetto del dibattito. Oltre al susseguirsi dei lavori di Mattogno, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta fino a tutto il decennio successivo, si assiste ad un profluvio di pubblicazioni, quasi tutte edite da Sentinella d’Italia, La Sfinge e, agli inizi degli anni Novanta, dalla AR di Franco Freda e dalla Graphos di Saletta, a cui bisogna aggiungere la presenza di tematiche negazioniste nelle riveste d’area, quali Candido, Orion, Avanguardia. Tuttavia, nonostante questa vasta produzione editoriale e a dispetto del tentativo di accreditarsi utilizzando il paradigma storiografico noltiano, il negazionismo italiano non è mai riuscito ad esercitare una qualche influenza al di fuori degli ambienti neonazisti. Nel frattempo, è notizia recente, la Raf ha messo su Internet le foto di Auschwitz scattate nel 1944 dai suoi piloti. La convergenza di prove (documenti scritti, testimonianze oculari, fotografie, prove deduttive), che dimostra incontestabilmente la realtà storica della Shoah, è sempre più alla portata di tutti.


Ore 15, l'Armata Rossa abbatte i cancelli dell'inferno
di Liliana Picciotto

Per gli Alleati dal punto di vista logistico divenne possibile bombardare la Polonia solo nel gennaio del 1944 quando si poté disporre della base aerea di Foggia nell’Italia Meridionale liberata. Prima di allora, le basi che dovevano fornire sia i bombardieri, sia gli aerei da intercettazione necessari ad ogni raid, dislocate a Dover nel Kent a parecchie migliaia di chilometri di distanza, erano troppo lontane da Auschwitz (in polacco Oswieçim). Fotografie aeree della zona di Auschwitz furono prese per la prima volta da aerei alleati, da un’altezza di 15-20.000 piedi, il 14 aprile 1944. Dopo un attento esame delle fotografie prese nelle missioni fotografiche aeree, il 18 luglio 1944 la fabbrica petrolchimica (fabbrica di petrolio sintetico estratto dal carbone delle vicine miniere) di Monowitz (anche campo di concentramento denominato Auschwitz III, descritto mirabilmente da Primo Levi) a 2 miglia di distanza dal centro della citta di Oswiecim fu per la prima volta designata come obiettivo da bombardare. Il 7 agosto gli alleati effettuarono il primo pesante bombardamento aereo sulla zona durante il quale furono parzialmente distrutte la fabbrica chimica Oberschlesische Hydrierwerke a Blechhammer e la raffineria di petrolio a 12 miglia a nord ovest di Auschwitz. Il 20 agosto, nuovamente, con condizioni atmosferiche favorevoli, 127 bombardieri e 100 aerei da caccia scaricarono le loro bombe sulla IG Farbenindustrie per 28 minuti consecutivi. Gli obiettivi colpiti furono anche: la stazione ferroviaria e i condotti dell’acqua di Tschechowitz, a circa 15 miglia dalla stazione di Auschwitz, una raffineria di petrolio, una fabbrica elettrotecnica, la fabbrica di mattoni a Bestwin. Dentro al campo di Auschwitz, e soprattutto al suo sottocampo Birkenau (o Auschwitz II) erano sistemati sei impianti di sterminio riservati ai continui convogli di deportati ebrei che vi erano mandati da tutta l'Europa occupata: due camere a gas con fosse di cremazione per la consunzione dei corpi chiamate bunker I e bunker II, più quattro camere a gas con forni crematori per la consunzione dei corpi, chiamate crematori II, III, IV e V. Nelle stesse strutture finivano anche i prigionieri del campo non ebrei che dopo un breve periodo di lavoro schiavo a favore dell’economia del Reich erano sfiniti dalla fatica e dalla sottoalimentazione. Notizie sulla politica nazista del genocidio erano già trapelate, ma allora ancora nessuno sapeva che proprio Auschwitz era il centro di tale politica. Quando iniziarono i bombardamenti sulla zona, il racconto dei massacri che proprio al suo interno venivano perpetrati, riportato da due eroici evasi, Rudolf Vrba e Alfred Wertzler, era conosciuto solo da pochissimi e non ancora reso pubblico. La regione venne dunque bombardata non già per tentare di fermare lo sterminio degli ebrei ancora ampiamente in corso, ma solo come zona industriale e quindi come obiettivo strategico. Il 25 agosto, infatti, aerei da ricognizione fotografarono nuovamente la zona, da un’altezza di 30.000 piedi, per constatare i danni all’industria. Tra i fotogrammi, se molto ingranditi, si possono riconoscere le strutture dei campi sia di Auschwitz, sia di Auschwitz-Birkenau. Si riconosce la cosiddetta Bahnrampe (la rampa ferroviaria appositamente prolungata fino all'interno di Birkenau per facilitare le operazioni di scarico dei deportati e del loro immediato assassinio) con un convoglio di 33 vagoni fermo e una fila di persone avviate verso uno dei crematori. Molto precise sono anche le riprese del campo principale Auschwitz (Auschwitz I) nel quale si riconosce una fila di persone in attesa di essere registrata o in attesa di vestiti disinfestati (registrazione e disinfestazione avevano sede nello stesso edificio). Tutto ciò però, con il senno di poi, poiché l'analisi coeva delle fotografie aeree da parte di militari esperti, non essendo dedicata all’individuazione di strutture di sterminio ma solo di fabbriche, non portò al riconoscimento del campo di Auschwitz come luogo di assassinio di massa. Le cancellerie occidentali avevano allora già ricevuto da Edvard Benes, capo del governo slovacco in esilio, un appello ufficiale per un intervento aereo sul campo di sterminio, ma l'orientamento dei politici alleati fu quello di non distogliere forze militari per missioni aventi per obiettivo il salvataggio di civili. Il 13 settembre 1944 ci fu un altro pesantissimo bombardamento sulla fabbrica chimica della IG Farbenindustrie durato 13 minuti consecutivi, nel quale furono dispiegati 96 bombardieri alleati. Furono sganciate 1000 bombe da un’altezza di 23.000 piedi. Questa volta le bombe raggiunsero anche il campo di Auschwitz e due di esse Birkenau, ma soltanto per caso. L’esercito russo nel frattempo, faceva la sua parte: con una controffensiva iniziata nell’estate del 1943, alla fine dell'anno si era ormai spinto fino alle frontiere polacche e romene, raggiungendo nel gennaio del 1944 la Crimea e l’Ucraina. Il 24 luglio del 1944 liberò l’altro grande campo di concentramento e sterminio simile ad Auschwitz, Majdanek presso Lublino, trovandovi migliaia di prigionieri sfiniti dai maltrattamenti e decimati da operazioni assassine tese a liberarsi di “inutili bocche da sfamare”. In agosto del 1944 i sovietici raggiunsero la Romania, in settembre la Bulgaria, in autunno erano a Varsavia. L’avvicinarsi inesorabile dell’esercito russo e l’esaurimento di ebrei da sottoporre all'assassinio sistematico dentro alle strutture di sterminio di Auschwitz indussero le autorità tedesche a sospendere lo sterminio il 2 novembre 1944, dopo 19 mesi di una spaventosa ecatombe. Per la prima volta dopo mesi, il 3 novembre 1944 un convoglio carico di ebrei, anziché subire come di norma la selezione iniziale tra abili da introdurre in campo e inabili (cioè donne con bambini appresso, anziani, persone con i capelli bianchi, bimbi e adolescenti sotto i 13 anni), fu fatto entrare interamente nel campo. Poco prima che intervenisse questo cambiamento, molta parte di Birkenau era stata svuotata tramite uccisione con camere a gas dei suoi abitanti. Tra il 29 agosto e il 29 ottobre, 3284 detenuti del campo di quarantena maschile erano stati assassinati, mentre tra settembre e novembre, stessa sorte era toccata alla maggioranza dei componenti del Sonderkommando, gli addetti alle camere a gas testimoni oculari del genocidio. Il 14 ottobre era iniziata la demolizione dell’interno del crematorio IV fatto saltare in precedenza dai rivoltosi del Sonderkommando, il 25 novembre la demolizione del crematorio II e il 1° dicembre del crematorio III. Il Crematorio V fu lasciato in attività fino a metà gennaio del 1945.Non è escluso che alla decisione della sospensione dello sterminio abbia contribuito il fatto che ormai la notizia sul genocidio degli ebrei era divenuta cosa nota in Occidente e che di lì a poco, nello stesso mese di novembre un rapporto in tale senso sarebbe stato pubblicato a Washington a cura del War Refugee Board e simultaneamente a Ginevra. Alla fine di novembre 1944 in effetti anche il grande pubblico poté leggere con orrore sul New York Times i particolari raccapriccianti delle azioni tedesche all’interno del campo di Auschwitz. Nel frattempo, sotto la pressione dell’avanzata sovietica, era iniziata l’evacuazione del campo stesso. Secondo le direttive contenute in un documento del 21 dicembre 1944 a firma Fritz Brach, Gauleiter dell’Alta Slesia, i prigionieri di guerra e i detenuti della provincia dovevano, in caso di minaccia diretta da parte del nemico, essere evacuati a piedi, almeno nella prima tappa del viaggio. I comandanti di queste colonne di prigionieri dovevano considerare i detenuti che tentavano la fuga come colpevoli di sabotaggio, fatto che comportava l’immediata fucilazione. L'ordine specifico per la liquidazione dei prigionieri di Auschwitz inabili alla marcia fu dato dal comandante delle SS e della polizia di Breslau, Schmauser, il 20 gennaio del 1945.Tra il 18 e il 21 gennaio 1945, 58.000 detenuti vennero fatti uscire incolonnati dal complesso Auschwitz-Birkenau-Monowitz e dai sottocampi diretti verso ovest. La strada più lunga fu percorsa da 3.200 prigionieri del sottocampo di Jaworzno fino al Konzentrationslager Gross-Rosen nella Bassa Slesia, circa 250 chilometri a piedi. Durante le marce, non a caso chiamate “marce della morte”, i prigionieri che avanzavano nella neve e nel fango del duro inverno slesiano, denutriti e insufficientemente vestiti, erano sorvegliati da guardie armate che uccidevano senza pietà coloro che tentavano la fuga o rimanevano indietro. Dopo la marcia a piedi fino alle cittadine di Gliwice o di Wodzislaw Slaski, i prigionieri che riuscirono ad arrivarci, sfiniti dalla fame e dal freddo, vennero caricati su vagoni merci scoperti per essere trasportati nei campi di concentramento posti all'interno del Reich. I principali campi di destinazione furono: Gross Rosen, Buchenwald, Sachsenhausen, Ravensbrueck. Poiché non avevano diritto al cibo, la maggior parte di essi, infreddoliti, affamati, febbricitanti, morì durante quel terribile viaggio, scivolando semplicemente in mezzo ai compagni impossibilitati a muoversi per il sovraffollamento. Le strade dove passavano le colonne in marcia, così come le vie ferroviarie erano disseminate di migliaia di corpi di prigionieri fucilati o morti di sfinimento e di freddo. In alcune località, come nei pressi della cittadina di Rybnik nella notte tra il 21 e il 22 gennaio, le SS massacrarono, senza un'apparente ragione, gruppi cospicui di prigionieri. Durante la marcia dei prigionieri dal sottocampo di Blechhammer a Gross Rosen, altri 800 detenuti furono massacrati. Il numero, non ufficialmente noto, delle vittime delle cosiddette marce della morte, è stimato tra 9000 e 15.000 persone. Il 26 gennaio 1945, le truppe russe avanzando da est attraversarono la Vistola dirigendosi decisamente verso la regione dell’Alta Slesia. Si trattava della 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino. Tre divisioni circondarono le forze tedesche ad Auschwitz: quella che avanzava più rapidamente, la 100ª del 106° Corpo raggiunse Monowitz la mattina del 27 gennaio 1945. A mezzogiorno dello stesso giorno i russi marciavano nel mezzo della città di Oswieçim e al pomeriggio raggiunsero Birkenau e il Konzentrationslager di Auschwitz dove incontrarono una debole resistenza da parte di gruppi di tedeschi in ritirata. Alle ore 15, anche i due campi venivano liberati. Il comandante dell’Armata Rossa che liberò Auschwitz, a costo della vita di 231 soldati russi, fu il generale Pawel Kurochkin. Il totale dei prigionieri liberati in tutto il comprensorio di Auschwitz fu di 7000 persone, affamate e debilitate dalla lunga attesa, senza un briciolo di speranza di sopravvivere. Assieme ai prigionieri liberati, i soldati russi trovarono i resti dei falò di documenti bruciati dai tedeschi in ritirata. I crimini perpetrati dentro ad Auschwitz avevano però lasciato tracce dappertutto: cumuli di vestiti, di occhiali, di capelli, di protesi, di giocattoli, di valigie e di tutti gli oggetti portati colà dai poveri deportati, oltre a montagne di ceneri di corpi cremati, erano là ad accusare i nazisti. Per prima si mise al lavoro la Commissione sovietica di investigazione dei crimini nazisti, sostituita dopo un mese dalla Commissione polacca diretta dal giudice Jan Sehn. La parola era ora alla giustizia internazionale.


