Triangolo rosso

I GRANDI DELLA DEPORTAZIONE

Aldo Carpi

dall’Accademia di Brera al campo di sterminio

Su pezzettini di carta, giorno dopo giorno, scrisse il suo diario di Gusen

 

Aldo Carpi, il pittore che ha saputo raccontare l’inferno dall’interno, sfidando ogni giorno la morte, venne arrestato dai fascisti la mattina del 23 gennaio del 1944, a Mondonico, un piccolo paese della Brianza, dove era sfollato con la moglie Maria e i sei figli Fiorenzo, Pinin, Giovanna, Cioni, Paolo e Piero. Insegnante all’Accademia di Brera e già affermato nel mondo dell’arte, Carpi al momento della cattura, avvenuta su delazione, aveva 57 anni. Avvisato dell’arrivo dei fascisti, Carpi avrebbe potuto salvarsi, ma anziché fuggire, preferì prendere la strada di casa, nella speranza, consegnandosi, di salvare i figli, che era convinto fossero nell’abitazione. Nessuno di loro, già attivi nella Resistenza, era invece in casa. Avvisati anch’essi dai contadini, poterono mettersi in salvo. Carpi così fu portato nel carcere di San Vittore e successivamente venne deportato nel campo di sterminio di Mauthausen e, infine, a Gusen, che ne era una specie di sottosezione, dove scrisse su foglietti, con scrittura minuscola, uno sconvolgente diario. In casa, quando, arrivarono i fascisti, c’erano, oltre alla moglie, la figlia Giovanna, il figlio Piero, che aveva allora solo 13 anni, e due partigiani di Lodi, uno dei quali, Egidio Lovati, venne arrestato, mentre l’altro, Gino Molina, fu rilasciato, ma quattro mesi dopo, braccato dalle brigate nere, venne ucciso con una raffica di mitra, in via Solferino. Dei sei figli, Paolo venne catturato nel luglio del 1944 dalle SS. Deportato prima a Flossenbürg e poi nel campo di sterminio di Gross-Rosen, venne assassinato dai nazisti con una iniezione a 17 anni. Aldo Carpi, destinato in un primo tempo nelle cave, a caricare blocchi di pietre su un treno, non sarebbe di sicuro sopravvissuto, se non fosse stato per il suo talento di pittore, scoperto da un aguzzino del lager, che gli chiese un ritratto da mandare ai familiari. A questo ritratto, ne seguirono moltissimi altri da far avere ai figli degli ufficiali, alle mogli, alle fidanzate, prendendo sempre per modello una fotografia. Piacevano questi ritratti e anche altri quadretti con soggetti vari, specialmente paesaggi. Grazie a questa attività artistica, Carpi poté lavorare in un ambiente al chiuso, relativamente caldo, guadagnandosi qualche zuppa supplementare e altro cibo, che provvedeva a distribuire in parte ad altri prigionieri. Atto di grande coraggio il suo Diario, ristampato più volte dalla Einaudi nella collana dei Tascabili. Si deve, infatti, ricordare che se fosse stato scoperto mentre lo scriveva o anche se gli fossero stati trovati addosso i fogliettini, non avrebbe avuto scampo. Nei campi di sterminio, d’altronde, si veniva ammazzati per molto meno. Come scrive Primo Levi, quasi sempre era il caso a decidere che, a favore della vita, decideva raramente. Per chi entrava in quei lager, la possibilità di uscirne vivi, era ridotta quasi a zero. Per un artista come Carpi, inoltre, c’erano anche i pericoli dovuti alla rivalità di altri. Scrive Corrado Stajano nella prefazione al Diario di Gusen, che quando arrivò nel primo lager «fu accolto dall’ostilità di altri pittori deportati che temevano la sua concorrenza, lo maltrattarono, gli rubarono i colori che era riuscito faticosamente a portare con sé». A Gusen fu più fortunato, incontrò un medico polacco, Felix Kaminski, che aveva una grande passione per l’arte, e un altro medico, pure polacco di Poznan, Toni Goscinski, che lo protessero, gli permisero di rimanere in uno sgabuzzino dell’ospedale, dove Carpi, che era riuscito a preparare dei colori, lavorò sistematicamente come un dannato. In un anno di lager dipinse a tempera o a olio, 74 quadri, fra cui «il ritratto del capitano medico, fiori, donne e rose, il figlio del capitano, la donna velata, la donna del sergente, l’ex ergastolano, la bionda del lago di Como, il figlio del dottor Kaminski, il padre del dottor Kaminski, il monte Rosa, una madre col bimbo in montagna, una ragazza morta in un bombardamento, un nudino veneziano». Ma solo dopo la liberazione, al ritorno a casa, potrà dipingere le scene strazianti nel campo della morte, indimenticabili nel loro orrore. Racconta il figlio Pinin, che ha ammirabilmente curato le memorie del padre, intervistandolo per giorni e giorni per colmare gli stacchi fra un foglietto e l’altro e per chiedergli chiarimenti su personaggi e vicende appena accennate nel diario o nei primi due giorni del ritorno, durante i quali parlò ininterrottamente per poi fermarsi rifiutandosi di raccontare altri episodi della prigionia. E non volle neppure rileggere i suoi foglietti di memorie, nemmeno uno, perché “non si è mai sentito in grado di farlo”. Ancora negli ultimi anni faceva fatica a parlarne. Non ce la faceva a dimenticare i compagni che ogni giorno aveva visto entrare nel “Bahnof” del blocco 3, la camera della morte. E come avrebbe potuto dimenticare l’operaio Alfredo Borghi, che, nell’anticamera della morte, lasciato senza cibo e acqua, gli grida implorando: “Carpi, damm de bev”. O quel ragazzino russo, “bolscevico di 12 anni”, il piccolo Zucarov, che carezza come fosse suo figlio, tenendoselo stretto come estremo saluto, consapevole che non avrebbe potuto strapparlo alla morte. Finisce finalmente l’incubo, arrivano i liberatori americani e Carpi, sia pure con un ritardo di tre mesi perché anche agli americani piaceva farsi ritrarre, torna nella sua casa, in mezzo ai suoi, trovando però il doloroso vuoto del figlio Paolo, giovanissimo partigiano, assassinato dai nazisti. A furore del popolo dei critici, pittori, modelle, bidelli, Aldo Carpi viene nominato direttore dell’Accademia di Brera. Nel libro è riprodotta la foto di un cartello con scritto: “Vogliamo Carpi a dirigere Brera”, con moltissime firme di artisti, allora giovani, che diventeranno famosi: Cassinari, Morlotti, Dova, Ajmone, Crippa, Del Bon, Funi, Soldati, Treccani, Cavaliere. Fra i critici primeggiano le firme di Mario De Micheli e Raffaellino De Grada. Aldo Carpi vivrà ancora ventotto anni. Muore a Milano il 27 marzo del 1973, all’età di 86 anni. Restano le sue opere di grande pittore e resta la sua testimonianza, fra le più alte, di quei terribili anni.

