l'Unità

Il gulag e i fratelli Cervi
di Furio Colombo

I lettori di questo giornale ricorderanno che martedì 10 dicembre ho risposto al prof. Ernesto Galli della Loggia che si chiedeva, in un articolo di fondo del Corriere della Sera, come mai «il popolo della sinistra» (espressione sua) non si fosse ancora pentito, solennemente e in pubblico, della colpa dei gulag sovietici. I lettori sanno che nella mia vita non ho fatto parte del «popolo di sinistra» che Galli della Loggia ha in mente (la sua descrizione, però, evoca più il mondo di Peppone e Don Camillo che la grande evoluzione storica della sinistra italiana, che va dall’antifascismo alla Resistenza, alla Costituzione, alla lotta contro il terrorismo, alla costruzione di un grande partito socialdemocratico) e che non sono stato fra quegli intellettuali militanti di un tempo, molti dei quali appaiono oggi, con ostentazione ante-marcia, nelle file di Forza Italia. Per questo potevo affrontare la domanda di Galli della Loggia. Ho risposto che altri, nella Storia, devono e dovranno rispondere di orrendi crimini sovietici. Mi sono permesso di indicare, fra essi, Vladimir Putin, che da alto esponente del Kgb ha certo avuto ruoli di primo piano nella malefica organizzazione dei gulag, e nella scelta delle persone da perseguitare (usa anche adesso la prigione come strumento di controllo della opposizione) e che si trova spesso in vacanza in Italia. Che senso ha andare in casa dei fratelli Cervi (Agostino, Gelindo, Aldo, Antenore, Ettore, Ovidio, Ferdinando, fucilati dai fascisti il 28 dicembre 1923) a esigere un atto di contrizione sui gulag, un atroce delitto sovietico, quando la vita italiana è stata segnata casa per casa, villaggio per villaggio, famiglia per famiglia, da un atroce delitto italiano, detto fascismo? Ma vediamo le reazioni curiose, tutte con la testa rivolta altrove, che l’articolo dell’Unità ha provocato su pubblicazioni diverse ma altrettanto sensibili al fermo desiderio di Berlusconi che esige: solo di comunismo si deve parlare, dei mali del comunismo, del pericolo del comunismo, della minaccia imminente del comunismo, qui, adesso, oggi, nell’Italia di Arcore.  Scrive «Il Riformista» (editoriale, pag. 2) dell’11 dicembre: «Per questo ci chiediamo perché mai la sinistra non dovrebbe discutere dei gulag proprio mentre Fini visita lo Yad Vashem». Eppure la risposta è semplice. Fini ha visitato il Museo della Shoah a Gerusalemme per non stare al gioco un po’ ignobile di Berlusconi che parla bene di Mussolini allo scopo di coltivare i peggiori sentimenti della parte arretrata del Paese. Fini evidentemente intende essere in futuro un leader credibile per la normale e non indottrinata opinione pubblica europea e del mondo. Lo ha fatto - credo - perché sa che sarebbe bizzarro andare a fare convegni su spaventosi delitti altrui quando sono accaduti intorno a noi, qui, in questo Paese, spaventosi delitti italiani che adesso dovremmo ignorare per sempre. Fini non deve avere dimenticato quel giorno triste e ridicolo in cui Berlusconi, finalmente informato del destino dei fratelli Cervi, ha detto senza prestare attenzione: «Va bene, va bene, li vado subito a trovare». Fini ha voluto far sapere che conosce la storia italiana, con tutto il suo peso di sangue. Sangue di queste strade. Sangue generato da quella fiamma di cui si tesse ancora l’elogio, qui, adesso, in questi giorni. Poi «Il Riformista» dello stesso giorno (pag. 8) dedica una esclusiva occasione di replica a Galli Della Loggia. Il professore mi fa notare che, citando Primo Levi, ho scritto: «Salvati e sommersi» invece di «Sommersi e salvati». Osservazione giusta, ma l’unica. Per il resto ripete con fermezza la parola d’ordine tassativa ed esclusiva del leader di Arcore: nell’anno 2003 si deve parlare di comunismo, solo di comunismo, il suo orrore (benché si sia compiuto lontano) e il suo pericolo, benché non esista più. Fate finta che esista ancora, fate finta che il pericolo sia incombente e imminente. Avete tutti i grandi giornali a disposizione, avete tutte le reti TV, avete Socci ed «Excalibur», avete «Porta a Porta» tutte le notti che Dio ci manda. Se occorre, si fa finta che sia comunista la Cina, il solo Paese del mondo che abbia un rapporto commerciale privilegiato con gli Stati Uniti, quello che ospita il numero più alto di filiali e di succursali di tutto il capitalismo internazionale, il Paese a cui nessun Berlusconi, nessun Bush, quando si recano in visite festose con fini esclusivamente commerciali chiedono mai un minimo