Ecco cosa distingue il lager dal gulag
di Brunello Mantelli

«Basta gettare sui Lager uno sguardo privo di pregiudizi per accorgersi che i campi di sterminio (Vernichtungslager) erano qualcosa di sostanzialmente diverso dai campi di concentramento (Konzentrationslager). Un essere umano detenuto in un campo di concentramento era un detenuto precedentemente arrestato. Al momento del trasferimento nel campo veniva registrato, munito di un numero, provvisto di una divisa e destinato ad un “blocco”. Gli esseri umani trasportati in un campo di sterminio, invece, non erano stati arrestati, bensì raccolti in un ghetto o ammassati per essere trasportati fuori da un ghetto. Non venivano registrati in alcun modo né alla partenza né all’arrivo; non appena giungevano a destinazione venivano uccisi col gas. I cadaveri erano portati in un crematorio e bruciati. L'elemento che accomuna tutti i campi di sterminio è il fatto che uccidere fosse il loro unico fine. Ai fini della conoscenza questa distinzione (tra campo di concentramento e campo di sterminio) è tanto più importante, in quanto può essere operata soltanto al riguardo del nazionalsocialismo, sicché nell’ambito di un confronto con il comunismo sovietico si può facilmente pervenire ad una confusione di idee, che in molti casi è stata intenzionalmente provocata».
Così scrive lo storico polacco Andrzej J. Kaminski, autore di una Storia generale dei campi di concentramento dal 1896 ad oggi (Torino, Bollati Boringhieri, 1997) il cui perno è la comparazione tra Lager nazisti e Gulag sovietici. Anche dal punto di vista biografico Kaminski aveva le carte in regola per condurre un’analisi del genere: militante della resistenza nazionalista polacca (Armia Krajova), fu deportato dai nazisti a Gross-Rosen e a Flossenbürg; nel dopoguerra, schierato su posizioni anticomuniste, fu perseguitato dal regime filosovietico e più volte incarcerato finché, nel 1973, ottenne il permesso di espatriare trovando rifugio nella Germania federale. Fermamente convinto non solo della possibilità, ma altresì della necessità di mettere a confronto i sistemi concentrazionari, egli però è altrettanto netto nell'escludere da ogni paragone i campi della morte (Treblinka, Sobibor, Chelmno, Belzec, Auschwitz II - Birkenau), che ebbero un ruolo preminente nella Shoah. Povero Kaminski! Se fosse ancora vivo (è morto nel 1985) sarebbe stato sicuramente rimbrottato dai giovanotti del Riformista, i quali lo scorso 5 dicembre, nel dare la notizia di un importante convegno milanese sul Gulag, non si peritavano di scrivere che il sistema concentrazionario sovietico sarebbe «un abominio non inferiore alla Shoah», affermando che oggi sarebbe dominante la «tesi che ritiene non paragonabile o non misurabili con un unico metro morale umano i genocidi e gli stermini subiti dagli ebrei e da intere popolazioni o classi sociali». Va da sé che i volonterosi ma un po’ confusionari «nuovi riformisti» prendono una serie di granchi: 1) che si possano e si debbano comparare i sistemi concentrazionari è appena ovvio per gli studiosi; 2) ma la comparazione serve a capire somiglianze e differenze, non a fare di ogni erba un fascio; 3) il problema non è quello di servirsi di un «unico metro morale», altrimenti ogni discorso si chiude prima ancora di iniziare: un omicidio è un omicidio, non c’è bisogno di dire altro, ma di capire cosa è avvenuto e come, ed allora servono ben altri strumenti analitici. Assai più sorprendente è però leggere ciò che scrive il 9 gennaio sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia, che invece lo storico lo fa di mestiere, essendo nei ruoli dell’Università di Perugia come professore ordinario. Il Galli infatti afferma che il titolo del Riformista è esattissimo. Eppure lui, per obblighi professionali, Kaminski lo dovrebbe conoscere, e dovrebbe avere presente che la differenza cruciale (che non riguarda il piano etico, naturalmente) tra macchina concentrazionaria nazista e macchina concentrazionaria sovietica sta proprio nell’esistenza dei campi di sterminio immediato (quelli che ho appena citato) i quali sono bensì simili ai più noti Konzentrationslager, ma sono da essi autonomi e finalizzati all’eliminazione fisica degli ebrei d’Europa. È la Shoah la differenza specifica tra i due sistemi concentrazionari, in base da un lato alla finalizzazione specifica della struttura eliminatoria, dall’altro alla sua organizzazione che ricalca la burocratizzazione e le modalità operative dello Stato e della fabbrica moderni. Se non si tiene presente questa differenza qualitativa si finisce per banalizzare la Shoah stessa, trovandosi per di più in assai discutibile compagnia (da Ernst Nolte a Jean Marie Le Pen). È noto infatti come un argomento abusato di coloro che vorrebbero che quel passato passasse definitivamente è proprio la considerazione che la Shoah in fondo non sia dissimile a tanti altri massacri avvenuti nella storia dell'umanità. Non si rendono conto, i banalizzatori, di far ricorso a sofismi perfettamente identici a quelli utilizzati dagli apologeti di entrambi i sistemi contrapposti? Non suonava così il discorso principe degli antichi lodatori dell’Urss: «Perché parlate del Gulag, è del Lager che si deve ragionare!». E viceversa, gli anticomunisti da guerra fredda: «Perché continuate a tirar fuori i Lager e lo sterminio degli ebrei, parliamo invece del Gulag!». Sotto questi ultimi aspetti ha già risposto, tanto ai neoriformisti «arancioni» quanto al professore perugino, Furio Colombo (l’Unità del 10 e del 14 dicembre), ricevendone in cambio da un lato una risposta che assomiglia a una rapida marcia indietro: l’11 gennaio, sul Riformista, Ernesto Galli avrebbe scritto infatti la sibillina e contraddittoria frase: «Dire che i Gulag furono un abominio non inferiore alla Shoah non significa negare l’unicità dell’Olocausto» (subito seguito dal fedele discepolo «riformista» che, lo stesso giorno scrive «l’unicità della Shoah è un giudizio storico acquisito» - ma allora perché fare paragoni indebiti?), dall’altro una reprimenda un po’ pedante: «Non per fare il professore, ma le uniche due citazioni storiche nell’articolo di Colombo sono sbagliate. Se uno vuol dare delle lezioni di storia dovrebbe come minimo citare con esattezza le uniche due fonti che cita». In linea di principio condivisibile, ma allora che dire di chi, professore essendolo da anni, sembra sia ignorare la storiografia consolidata proprio sul tema della comparazione, sia cadere nell’errore di sovrapporre e confondere giudizio morale e ricostruzione storica? La verità è che la storia è disciplina severa, richiede studio, ricerca ed applicazione, lavoro d'archivio, ricognizione costante della bibliografia aggiornata. Tutte cose scarsamente compatibili con la produzione a getto continuo di «brillanti» elzeviri sulla stampa quotidiana.