L’ARRESTO

Io, in certo modo, ero stato preavvisato dell’arresto, non mi è arrivato inaspettato. Sapevo già che ero stato denunciato da qualcheduno, mi avevano fatto anche dei nomi, tre nomi specialmente, e io avrei avuto la possibilità di espatriare: ma con tutta la baracca dei ragazzi non saprei come avrei potuto farlo. Perché far espatriare un uomo è un conto, ma una specie di camion è un po’ più difficile, no? (...) Il bello è che erano venuti in tanti, c’era tutta la casa circondata ed erano armati di mitra e rivoltelle come se avessero dovuto arrestare il brigante Gasparone. Avevano perquisito tutta la casa cercando armi che non c’erano. Ricordo che quasi non volevano lasciarmi entrare. E io ho detto: ‘Scusate tanto. Son venuto qui da solo mentre avrei potuto tagliar la corda; ero lontano abbastanza dalla casa, no? Lasciatemi almeno salutare la famiglia’. E mi han lasciato salutare la Maria e le ho consegnato il mio portafoglio dove non c’era neanche un centesimo. Poi ho fatto il segno della croce con la Maria e mi hanno portato via. Ricordo che quando sono salito in casa c’erano Lovati e Molina con tutti i ragazzi circondati dai fascisti e io temevo che portassero via anche loro. C’era Fiorenzo, l’ho visto. Per fortuna l’han lasciato lì. Gli si fa notare che, all’arrivo dei fascisti, non erano in casa né Fiorenzo né gli altri tre figli maschi maggiori. Ma chi c’era, allora? Gli si dice che c’erano soltanto Piero e Giovanna. Ma allora, si vede che nella confusione mentale di quel momento, li ho visti tutti, come se fossero lì veramente