di decente rispetto per i diritti umani. Eppure il Prof. Della Loggia, più di altri, dovrebbe sapere che il suo argomento - secondo cui l’Italia di sinistra, dai tempi delle galere antifasciste ai giorni nostri, è responsabile dei gulag sovietici - non è esportabile. Si può agitare e presentare e ripetere come se fosse logico e sensato, solo in un Paese ad informazione bloccata, fra presentatori di libri e dibattiti che stanno tutti - disciplinatamente - allo stesso gioco, e si prestano a ripetere, a scapito della propria reputazione, le frasi dettate da Arcore. Immaginate che il prof. Della Loggia sia invitato in una università americana per parlare, in base alla sua competenza, di storia italiana contemporanea. Immaginate la reazione, lo stupore, la perplessità della folta platea che lo studioso italiano è certo in grado di richiamare, nel momento in cui, invece di parlare dell’Italia del fascismo, dell’Italia della Resistenza, dell’Italia della riscostruzione, dell’Italia delle lotte del lavoro, dell’Italia del boom, dell’Italia di Mani Pulite, dell’Italia di Berlusconi, lanciasse un appello affinché la sinistra italiana - quella di Marzabotto, Nonantola e Portella della Ginestra - si riconoscesse pubblicamente responsabile dei gulag sovietici. Ma, a quanto pare, più della reputazione conta il mandato. Il mandato è di cancellare la memoria italiana dell’antifascismo da cui nascono i diritti che adesso si tenta di negare. Non saprei dire perché «Il Riformista» partecipa, accaldato, a un simile gioco. Ma partecipa, e bisogna prenderne atto. Accanto al «Riformista», entra in campo «Il Secolo d’Italia». Un certo Girolamo Fragalà scrive che «la verità brucia sulla pelle di Furio Colombo». Non sa bene di che cosa lo hanno incaricato di parlare, ed è evidentemente disorientato sulla materia. Elenca i nomi di ragazzi uccisi negli anni di piombo da altri ragazzi che poi sarebbero stati uccisi in quegli stessi anni, cercando di buttare morti addosso a morti. Accenna a una rabbia che metterebbe nell’angolo Pansa e Macaluso (ma Pansa non ha ancora scritto il libro-rivelazione sui gulag, e Macaluso ha parlato dei suoi anni, dei suoi ricordi, di esperienze che gli appartengono, e ha tutto il diritto di farlo). Ma «Il Secolo d’Italia», come «Il Riformista» sta attento a non ripetere la sola argomentazione che era stata sollevata dall’Unità: noi non stiamo al gioco di Berlusconi la cui consegna è parlare esclusivamente e ossessivamente di comunismo. Noi parliamo dello spaventoso delitto italiano che ha avuto venticinque anni di tempo per consumarsi, fra galere e persecuzioni, fra i delitti di Gramsci, Gobetti, Matteotti, Rosselli, Don Minzoni, ha avuto in Fossoli e nella Risiera di San Saba, qui, in Italia, accanto a noi, i suoi gulag, e nella polizia e nella burocrazia italiana i suoi aguzzini. Verificate, vi prego, nel “Libro della Memoria” di Liliana Picciotto Fargion, verificate, nome per nome, quanti ebrei italiani sono stati arrestati da italiani e consegnati da italiani agli esecutori nazisti per la «soluzione finale», cioè lo sterminio. Noi siamo fra coloro che da bambini hanno visto e temuto la polizia fascista, i suoi sicari e i suoi spioni, non gli uomini che hanno preparato e spianato la strada a Putin, e ancora oggi lo scortano sulla Costa Smeralda. Noi, che non abbiamo alcuna soggezione delle parole d’ordine di Forza Italia, pensiamo che sia una importante iniziativa storica studiare, orrore fra gli orrori del mondo, i gulag sovietici. Ma perché chiederne conto al popolo dei fratelli Cervi? Noterete che, nelle nervose risposte ricevute, di tutto ciò non si fa alcun cenno. Non una parola su Boves, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Montesole, Via Tasso, Ardeatine. Pensate: ci sono in giro deputati che vogliono mandare a casa con onore il capitano Priebke, quello delle Fosse Ardeatine, quello delle esecuzioni sopranumero (un colpo alla nuca) qui, a Roma, esemplare vivente della storia contemporanea che abbiamo appena vissuto. E loro si riuniscono per intimare alle famiglie delle vittime e dei sopravvissuti della Resistenza: pentitevi. Non vi sembra un po’ troppo? Agli storici in vena di correzioni con matite rossa e blu vorrei dedicare una citazione. È dello storico Thomas Charlyle: «Un atto di coraggio non comincia fuggendo lontano. Comincia con qualcosa che è vicino a noi, che è parte della nostra vita» («Gli eroi», 1841).

Da l'Unità, 13 dicembre 2003, per gentile concessione

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