Da l'Unità, 26 gennaio 2004, per gentile concessione


Dichiarazione del Presidente della Repubblica in occasione del "Giorno della memoria"

La Giornata della Memoria in, vita a riflettere sulla Shoah, sullo sterminio degli ebrei, di un intero popolo, organizzato dal nazismo: un evento che non ha l'eguale nella Storia. Ricordiamo, perché la stessa enormità di quanto accadde In quegli anni, in cui vennero uccisi sistematicamente sei milioni di ebrei, ossia la maggior parte degli ebrei che allora vivevano in Europa, rende quel crimine quasi incredibile: "Meditate, che questo è stato", è il monito che ci ha lasciato Primo Levi. Ricordiamo affinché l'orrore non possa ripetersi. Affinché ogni manifestazione di antisemitismo, di razzismo in tutte le sue forme, venga condannata e messa al bando. Ricordiamo i colpevoli: l'ideologia razzista di Hitler e coloro che furono gli strumenti e i collaboratori che resero possibile, anche in Italia, le deportazioni. Ricordiamo i giusti, coloro che agirono secondo coscienza e spirito di umanità. Ci dà conforto ricordare che fra loro ci furono anche tanti italiani, migliaia di persone, semplici cittadini, funzionari, diplomatici, militari che in ogni regione d'Italia, e oltre confine in Grecia, in Jugoslavia, nel sud della Francia, salvarono, a rischio della loro vita, la vita di migliaia di ebrei, italiani o stranieri. La democrazia, la giustizia, l'amore del prossimo che ci è stato insegnato siano la nostra forza, riflet­tendo sul passato, guardando a un futuro che vogliamo sia di pace e di concordia fra tutte le genti.

Carlo Azeglio Ciampi


Dichiarazione del presidente Prodi per il "Giorno della Memoria"

Il 27 gennaio, data in cui, nel 1945, fu liberato il campo di Auschwitz, è per noi il giorno della memoria, il giorno in cui commemoriamo la Shoah, le persecuzioni e lo sterminio del popolo ebraico. La memoria della Shoah, tragedia unica e senza precedenti, ha un valore universale. L'umanità non ha smesso di macchiarsi di crimini come il genocidio, la pulizia etnica, il razzismo, la xenofobia, l'antisemitismo. Tutti gli uomini e le donne del Ventunesimo Secolo hanno la responsabilità di combattere e impedire questi orrori. La memoria della Shoah ha un significato ancora più forte per l'Europa. È in Europa che la Shoah si è prodotta. È sulla lezione della Shoah che è nata la nuova Europa, l'Europa unita, fondata sul rispetto della persona umana, del diritto e della libertà. Riprendendo la dichiarazione del Forum Internazionale di Stoccolma sull'Olocausto del gennaio 2000 e la dichiarazione dei ministri europei dell'Educazione dell'ottobre 2002, faccio mia e sostengo la proposta di istituire in una data da scegliere in base alla storia di ciascun paese membro dell'Unione una "giornata europea della memoria" per il ricordo delle vittime della Shoah, per la lotta contro ogni crimine contro l'umanità, per l'omaggio a tutti coloro che, anche a rischio della propria vita, si sono opposti e si oppongono a questi orrori.

Romano Prodi


La mia scelta: ricordare i più ignoti  

di Michele Sarfatti

Di cosa si ha memoria nel "giorno della memoria"? Di un tragico evento stori­co, delle vittime di quell'evento, dei colpevoli, degli "astenuti", degli oppositori. Per quanto mi concerne, in questo giorno pre­ferisco dirigere la memoria verso le vittime. Lascio quindi perdere quei combattenti di Salò che oggi chiedono al nostro Stato un vitalizio per aver combattuto a favore della deportazione degli ebrei, lascio perdere le tante strade e piazze dedicate ai fascisti antisemiti, e lascio perdere anche quei dirigenti televisivi che preferiscono dedicare programmi a "giusti" inventati e non sono invece capaci di far rappresentare quel vuoto assoluto che fu l'individuo umano dopo la gassazione, l'incenerimento e la definitiva dispersione subiti ad Auschwitz. La mia memoria oggi va alle vittime. Ma non a tutte. È difficile ricordare sei milioni di persone contemporaneamente (in effetti, non si poté nemmeno ucciderle contemporaneamente). Quest'anno ho deciso di dirigere la memoria verso un gruppo di persone particolarmente ignote. Di esse infatti non conosco nemmeno il nome, e la stessa loro uccisione è attestata da alcuni studiosi senza particolari aggiuntivi. Per questo ho pensato di commemorarli: per renderli per quanto possibile persone, individui. E perché la nostra Italia (non questa repubblica postbellica, ma il regno fascista di allora) sembra avere avuto un ruolo nella loro vicenda. Un ruolo ancora mal definito. Un ruolo che dovrà essere chiarito. Avere memoria di loro vuol dire quindi radunare quel poco che sappiamo, metterlo in ordine, identificare i buchi di conoscenza, stimolare una ricerca approfondita. Partiamo dall'inizio. Siamo a Prishtina, in Kosovo, territorio ex-jugoslavo conquistato nel 1941 dall'infame alleanza italo-tedesca e ben presto accorpato all'Albania, conquistata con infamia dall'Italia nel 1939. A Prishtina c'è un’antica comunità ebraica locale, ci sono ebrei originari di altre zone della non più esistente Jugoslavia, e ci sono ebrei profughi dall'Europa centrale. Dalla primavera 1941 e fino al settembre 1943, tutti questi ebrei si trovano sotto le autorità italiane e, in subordine, albanesi. Il trattamento riservato dalle une e dalle altre agli ebrei locali e a quelli delle altre regioni jugoslave sembra sostanzialmente simile a quello praticato in quei mesi nella penisola e nel territorio storico dell'Albania. Ossia: persecuzione rigida, ma niente sterminio. Il punto è che una parte (o la totalità; non sappiamo) degli ebrei centroeuropei di Prishtina ricevette invece un trattamento diverso. Le informazioni che abbiamo al riguardo assegnano una responsabilità ad autorità italiane. Ma vediamo cosa dicono. Si tratta di documenti citati nel recente libro di Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo (Bollati Boringhieri, 2003), che a pagina 459-460 menziona la decisione del 15 marzo 1942 di un ufficiale superiore italiano di consegnare alle autorità tedesche di occupazione della Serbia cinquantuno ebrei “tenuti a disposizione nel campo di concentramento di Pristina”. L'atto (non l'autore) è confermato da fonti ebraiche dell'epoca: nella corrispondenza dell'ente assistenziale ebraico italiano Delasem è menzionata la consegna ai tedeschi della Serbia di “un gruppo di 50 circa, uomini; donne e bambini” di Prishtina, Un altro documento dell'epoca aggiunge un inquietante elemento sulle conseguenze della consegna: il 24 gennaio 1943 il delegato apostolico a Scutari comunica alla Santa Sede che gli ebrei profughi in Albania temono "di venire mandati in Germania, come già toccò ad alcuni, perché questo significherebbe la morte". La possibilità che quest'ultima notizia concerna proprio il gruppo di ebrei di Prishtina sembra essere confermata da quanto riferiscono due volumi pubblicati a Belgrado (da Zdenko Lewenthal nel 1957 e da Jasa Romano nel 1980), entrambi contenenti la notizia di cinquantuno ebrei di Prishtina consegnati nel marzo 1942 alla Gestapo e da questa uccisi. Questo è tutto ciò che io ho potuto reperire. L'indicazione netta della responsabilità italiana nella consegna è comparsa solo pochi mesi fa, nel libro di Rodogno. Sull'uccisione dei consegnati vi è al momento una "quasi certezza", non una "certezza netta". Sui motivi della consegna, nulla sappiamo. Sul fatto che le autorità italiane fossero o no a conoscenza del destino che attendeva i consegnati, nulla sappiamo (ripeto: in questo momento, nulla sappiamo). Le identità delle vittime non sono ancora note. In questi temi, occorre sempre procedere con calma e metodo storico. Le conclusioni potranno venire solo al termine di una ricerca accurata. Ma le fonti ci dicono che qualcosa a Prishtina deve essere accaduto. E allora, in questa giornata della memoria, occorrerebbe proprio decidere di attivare un gruppo di ricerca per chiarire cosa avvenne, per definire il nostro ricordo di quei cinquantuno ebrei, piccola goccia di un ebraismo devastato.