NEL CARCERE DI SAN VITTORE

Durante la mia permanenza a San Vittore è partita una colonna di ebrei, lunga, molto lunga, e in testa alla colonna c’era, portata da quattro di loro, una donna anziana su una barella, seduta su una poltrona ad alto schienale; siccome non poteva camminare, la portavano via su una poltrona e avanzava avanti a tutti come una specie di trofeo. E, dietro, tutti gli altri. C’erano donne, c’erano bambine e bambini, anche piccoli, e c’era una donna che aveva partorito, credo, in carcere, e aveva un bambino proprio di pochi giorni. Tanto per dire una cosa strana, c’erano due giovani soldati tedeschi che piangevano, specialmente per quei bambini piccoli che non capivano niente di quanto accadeva. Proprio di fronte a me c’era un vecchio con un sacco che a vederlo sembrava avesse, non so, più di novant’anni; gli davano del pane e lui cercava d’infilarlo nel sacco, ma non riusciva e il pane cadeva in terra.

MAUTHAUSEN

Quando siamo arrivati al campo e siamo entrati pareva un po’ come entrare nella porta dell’inferno (...). Poi ci han condotto al bagno. Ricordo che mentre scendevamo lungo le scale che portavano al bagno, han fatto scendere con noi un gruppo di Muselmann come noi li avremmo chiamati dopo, che erano gli uomini mummia, i morti vivi; e li han fatti scendere insieme a noi solo per farceli vedere, perché ci facessimo subito un’idea del lager, come a dirci: diventerete così (...). Quindi ci hanno fatto spogliare, ci han tolto tutta la roba che avevamo con noi e ci hanno dato una camicia - a me arrivava all’ombelico - un paio di mutande - che mi arrivavano a metà gamba - e delle scarpe con la suola di legno, degli zoccoli, e poi, fuori, in mezzo alla neve, immediatamente, ma io non mi sono preso neanche un raffreddore. Strano, no?

LA CAVA

A Gusen, dopo pochi giorni, mi han portato a lavorare alla cava. Alla cava più che altro il lavoro per me consisteva nel trasporto di sassi, che erano però di una mole tale che con la forza che avevamo noi, specialmente io, ti saluto! Noi si raccoglieva i blocchi di pietra per caricarli sui vagoni di un piccolo treno a scartamento ridotto. Portavo i sassi assieme a un altro detenuto, che era operaio, e perciò più forte, e lui si lamentava perché non riuscivo a reggere il peso; i sassi mi scappavano via perché le mie mani non tenevano. E poi si lavorava con la pioggia, nel fango, e poi i sassi bisognava andarli a prendere sotto uno strapiombo (...). Con me lavorava anche il povero Luigi Caronni, un contadino di Saronno che, quando lo aiutavo a caricare le pietre, mi diceva: “Professore, non mi aiuti”, perché sul più bello mi mancavano le forze e intralciavo il suo lavoro. E così finivo con l’andargli dietro, e basta. Quando si lavorava la terra, dopo un po’ il badile mi girava nelle mani e allora il Caronni mi diceva: “Professor, el staga davanti a mi. El faga finta de lavoraa”.

QUADRI PER LE SS

Nel revier di Gusen avevo cominciato a fare qualche disegno a letto: ero ammalato davvero, avevo le ferite aperte e una febbre continua. Poi, non so come, è venuto a trovarmi il sergente medico delle SS Hans Giovanazzi e mi ha chiesto di dipingere qualcosa per lui o per un’altra SS, non ricordo. Ha fatto eseguire, su mie indicazioni, una

tavolozza e un cavalletto e mi ha portato dei colori (...) ho dipinto dei paesaggi italiani, a memoria, e siccome sono piaciuti è venuto da me anche il capitano medico delle SS, Hellmuth Verter, che in sostanza, con me è stato sempre gentile, ma in compenso era responsabile della morte di tanti altri. A Verte ho fatto due ritratti a olio. Mi parlava della famiglia, di tante cose; mi ha anche domandato una volta: “Ma come mai l’han portato qui?”. Era strana una frase come questa, là.

QUANDO L’SS SPARAVA AI MORTI

Quello che rideva? Me lo ricordo bene. Io avevo cominciato il ritratto a una SS, Schmidt, si chiamava, un tipo ordinario, grossolano. Mi aveva chiesto di fargli anche il ritratto della “morosa” e mi aveva detto che mi avrebbe portato la fotografia. Prima di venire da me, quel giorno, era andato al crematorio. C’era un ragazzo russo, avrà avuto vent’anni, che era stato sorpreso a rubare del pane e che avevano condannato a morte. Schmidt allora l’aveva condotto addirittura al deposito dei morti, aveva chiamato il dottor Kaminski e gli aveva detto di fargli seduta stante un’iniezione mortale. Kaminski ha risposto: “Non posso farlo perché non è compito dei medici polacchi”. C’è da notare che Kaminski parlava bene il tedesco, inoltre era lì da quattro anni e aveva acquistato una certa autorità, una certa abitudine a trattare con le SS. Quando quel giovane ha capito che Kaminski non gli avrebbe fatto l’iniezione gli ha chiesto una sigaretta. Era tranquillo. Sapeva che doveva morire. L’ha fumata e poi l’SS gli ha sparato. Qualche minuto dopo Schmidt è venuto da me allegro e sorridente a portarmi la fotografia della “morosa” e, mentre posava, la guardava tutto contento. Non so perché, ma ho subito subdorato che era accaduto qualcosa. Quando è finita la posa ho chiesto a Kaminski che mi ha raccontato quello che era successo. Una volta abbiamo visto Schmidt sparare vari colpi di pistola tra i morti che avevano ammucchiato nel cortiletto fra il mio blocco, il 30, e quello del Bahnhof, il 31. Abbiamo capito che aveva sparato a qualcuno che si era mosso, ossia che era ancora vivo. Là, quando uno era dichiarato morto, non c’era più verso di fargli cambiare stato. C’era un ruolino preciso. Poi hanno fatto girare la voce che avesse sparato a un topo.

LA MORTE DI GIAN LUIGI BANFI

10 aprile 1945, martedì

Alle 12,45 moriva Banfi. Mancato lentamente senza soffrire. È stato curato nel miglior modo possibile qui, ed è morto nel suo letto. Era estremamente debole. Ieri mattina era venuto da me a visitarmi, ma il viso e specialmente gli occhi erano senza vivacità. Fino alla sera quando lo lasciai, come sempre prima, aveva spirito. Ma la notte disse a Franco che non ce la faceva più; poi cominciò un piccolo delirio. Ricevette al mattino un’iniezione di simpatol, poi delle pillole che non prese perché s’addormentò e così nel sonno finì. Il sole era sulla sua finestra e su di lui: bellissima giornata (...). Banfi ho cercato di aiutarlo prima di tutto facendolo passare dal blocco 31 al blocco 30. Ogni mattina il capo del Bahnhof faceva il giro del blocco 31 per scegliere chi doveva entrare nella Stube finale (...) Questo a Banfi sono riuscito ad evitarlo (...) Poi diverse volte ho aiutato Banfi quando è arrivato al 30 perché aveva un po’ di dissenteria e se per caso si fosse sporcato l’avrebbero rimandato immediatamente al 31 (...). Così gli avevo dato qualcosa per cambiarsi e non l’hanno più rimandato al blocco 31. Ma era già in condizioni terribili. Il giorno prima di morire è sceso dal suo letto ed è venuto da me. “Perché ti alzi. Riposati” gli ho detto. Lui mi ha guardato e basta, con degli occhi, e difficile dire che occhi: certamente disumani; non c’era né dolore né terrore; erano terrorizzanti. Non terrorizzati, terrorizzanti; poi è tornato al suo letto a castello dove c’era il suo compagno, l’operaio Franco”.

IN QUEI GIORNI...