Primo Levi: lingua madre, lingua dell’assassino 

di Alon Altaras

I campi della morte erano un territorio ricco di lingue diverse e Primo Levi, testimone acuto, aveva una grande sensibilità verso i fatti linguistici dei lager. Nella sua opera, dove sono - presenti l'ebraico, il tedesco, il tedesco dei lager (una lingua diversa dal tedesco, di Goethe, ad esempio), il polacco, il greco, l’jiddish, l'ungherese e tante altre, si può osservare come i diversi fatti linguistici rivelino tragiche vicende umane, colme di sofferenza, ma anche episodi pieni di speranza e di sensibilità umana e culturale. Uno dei capitoli più famosi nella produzione di Levi in generale, e nel libro "Se questo è un uomo" in particolare, è "Il canto di Ulisse", dove egli cerca di tradurre in francese il ventiseiesimo dell'Inferno dantesco ("Il canto di Ulisse") ad un prigioniero più giovane di lui soprannominato "Pikolo". La scelta del canto non è affatto casuale: l'Ulisse dantesco è una figura mitica particolare, assai lontana da quella di Omero. Nell'Inferno, tra le fiamme, Dante e Virgilio incontrano lingue di fuoco che parlano, e a loro la lingua di Ulisse medesimo racconta lasciando il vecchio padre e la moglie, per ricercare avventure e l'allargamento de­ orizzonti del sapere e della cultura. Il viaggio dell'Ulisse dantesco così assetato di conoscenza e virtù finisce tragicamente nel naufragio che chiude il Canto XXVI. Levi, consapevole del valore terapeutico oltre che politico, come una manifestazione di resistenza contro i nazisti, si ricorda di questo eroe e anche lui, mentre cammina con il suo amico francese verso le cucine che daranno il cibo per quel giorno, rischia la vita per compiere un atto preciso di cultura e di comunicazione umana, proprio quella negata dai nazisti nei lager. Tradurre è un allargamento dei confini culturali e del sapere, il campo di concentramento è una negazione del dialogo dei detenuti con il mondo, con le loro lingue madri, con i loro paesi di provenienza. Egli non ricorda tutti i versi del canto, ma solo quelli che possiedono un valore universale. Ogni lettore che leggerà il canto di Dante e questo capitolo di “Se questo è un uomo” potrà constatare come la memoria di Levi si concentri solo su quelli più generali sul sapere e sulla cultura. Primo Levi e il suo amico francese, nelle circostanze assurde in cui si svolge questo lavoro di traduzione da lingua a lingua, sono consapevoli delle diversità culturali fra le lingue e le culture, e in questo caso delle differenze tra il francese e l'italiano. Non solo il valore simbolico sta a cuore a Primo Levi, ma anche i problemi linguistici che affronta traducendo i passi universali dell'illustre poeta. Nell'orrendo, contesto del lager, la famosa terzina che Levi ricorda bene assume un significato particolare e fare cultura nei campi di concentramento diviene una forma di resistenza. È interessante il modo in cui Primo Levi richiama l'attenzione del suo interlocutore e di noi lettori, così dicendo: “Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca: “Considerate la vostra semenza/Fatti non foste a viver come bruti,/Ma per seguir virtute e conoscenza.” Questi versi balzano come una scossa elettrica nella memoria di Levi detenuto: “Come se anch'io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”. In realtà Levi in quel momento si ricorda benissimo chi è (un detenuto ebreo, senza nome ma con un numero) e dove è (Auschwitz campo della morte), ma apre questa frase a un doppio orizzonte, linguistico e biografico. Risalire alle parole del grande poeta esule è richiamare la lingua madre, il paese natale, la sua Torino. I confini della mia lingua sono i confini del mio mondo, diceva Wittgenstein. Nel ricordo di Levi c'è un esercizio della massima del filosofo austriaco. I nazisti dedicavano uno sforzo enorme per tagliare i detenuti ebrei fuori dal mondo e dalla cultura umana, e in questo .Primo Levi, traduttore di Dante in francese, fa resistenza e dà battaglia. Ma il rapporto tra il detenuto e la sua lingua madre non è una questione semplice per chi è passato nell'inferno nazista: la questione si complica ulteriormente nel caso di due lingue di grande cultura come l'italiano e il tedesco. Uno dei disastri linguistici più traumatici che i fascisti italiani e i nazisti tedeschi commisero fu quello di fare diventare la lingua madre di un ebreo italiano o tedesco la lingua del nemico, dell'aguzzino, e l'oppressore. Primo Levi, con la sua estrema sensibilità linguistica, riesce a distinguere fra l'italiano di Dante e l'italiano di Mussolini e dei suoi collaboratori­culturali e politici. Lui vede la differenza fra il Canto di Ulisse e l'intervento di un gerarca fascista in una piazza italiana, riesce addirittura a vedere l'abisso culturale e umano che separa la lingua tedesca dei lager da quella di Goethe o Heine (si veda a questo proposito il capitolo “Comunicare” ne “I sommersi e i salvati”, l'ultimo libro di Levi). Nel suo caso la lingua madre non crea un trauma psicologico, ma è una sorgente di speranza e conforto, lo si nota quando Primo cita un'altra terzina del celebre canto: “...Quando mi apparve una montagna, bruna/ Per la distanza, e parvemi alta tanto/ Che mai veduta non ne avevo alcuna.” Commentandola: “Oh Pikolo, Pikolo, di' qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!” Ma non per tutti il rapporto fra lingua madre e lingua dell'assassino è stata così facile. Tragico fu il caso di Hans Mayer, nato a Vienna il 31 ottobre 1912 da padre ebreo e madre cattolica. Il padre morì nella Prima Guerra Mondiale, Hans e la madre si trovavano a Vienna negli anni Trenta. Nel '38, quando l’Austria divenne parte del Reich tedesco, i due scapparono in Belgio. Nel 1940 i belgi lo arrestarono come cittadino tede­sco straniero, nel ‘41 Hans scappò e ade­rì alla resistenza belga, venne arrestato e torturato dalla Gestapo, mandato nei campi di concentramento, trascorse un anno ad Auschwitz dove morì sua moglie ebrea. Venne trasferito a Bergen Bel­sen e vi rimase fino a che il campo fu liberato dagli inglesi nel 1945. Primo Levi e Hans Mayer si conoscevano, di ciò rimane una profonda testimonianza nel VI capitolo de “I sommersi e i salvati”, intitolato “L'intellettuale ad Auschwitz” e dedicato alla figura di Hans Mayer. Il rapporto di Mayer con la sua lingua madre tedesca non è stato felice come quello di Levi: egli torna a Bruxelles do­po la guerra e cambia il suo nome facendosi chiamare Jean Améry e adottando la lingua francese con la quale scrive per alcuni giornali svizzeri. Soltanto nel 1964, quando si svolse a Francoforte un grande processo contro i criminali tedeschi di Auschwitz, tornò a scrivere in tedesco e pubblicò nel 1966 cinque saggi che collocano Hans Mayer-Jean Améry nella saggistica sulla Shoah. In questo volume, intitolato “Jenseits von Schuld und Sühne”, si trova il saggio “Di quante patrie ha bisogno un uomo?”, dove lo scrittore parla del rapporto dell’ebreo di origine tedesca con la patria tedesca, e lo compara all’atteggiamento che avevano gli ebrei di lingua tedesca verso la loro lingua madre. È interessante come il ricordo di una rima di Goethe sulla luce della luna che illumina bosco e valle viene interpretata da Jean Améry come una frase piena di minaccia: nel bosco e nella valle ti pote­vi nascondere, ma la luce lunare ti pote­va far scoprire. La lingua madre diventa lingua del nemico e l’enorme peso della realtà del campo ha un effetto traumatico nel caso di Jean Améry fu Hans Mayer. Primo Levi trovava rifugio nella lingua di Dante, Jean Améry vedeva il nemico nascosto anche nelle poesie di Goethe, e scelse il francese per poter trovare “in una lingua straniera una vera amica”. Per scappare dal nemico Hans Mayer cambia il nome, la lingua per vent'anni, adotta una nuova cultura perché riscopre la sua ebraicità a causa dei nazisti, perde la lingua madre, il paese natale, il nome: in poche parole la sua identità. Per sfuggire da questa confisca, si deve reinventare l’identità di intellettuale di lingua francese. Lingua italiana e lingua tedesca, Primo Levi e Hans Mayer, due intellettuali che in un certo senso sono stati formati ad Auschwitz, ma nonostante tale circostanza rimangono molto diversi nel loro approccio linguistico. Hans Mayer è stato chiamato da Primo Levi “il filosofo del suicidio”. Il 17 ottobre 1978, a Salzburg, Jean Améry si suicidò. Nove anni dopo muore Primo Levi nella sua casa di Torino.

Tratto dal libro in preparazione "Le lingue della morte: Primo Levi e le lingue del lager"  


La Shoah ripensata a tredici anni

di Pierfrancesco Rossi

Fin da quand'ero piccolo, troppo piccolo per comprendere cose enormemente più grandi di me, sono sempre stato sconvolto dalla folle brutalità dell'Olocausto. Non capivo molte altre cose, eppure non mi ci volle molto a concentrare tutta la rabbia e la pietà di cui era capace un bambino su una sola pagina, quella del libro di storia delle elementari, su cui lessi dello sterminio "di 6 milioni di ebrei". "Ma perché - mi chiedevo - perché nessuno ha fatto niente? Perché nessuno ha fermato i Nazisti?" Non sono passati molti anni da allora, in fondo, ma ora sono abbastanza grande da potermi rendere conto bene di ciò che significò la Shoah. Ora ho più rabbia per odiare il Nazismo, ho più pietà da impegnare quando penso agli Ebrei, a uomini e a donne innocenti, ai bambini. Ma sono sempre le stesse domande di quand'ero bambino a venirmi alla mente: "Perché nessuno li ha fermati?" Oggi, però, ho scoperto qualcosa in più. Ho letto da tempo che qualcuno, in quegli anni, capì in che mondo folle era nato, e dette tutto, spesso la vita, per salvare degli innocenti. Penso anche a degli italiani, come Perlasca. Ho perfino l'onore di essere concittadino di Palatucci. Allora si poteva fare qualcosa, molte altre persone così ci sarebbero riuscite. Sì, l'Olocausto si poteva evitare. Ma mi rendo conto che sarei folle anch' io, se pensassi di aver capito tutto sulla Shoah, oggi, a tredici anni. E continuo a chiedermi come sia potuto accadere e se oggi potrebbe ancora verificarsi una simile atrocità. Certo, ci sono cose difficili da capire. Per chiunque. È per questo, credo, che la giornata della memoria, il 27 gennaio, è così importante. È l'occasione per riflettere, tutti e tutti insieme, per cercare di capire come sia potuto accadere. Chi ha vissuto quegli avvenimenti ha il dovere di raccontare a chi non ricorda; chi non sa deve ascoltare e riflettere. Il punto di partenza, come non a caso è indicato nella legge che ha istituito il "Giorno della Memoria", dovrebbero essere le scuole. Sembra ovvio, ma va anche detto che non sempre succede che ci sia un impegno forte, vero, anche se nessuno nega che formare coscienze è importante, ed è fondamentale nei ragazzi. Ad esempio, nonostante nella mia scuola - liceo ginnasio di Avellino - molti insegnanti abbiano dimostrato una grande sensibilità, e siano stati contattati anche dei reduci dai campi di sterminio, il giorno della memoria trascorrerà forse senza memorie, perché dei problemi economici rischiano di far saltare ogni buon proposito. Dagli studenti non è venuta nessuna proposta; anzi, gli accenni al "Giorno della Memoria" durante il comitato studentesco sono caduti nel vuoto. Capisco che per organizzare un dibattito interessante servono fondi, anche quando si vuole parlare dell'Olocausto. Ma forse basterebbe anche solo una circolare, uno di quei fogli che vengono fatti girare per tutte le classi, con su scritte poche parole. Immagino qualcosa di toccante, da leggere durante un minuto di silenzio - che è sicuramente poco, ma può bastare per cominciare. "Tra il 1936 - legge l'insegnante nel silenzio della classe – e il 1945 furono sterminati dal regime fascista e nazista 6 milioni di Ebrei". Non sono parole difficili da capire, ma sono chiare dicono quello che c'è bisogno di sapere per poter dire "so cosa successe". Sono le stesse parole che mi fecero riflettere da bambino, sono le parole che mi crearono in mente delle domande, forse terribili, ma importanti. Non è cosa da tutti i giorni che lo Stato istituisca un giorno per il ricordo di un avvenimento storico. Questo testimonia quanto sia importante il ricordo, ma anche la creazione di coscienze. Coscienze non solo consapevoli dell'orrore, ma in grado di opporvisi, di sapere che lo si può fare, che, anzi, si ha il dovere di opporsi ai progetti di governanti che vanno contro l'umanità. Non è indispensabile, dicevo, fare convegni, discussioni, dibattiti costosi. È indispensabile, però, non perdere l'occasione di sollecitare la più importante discussione, quella che va fatta dentro, con se stessi, per maturare veramente il convincimento su quanta follia guidò chi pianificò la Shoah. E poiché fu tutto frutto dell'uomo e del suo pensiero, è un dovere ricordare, perché le circostanze cambiano, ma l'uomo, purtroppo, rimarrà sempre ugualmente pericoloso.


Viaggio ad Auschwitz – Ricordare sul treno dei deportati  

di Osvaldo Sabato

VARSAVIA.  Il bianco della neve, che ha accompagnato il Treno della Memoria partito l'altro ieri pomeriggio da Firenze, fa da contraltare con il grigio dei ricordi e il nero della morte che si respirava nei campi di sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Flash che d'improvviso creano ancora oggi sconquasso nella mente di chi racconta quelle terribili esperienze. Impossibile dimenticare il rito del «Begrussung», del benvenuto, ad Auschwitz o a Majdanek. Oggi è in programma la visita al campo vicino a Lublino dove morirono fra i sessantamila e gli ottantamila ebrei. La prova della corsa nella camera a gas, primo grande ostacolo, che in alcuni casi non faceva altro che rimandare l'appuntamento con la morte. Chi correva e aveva la forza di evitare lo spruzzo del gas poteva considerarsi fortunato. Altrimenti, non c'era più niente da fare. Un convoglio lungo quasi mezzo chilometro, 16 vagoni e 27 ore di viaggio per raggiungere la capitale della Polonia. Un intoppo burocratico sul controllo dei passaporti di due studenti di Rosignano ha bloccato il treno per più di un'ora alla frontiera fra la Repubblica Ceca e la Polonia poi risolto con l'intervento delle ambasciate italiane a Praga e Varsavia. I 750 viaggiatori, più della metà studenti delle scuole medie superiori, 74 gli universitari, 60 gli insegnanti e molti giornalisti al seguito è stato organizzato dalla Regione Toscana per commemorare la Giornata Internazionale della memoria. Per non dimenticare ciò che è accaduto. E chi meglio delle sorelle Liliana e Andra Bucci, possono raccontare l'Olocausto. Protagoniste a soli sei e quattro anni di una vicenda che ha dell'incredibile e che più di ogni altra fotografa la pazzia dei nazisti decisi alla soluzione finale degli ebrei. Liliana e Andra furono tenute prigioniere nel Kinderbloc di Auschwitz insieme ad altri bambini in attesa di essere usate come cavie per gli esperimenti del professor Mengele. La vita nei campi e il camino dei forni crematori sempre fumanti raccontano anche della tragedia del loro cugino Sergio De Simone, morto impiccato a sei anni con altri venti bambini per eliminare le tracce degli esperimenti dopo che Mengele lo aveva consegnato ad un altro medico nazista, Kurt Heissmeyer. Molte volte viene chiesto a Liliana quale è la prima immagine che ha quando pensa ad Auschwitz: «Il camino - dice - e il cumulo dei morti». Quelli erano anni in cui anche la natura si rifiutava di stare in quei posti: «Niente verde e niente farfalle - osservano le sorelle Bucci - e pensare che invece quando siamo ritornate a distanza di molti anni tutto intorno era verde». Il 29 marzo 1944 il convoglio 25T giunse al campo con il carico di ebrei, Ammassati tutti in un vagone, «Vedo ancora oggi la scena. La porta si apre e fuori una notte nera» dice Andra. Le file, i vestiti consegnati agli aguzzini, il rito della rasatura, i capelli servivano a riempire i cuscini, e una baracca dove un 55 prendeva le generalità prima del marchio con i numeri sull'avambraccio, che come stimati sono ancora lì a testimoniare ciò che è stato. Figlie di una ebrea, Mira Perlow, e di un padre cattolico, Giovanni Bucci, vivevano a Fiume quando furono deportate insieme alla nonna, alla madre e ad altri suoi parenti tra cui la zia Gisella suo figlio Sergio. Dopo la guerra riuscirono a ricongiungersi con la madre. La loro salvezza è frutto di un caso o del destino. Non ha importanza. «Mi vengono i rimorsi per essere sopravvissuta» dice Andra con il suo viso esile ma deciso mentre si lascia andare in un pianto discreto. «No io non ho mai pensato a queste cose» aggiunge Liliana mentre nel vagone del treno che ci porta a Varsavia spingono i loro pensieri a ricordare. E gli studenti ascolta­no, come se ascoltano silenzio. Si sono salvate a differenza del cuginetto Sergio solo per non aver fatto un passo in avanti. Proprio vero che a volte il filo che lega la vita alla morte è esile e più corto di un passo. Una figura che assume una importanza fondamentale nella loro vita è una delle tante responsabili del blocco dove vivevano le due sorelline. Non ricordano né il nome né il viso ma hanno impresso nella loro memoria invece un altro particolare. «La Blokova chiamò me e mia sorella e ci disse verranno degli uomini e vi chiederanno chi di voi vuole vedere la mamma e tornare con lei, vi chiederanno di fare un passo in avanti. Voi dovete rimanere ferme dove siete. Noi lo dicemmo subito anche a Sergio quel che ci era stato suggerito da quella donna. Poco dopo fummo radunati da un gruppo di uomini in uniforme venuti da fuori. Noi non potevamo saperlo ma uno di loro era il dottor Mengele». La loro storia è ricordata in libro «Meglio non sapere» scritto dalla giornalista de «il Mattino» Titti Marrone. Mentre è stato un altro giornalista, il tedesco Gunter Schwarberg che con una sua inchiesta è riuscito a individuare i responsabili della morte di Sergio e degli altri piccoli e far condannare i colpevoli della strage di Bullenhuser Damm. Fu allora che finalmente fu chiarita la fine di Sergio. Non è facile parlare di ciò che hanno visto neanche per Maria Rudolf Stibi e Nerina De Walderstein. «Dimenticate il vostro nome voi qui siete solo un numero» la Kapo tedesca appena Nerina arrivò ad Auschwitz non perse tempo a far capire dove era stata portata con l'inganno di andare a lavorare in Germania. La stesso destino di Maria. O di Liliana o Andria. Sempre con la morte in tasca come altri milioni di ebrei, che a differenza di loro, purtroppo, non ce l'hanno fatta. Le quattro signore sono le testimonianze viventi dell'Olocausto che il Treno della Memoria si è portato dietro. Maria e Nerina erano già ritornate ad Auschwitz insieme agli studenti toscani. Lo scorso anno e nelle stessa occasione.


Violante: «Con gli esuli istriani un debito da saldare»

Il capogruppo Ds alla Camera incontra la comunità di Roma: e parla del silenzio del Pci, delle Foibe. Proposta di legge per ricordare il dramma di quelle popolazioni

e.f.

ROMA - La repubblica italiana e i suoi «debiti da saldare». Le facce e gli accenti di uomini e donne, giovani e anziani, che da un freddo giorno di febbraio del '47 vivono con l'esilio nel cuore. Roma, quartiere Giuliano Dalmata, qui vivono una parte di quei 350mila italiani, istriani, fiumani, dalmati, costretti a lasciare per sempre le loro città e i loro paesi dopo il 10 febbraio 1947, firma del trattato di pace. E qui Luciano Violante continua il suo «viaggio» per «ricondurre all'interno del­la storia nazionale italiana la tragedia degli esuli, gli stessi che la Repubblica, in quegli anni, arrivò al punto di considerare quasi dei nemici». Sì, la Repubblica italiana «ha dei debiti da saldare» con questi italiani vittime della follia della Seconda guerra mondiale. Il capogruppo dei Ds è nelle biblioteca di questo quartiere dove i nomi delle strade, i cognomi della gente e anche il dialetto, parlano di quella storia di paura, umiliazione, morte, abbandono, per presentare una proposta di legge dei parlamentari Ds. L'obiettivo è quello di istituire una giornata della memoria che ricordi il dramma di quelle popolazioni. Il confine dell'ideologia Il clima cordiale non riesce a cancellare di colpo decenni di incomprensioni tra gli eredi del Pci e le vittime dell'occupazione «titina», il ricordo delle Foibe, la pulizia etnica, la fuga, l'abbandono delle terre e delle case per vivere da stranieri in Italia. Violante non fa sconti alla sua storia: «C'è una grande responsabilità del Pci per il silenzio sull'esodo dall'Istria, da Fiume e dalle coste dalmate: ciò accadde perché il confine ideologico è prevalso su quello geografico». Ma se negli anni della libertà e della Repubblica su quel dramma «cadde l'oblio fu anche per una serie di reciproche convenienze». Insieme a quelle del Pci e della sinistra, quelle dei governi moderati del Paese che vedevano nel non allineato Tito l'avversario da contrapporre al blocco sovietico. L'orgoglio degli esuli Storie di dopoguerra e di guerra fredda. Storia di ipocrisie, «che devono essere superate». Storie drammatiche di «gente di confine abituata al confronto con altri popoli e altre razze, costretta all’infamia dell'esilio». Oliviero Zoia appartiene alla seconda generazione degli esuli trapiantati a Roma, parla delle 20mila vittime dimenticate e della «tragedia negata». Rivendica l'orgoglio della memoria, perché «un popolo senza storia non ha avvenire», denuncia «la connivenza del Pci», ma anche le strumentalizzazioni: «Esule non è sinonimo di fascista». Certo, il cammino di quella che Violante rifiuta di chiamare «pacificazione, perché fortunatamente siamo e vivremo in pace», è lungo. Forse solo all'inizio. Il tono pacato e le parole del senatore Lucio Toth (presidente dell'associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) però aiutano molto. «È dal 1945 - dice - che onoriamo tutti i caduti della seconda guerra mondiale. Lo abbiamo fatto tra di noi, ora vogliamo che lo faccia tutto il Paese». Dov'è l'Italia I racconti degli esuli, ma anche dei loro figli e dei nipoti, parlano invece delle memoria corta degli italiani. «Torna al tuo paese», così - appena tre giorni fa - si è sentito rispondere il figlio dell' esule dal cognome slavo, ma nato a Roma. La figlia di una anziana, invece, racconta del ricovero della madre e di come sul certificato abbiano scritto «nata in uno stato estero». Nonostante una legge del 15 febbraio 1989 imponga a tutte le amministrazioni dello Stato l'esatto contrario. Parla il figlio dell'esule che è di sinistra: «Ho sempre criticato la mia parte politica di aver lasciato questi temi alla destra». Violante, e la deputata diessina Marcella Lucidi illustrano la proposta di legge. C'è solo un punto che ancora divide: la data di quest'altra giornata della memoria. Il 10 febbraio, firma del trattato di pace (questa è la posizione delle associazioni degli esuli) o il 20 marzo, quando da Pola partì il piroscafo «Toscana» zeppo di profughi? Si discute, ma un dato per Violante è certo: «Nessuno di noi ha l'arroganza di voler imporre a chi ha sofferto l'esilio e la cacciata dalla propria terra quando ricordare. L'importante è che l'Italia intera non dimentichi mai».


Promemoria

di Furio Colombo

Le due pagine che vedete qui riprodotte sono due numeri dell'Unità clandestina che - a rischio della vita - veniva distribuita a Roma e dovunque fosse possibile in Italia, nel 1943, durante l'occupazione nazista. Sono anche le uniche due pagine di giornali italiani - clandestini o no - che racconta­no la persecuzione degli italiani ebrei ad opera del governo italiano di Salò e degli occupanti tedeschi, e la raccontano nel tempo e nel momento in cui la persecuzione avviene. I numeri dell'Unità qui riprodotti portano le date del 26 ottobre .e del 7 dicembre. L'articolo in prima pagina del 26 ottobre è - anche dal punto di vista storico - l'unica testimonianza, scritta e pubblicata a pochi giorni dall' evento, della razzia nel ghetto di Roma, nel quale, nella notte dal 15 al 16 ottobre furono prelevati dai soldati tedeschi, e avviati ai campi della morte dai militi e dall'organizzazione italiana della Repubblica di Salò 1023 ebrei romani, dei quali solo 17 sono sopravvissuti. L'Unità del 26 ottobre (evidentemente appena è stato possibile scriverne) intitola: «Pogrom a Roma». Coloro che, in clandestinità, spesso isolati e braccati dai fascisti, lavoravano a quel giornale dimostrano - con quel titolo - di aver saputo giudicare immediatamente, in tutto il suo orro­re, ciò che davvero è accaduto e di non avere avuto alcuna illusione (ben diverso è stato il comportamento di istituzioni italiane più potenti ma sopratutto più libere) sugli eventi tragici e intollerabili che stavano accadendo in Italia. Questo articolo dell'Unità del 26 ottobre del 1943 è un documento essenziale contro ogni tentativo di sminuire e negare. Ed è un documento che viene pubblicato in Italia, a Roma, appena pochi giorni dopo la deportazione degli ebrei romani, messi a disposizione della persecuzione fascista e nazista dalle leggi razziali firmate dall'allora Re d'Italia Vittorio Emanuele III, dal capo del governo Benito Mussolini, e dalla «Carta Fondativa della Repubblica di Salò» che rinnova il crimine dichiarando che «tutti gli ebrei sono nemici». Il secondo articolo sull' orrore nazista che sta attraversando l'Italia e che è diventato impegno ossessivo sia dei tedeschi occupanti che dei loro collaboratori fascisti, chiama il popolo della Resistenza a mobilitarsi contro la persecuzione, a renderla impossibile, a impedirla. È un documento drammaticamente chiaro e inconfutabile per i negazionisti e i revisionisti di tutti i generi, ma anche per tutti coloro che oggi vorrebbero mostrare una destra senza colpe. In questi due articoli dell'Unità del 26 ottobre e del 7 dicembre del 1943 c'è il cuore e il senso politico, morale umano della Resistenza italiana, il senso dell'antifascismo come opposizione a tutti gli orrori di quel regime, le persecuzioni contro il popolo ebreo primo fra tutti. Queste pagine guidano a non lasciarsi confondere dalla gran­de campagna in atto contro la Storia. Queste pagine dicono quali pericoli si nascondono - con la cancellazione della Memoria - nella grande campagna di denigrazione dell'antifascismo. Il fine ultimo è negare la Shoah, fingendo di farsene strani e improvvisati paladini, con l'espediente di negare la Storia.


Pogrom a Roma

l’Unità, 26.10.1943

Qualcuno aveva forse potuto sperare che i nazisti non avrebbero osato infliggere a Roma l’oltraggio del pogrom; che si sarebbero contentati della rapina, già perpetrata, dei 50 chili d’oro, pagati dalla comunità israelitica, sotto la minaccia di un feroce ultimatum. Ma il pogrom è giunto puntualmente a disingannare gli eterni illusi, quelli che forse ancora oggi non credono al barbaro piano di spopolare Roma di tutti gli uomini validi alle armi e al lavoro, alla nuova notte di S. Bartolomeo. Come già in Germania, in Austria, in Cecoslovacchia, in Polonia in tutta l'Europa invasa, in nome della più bestiale aberrazione che possa deformare la mente umana, in nome di quel razzismo che è la più atroce offesa alla dignità dell’essere umano, anche per le vie e i quartieri di Roma, è stata scatenata la caccia all’uomo. Famiglie intere sono state caricate con brutalità fredda e sbrigativa sui famigerati camion delle razzie. Vecchi paralitici, bambini lattanti, ammalati e puerpere prelevati dagli ospedali e dalle maternità, tutti sono stati convogliati provvisoriamente al Collegio Militare in attesa di essere deportati. Intanto si svolgeva il saccheggio delle case abbandonate alle rapine e al vandalismo degli hitleriani lanzichenecchi. I disgraziati, che sono qualche migliaio, venivano infine caricati alla rinfusa come bestiame sui vagoni merci. Dove ermeticamente chiusi, votati alla fame e alla sete, in una bestiale promiscuità, sono abbandonati in attesa che le comunicazioni ferroviarie interrotte vengano riattivate. Lo spirito di solidarietà del popolo italiano verso questi infelici, manifestatosi già in varie forme, al tempo della campagna razzista fascista, domanda giustizia e vendetta di fronte a questo spaventoso delitti commesso contro uomini inermi e innocenti, che si vogliono isolare dal resto della popolazione col barbaro pretesto di una inferiorità razziale, esistente solo nelle perverse ossessioni di Hitler. Ma esso non è che la prova generale del sinistro disegni di far deserta Roma non più degli ebrei, ma dei romani tutti. A tale inaudita violenza occorre resistere con tutte le forze. Ogni romano deve considerarsi personalmente mobilitato per la difesa della propria persona, della propria famiglia, della propria casa. Solo così potremo impedir che i nazisti facciano anche di Roma terra bruciata. La sorte degli ebrei di Roma sarà la sorte di tutti gli abitanti di Roma, se subiremo inerti e passivi l’estrema violenza dell’invasore.


Le persecuzioni anti-ebraiche debbono essere impedite

l’Unità, 7.12.1943

Or è qualche giorno è stata diramata per immediata esecuzione ai capi delle varie province (cioè ai ras dello squadrismo locale) un’ordinanza di polizia che commina per tutti gli ebrei senza eccezione l’invio in campo di concentramento, il sequestro o la successiva confisca dei beni; e per i nati da matrimonio misto (“ariani” secondo le leggi razziali fasciste) la sottoposizione ad una speciale vigilanza da parte della polizia. I Romani, i quali hanno assistito con orrore, nello scorso Ottobre, all’inumana e bestiale razzia operata dalle S. S. tedesche contro questi infelici; che hanno conosciuto in questi giorni le feroci torture e le innominabili sevizie a cui venivano sottoposti da parte dei criminali di Palazzo Braschi quelli di loro che non erano in grado di far le spese di esosi ricatti, comprendono benissimo qual sinistro e delittuoso disegno si annunci  sotto il pretesto di “prendere misure cautelari nell’interesse dell’Italia”, secondo l’espressione di un autorizzato (che val quanto dire prezzolato) giornalista. I Romani non possono permettere che tale disegno venga attuato, e i cattolici romani non possono limitarsi a deplorarlo. Non si deve tollerare che si ripeti in Roma l’orrendo misfatto di intere famiglie innocenti smembrate e deportate a morire di freddo e di fame chi sa dove. C’è un senso di solidarietà umana che non si può offendere impunemente. Queste vittime infelici della bestiale rabbia nazifascista debbono essere non solo soccorse perché si sottraggano alle ricerche e alla cattura, ma anche attivamente e coraggiosamente difese. I Romani debbono aver chiaro che, difendendo i loro concittadini ebrei, essi difendono anche se stessi, le proprie famiglie, le proprie case. Nelle prossime settimane, man mano che gli eserciti alleati si andranno avvicinando a Roma, i nazifascisti tenteranno di mettere in pratica i loro piani di razzie di massa della popolazione valida e devastazione della città, come già a Napoli. Un solo argomento può consigliare la nemico di desistere da questi piani: esso è costituito dalla ferma determinazione della popolazione romana di difendersi, di impedire con le armi qualsiasi tentativo di violenza. Non bisogna perdere dunque nessuna occasione per creare nel nemico questa convinzione; per dimostrargli che nessuna violenza può essere commessa impunemente; per indurlo a fare anticipatamente il bilancio delle sue perdite. Non è solo dunque il sentimento della solidarietà umana che deve spingerci alla difesa dei nostri concittadini ebrei; è anche il senso della nostra stessa conservazione, la certezza che si avvicina il momento in cui tutti potremo essere attaccati nella nostra persona, nelle nostre case, e che per prevenire questo pericolo occorre rintuzzare audacemente fin da ora ogni tentativo isolato o organizzato di violenza.

Da l'Unità, 27 gennaio 2004, per gentile concessione


Antisemitismo, pericolo mortale per l’umanità

Giorno della memoria, l’appello del Premio Nobel Eli Wiesel: attenti, la storia può essere dimenticata

Eduardo Di Blasi

ROMA «Nessun dolore è così grande da non poter essere dimenticato». L'uomo, il dolore, anche il più grande, tende a dimenticato. Fa come le mamme che partoriscono: quale donna partorirebbe se ricordasse l'atrocità di quel dolore fisico che ha provato? Il premio Nobel per la Pace, lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto a Buchenwald, nel mezzo della Giornata della memoria (sono circa le 17 quando prende la parola nell'aula Giulio Cesare, sede del Consiglio comunale di Roma, invitato dal sindaco Walter Veltroni), dipinge con pochi tratti la natura umana. Ri­corda un racconto di Kafka sulla tragedia di un messaggero che non riusciva a recapitare il proprio messaggio. Poi si raccoglie in un pensiero più profondo: «La cosa peggiore non è non riuscire a recapitare un messaggio. È non ricordare più quale sia...». Dolore immenso La memoria, appunto. La memoria davanti a quel dolore immenso, a quella catastrofe immane, allo sterminio lucidamente programmato ed eseguito chiamato, dalle vittime, «Shoah». Una memoria che, come nella natura umana spiegata da Wiesel, alla fine tende a scomparire lasciando la domanda: «La nostra storia, per quanto terribile essa sia stata, può essere dimenticata?». In fondo, ci racconta Wiesel, quello sterminio pianificato non fu opera di cieca ignoranza. I carnefici avevano studiato nelle migliori università d'Europa. Apprezzavano il bello dell'ar­te. Conoscevano la filosofia. Eppure non ebbero scrupoli a massacrare bambini inermi solo perché ebrei. Questo è successo in Germania, questo è stato, fatte le dovute proporzioni, nel Ruanda africano, nella Bosnia europea. A 59 anni esatti dall'apertura della vista sull'orrore di Auschwitz, cosa è rimasto? «Abbiamo le antenne», afferma Wiesel. «Tutto quello che c'è rimasto: le antenne. Antenne che ci dicono che oggi c'è un pericolo mortale per l'umanità, un pericolo che il ricordo di Auschwitz, un posto che solo nominato evoca ancora paura e timore, non serve a fermare. Adesso, anzi, questa immane tragedia che ha colpito gli ebrei viene usata contro Israele. Ma Israele cos'è? Non è il cuore dello stato ebraico? Capisco le critiche su un movimento politico, ma non si possono utilizzare quelle stesse parole per venire contro di noi». Auschwitz, con i suoi morti, il capannone dei bambini, le ruspe per spostare i cadaveri ridotti a ossa, resta ricordo. Rimane, mutato, il fondo dell'odio che generò l'abisso: l'antisemitismo. Gianfranco Fini, invitato anche lui come rappresentante del Governo, ha raccontato un episodio indicativo di una tendenza: «Quando ritornai da Israele, incontrai una sera un’illustre personalità del nostro Paese. Non un politico. Un professionista che si complimentò con me per le dichiarazioni fatte in Israele. lo stavo per ringraziare quando fui gelato da quello che continuò a dire: "Ha fatto bene. Gli ebrei sono potenti"». Questo è antisemi­tismo, queste le nuove sottili forme che prende oggi. Gli anticorpi sono nel sistema: «tenere viva la memoria nelle giovani generazioni», aveva affermato poco prima Veltroni. Roma ha dato tanto al Giorno della Memoria: un convegno alla Promoteca comunale organizzato con l'Anpi, l'incontro con le scuole al Teatro Brancaccio, una proiezione, presso l'Auditorium, per gli studenti romani insieme al presidente della Repubblica. Alla Promoteca, gli interventi di Giuliano Vassalli, del presidente dell'Anpi Rendina, del sindaco Veltroni e del direttore de l'Unità, Furio Colombo, che da parlamentare fu l'artefice dell'istituzione del Giorno della Memoria. Colombo ha raccontato della sua infanzia durante il ven­tennio: «Un giorno ci portarono tutti in palestra. E lì ci presentarono l'ispettore della razza che lesse la lista dei bambini che dovevano essere cacciati dalla scuola. La cosa più triste fu proprio il silenzio degli insegnanti. Coloro che per noi erano figure di riferimento, che fino a quel momento ci avevano dato sicurezza, si mostrarono indifferenti». All'Auditorium, su invito del Senato, del ministero dell'Istruzione, della Survivors of the Shoah Visual History Foundation e della TaskForce Internazionale per l'educazione, il ricordo dell'Olocausto, alla presenza di Ciampi (che con l'occasione ha premiato con la medaglia d'oro al valor civile Leone Paserman, in nome della comunità israelita di Roma), alcuni ragazzi delle scuole romane hanno assistito alla proiezione di tre film sull'Olocausto della serie, prodotta dalla Shoah Foundation di Steven Spielberg, intitolata Broken Silente. Cosa fanno i ragazzi Il primo gruppo di ragazzi è arrivato saltellante dentro l'Auditorium. Ha lanciato due fischi a Letizia Moratti quando questa ha preso la parola, ma poi, appena l'ha sentita parlare, accorata di quello che fu, ha ascoltato, in silenzio. E poi applaudito. Dopo il cerimoniale, con Ciampi e la signora Franca seduti in platea, è partito il primo filmato: Bambini dall'abisso di Pavel Chukhraj. Un film russo, sottotitolato in italiano, che, come tutte le produzioni della Shoah Foundation, si basa sulla fusione tra riprese filmate della guerra e ricordi dei sopravvissuti. In questo caso i sopravvissuti erano bambini quando la città di Kiev fu presa dai nazisti. Raccontano di eccidi, di orrori quotidiani, della mamma strappata al figlio, di quella, disperata, che per proteggere il suo pargoletto dal massacro lo strinse a sé, e poi, schiacciata dal peso dei cadaveri degli altri ebrei che venivano fucilati, finì per soffocarlo. Racconti che finiscono in pianti disperati per quel fratello che non si vide più, per quello che scelse la fila sbagliata e finì in una camera a gas. I sorrisi dei ragazzi, all'uscita, non c’erano più. Ricordare è doloroso.


Ma quanto è difficile ricordare?

Le testimonianze dell’olocausto omosessuale

d.v.

Quanti sono i nemici della memoria? Non ricordare equivale a non vivere? «Volevo restare zitto. Ormai sono passati tantissimi anni. Il mio ano sanguina ancora: i nazisti mi hanno infilato un bastone lungo 25 centimetri». È la voce addolorata e rabbiosa di uno dei gay sopravvissuti ai lager. La ascoltiamo guardando il film «Paragraph 175» girato da Rob Epstein e Jeffrey Friedman, ora distribuito in dvd dalla Emik e proiettato ieri sera a Milano. Per dimenticare la violenza il nostro testimone si è sposato e ha taciuto con tutti. Poi, andato a rotoli il matrimonio, è riuscito ad affrontare il dolore a voce alta. Ieri è stata la giornata della memoria, ritorniamo dunque agli interrogativi. È dalle domande, infatti, che spesso nascono i ricordi. Perché è così difficile ricordare? Chi uccide la memoria mortifica la vita? Per anni non si è parlato di vittime gay del nazismo e del fascismo perché a causa del pregiudizio in Italia, e in Germania delle leggi repressive in vigore fino al 1969, con­tinuava ad essere un'onta dirsi omosessuali. Ma questo non è stato il solo ostacolo alla memoria. La memoria ha tanti nemici: il dolore subito, la condanna sociale della visibilità espressa persino dagli stessi omosessuali, la difficoltà per le donne di ricordare una vita spesso più fantasmatica che reale, l'incapacità di sconfiggere, anche a distanza di anni, l'isolamento in cui si è vissuti. Contro queste offensive si scontra la generazione della «Giornata della memoria» che invece sente il dovere di ricordare, di ricostruire con più interezza possibile la storia. Anche nel tentativo di evitare che l'orrore in agguato ritorni. «Ho iniziato a girare i miei documentari credendo che i perseguitati dal fascismo non fossero stati contattati adeguatamente - dice Gabriella Romano, regista che ha al suo attivo tre documentari su fascismo e omosessualità - Invece i testimoni sfuggivano, sembrava quasi che stessi facendo un film non sulle vittime, ma sui criminali di guerra». Gli uomini, spediti al confino, di cui la Romano parla in «Ricordare», quando tornavano spesso cambiavano città. «Il problema era la visibilità. Gli uomini che han­no vissuto durante il fascismo e, dopo, negli anni Cinquanta, quando i modelli sociali avevano un’influenza fortissima, erano convinti che bastasse non dire o non vedere un fatto per togliere al fatto lo statuto di vicenda realmente accaduta. L'omosessuale perseguitato era stato scoperto ed era diventato visibile. L'omosessuale visibile dava scandalo, e chi dava scandalo era mal visto anche dai gay», continua la regista. La condanna sociale era espressa dalla società etero e dagli stessi omosessuali. Eterosessuali e omosessuali tendevano a trovarsi d'accordo sulla doppia morale, quella del «si fa ma non si dice». Chi ha fatto propria questa convinzione sociale ha continuato la sua vita cercando di dimenticare, non solo il dolore, ma anche lo scandalo. Così, se risalire con la memoria il corso degli eventi è già un'operazione difficile quando sono trascorsi tanti anni, diventa quasi impossibile se negli anni sono intervenuti fattori potenti che hanno ostacolato i ricordi. Di qui la sensazione del testimone che sfugge. A metterlo in fuga sono anche una condizione e una sensazione di isolamento. E bastava poco per soffrirne. La massiccia propaganda che voleva piegare tutti a com­portamenti collettivi vedeva in ogni soggettività il germe della sovversione, arrivando ad additare come scandalosa persino una capigliatura femminile alla maschietta se a portarla era una donna di oltre 25 anni. «La nostra generazione sente la responsabilità di ricordare, molti protagonisti dell'epoca, invece, tendono a non valorizzare il recupero della memoria e a non sentire indispensabile il salvataggio delle testimonianze prima che vadano perdute». A que­ta operazione Gabriella Romano è invece molto interessata. È esperta di storia orale e, quindi, di recuperi difficili. Il suo documentario «Pazza d'azzurro», che ha dato inizio alla produzione su omosessualità e fascismo, affronta la storia di Nietta Aprà, donna anticonformista vissuta nelle campagne piemontesi durante il ventennio insieme alla sua Flafi, compagna di lavoro e di vita. «Nietta ha lasciato molti diari desi­derando che venissero pubblicati». Nietta, dunque, era determinata a tramandare tracce della sua storia. Al contrario le donne de «L'altro Ieri», documentario su lesbismo e fascismo, hanno fatto molta fatica a dare valore alla testimonianza. Solo di una delle intervistate vediamo il volto ed è colei che, sportiva, è riuscita ad affrancarsi dai confini di una vita costretta tra famiglia e lavoro. Il modello della donna laboriosa e obbediente, della giovinetta innamorata del duce, della madre eroica e sempre pronta ad assecondare l'autorità maschile, rafforzato da una propaganda che non lasciava respiro, era il persecutore delle donne. Gli uomini gay, invece, riuscivano ad avere locali clandestini di ritrovo, che potevano essere bar o luoghi di battuage. «Mi piaceva una ragazzina, avevo paura di mia madre e del prete che frequentava casa - dice una delle testimoni - solo anni dopo la scomparsa della mamma riuscii a superare la mia paralisi». Il sacerdote compare in questi ricordi come figura della repressione e non di rado praticava l'esorcismo per cac­ciare il diavolo dai corpi delle ragazzine che cercano le loro simili. Perseguitate, tenute all'oscuro riguardo alla sessualità ­«ho sentito pronunciare la parola lesbica solo negli anni Cinquanta» dirà la Mazzo­leni -, le donne povere di «parole per dirlo» trovavano nell’autocensura e nell'autodisciplina un nemico quasi invincibile. Pur attratte dalle donne, spesso non riuscivano ad averne consapevolezza. Mentre l'isolamento diveniva il loro abito interiore. «È una dimensione tragica di cui hanno sofferto tantissimo», aggiunge la Romano. Dimensione anche vagheggia­ta nelle sue versioni eroiche o sublimi: tra le intervistate, c'è chi ama Robinson Crusoe, chi si perde in solitarie passeggiate in alta montagna. L'isolamento, abito odiato cui ci si rassegna, diventa uno dei più grandi nemici della vita di ieri e della memoria di oggi. Ed è forse una delle eredità più pesanti che ancora continuano a minare l'autostima, a erodere il senso e il valore della partecipazione sociale, a farci tutti più deboli. A ostacolare la visibilità. Dietro tante resistenze sembra permanere una insanabile sfiducia espressa con interrogativi dal sapore amaro: perché devo testimoniare? Perché devo parlare di me? A chi potrà servire la storia di un gay, di una lesbica, di una persona isolata? Ci piace pensare che la risposta possa essere una sola: «A ognuno di noi, nessuno escluso».

Da l'Unità, 28 gennaio 2004, per gentile concessione

sommario