In quei giorni (quelli alla vigilia della liberazione, ndr) ho scoperto che i miei amici polacchi avevano creato nel pavimento dello ‘Stube’ di patologia un ripostiglio segreto con una botola, tagliata a regola d’arte, che appena veniva chiusa non si notava più. Ho visto nascondere tante cose, pacchi, oggetti. E a un certo punto il diario l’ho nascosto lì. Così sono riuscito a salvarlo.

8 GIUGNO 1945, VENERDÌ

Stasera alle 7,30 il dottor Toni mi ha chiamato. Era assieme all’ingegnere americano, capitano Hermann: io stavo riportando in camera il mio piatto e la tazza dopo il pranzo. Mi ha detto: ‘Andrai in Italia. Domenica partirai col capitano per Regensburg. Dopo due giorni di là raggiungerai l’Italia in aereo’. Ho comunicato subito la notizia a Ravelli e amici. Avrò un grosso plico di lettere da portare. Ma poi le cose non andarono così. Carpi tornò in Italia qualche mese dopo, anche perché - vedete un po’ - i suoi ritratti piacevano anche agli ufficiali americani.

IL MARCHESE

Quel giovane dell’aristocrazia milanese a cui ho portato un pezzo di pane era il marchese Lodovico Groppallo. Era ridotto agli estremi, uno di quelli che noi chiamavamo “Muselmann”, e quando si arrivava a quel punto di deperimento non ci si salvava più. Il suo viso non era più un viso, gli occhi erano andati, spenti, privi di pensiero, chiedevano la carità ma senza più avere la forza di domandare. Una volta mi aveva fatto vedere una sua fotografia da sottotenente; era un bellissimo ragazzo coi baffetti. Dopo quel giorno non l’ho più rivisto. Era seduto su uno scalino. Mi è rimasta l’impressione, perché l’ho sempre visto

“CARPI DAMM DE BEV”

Alfredo Borghi era un pezzo d’uomo, un operaio dell’Alfa Romeo, simpatico molto, di quelli vivi. Lavorava alla Steyr o alla Messerschmitt. Ha mangiato del wurstel avanzato dal giorno prima e gli è venuta la dissenteria. Così l’hanno mandato al blocco 31. Ti saluto! Il mio ultimo incontro con lui l’ho avuto da lontano. Mi hanno avvertito: “C’è uno che ti chiama dal blocco di fronte”. Io ero al 30, lui al 31, nel Bahnhof della morte. Lui era aggrappato alla rete della finestra e urlava: “Carpi damm de bev!”. Perché una delle cure che le SS praticavano ai dissenterici era di non dar loro da bere, né da mangiare. Li

lasciavano morire. Come potevo fare? Per portargli l’acqua avrei dovuto saltar giù dalla mia finestra, attraversare il cortile e arrampicarmi fino a lui. Ma per me quel salto era impossibile, come impossibile risalire dall’altra parte. Non avrei potuto prendere una bottiglia d’acqua e portargliela. Impossibile. Così è morto miseramente. Eravamo verso la metà d’aprile.

CRISTO MORIVA CON LUI

Ma vidi un morto ieri. Lo credetti morto ma era solo un moribondo. Visi di dolore, grigi come le coperte, visi sfiniti quasi di dementi, miserabili e sporchi. Quando ripassai da quella camera tutti erano stati portati via tranne il moribondo del centro. Egli era solo, nudo, disteso al suolo al centro della stanza, visibile da quattro porte. Agonizzava e aveva il leggero singulto del respiro difficile, quando il cuore rallenta. Le braccia aveva ripiegate sul petto e il viso riteneva ancora un’espressione di vita. Un dolore infinito diffuso sulla faccia di colui che morendo si sente da tutti abbandonato, da nessuno accarezzato. Due occhi piccoli neri guardavano in alto e luccicavano sotto le palpebre: c’era del pianto, sotto, pianto senza lacrime. Una bocca semiaperta nel volto abbronzato, pareva parlare: tutto il viso pareva parlasse, non a noi, non a nessuno, a Dio, raccomandando sé e qualcuno del suo paese; era una preghiera, una domanda di pietà, di misericordia, di grazia. Mi venne la voglia di abbassarmi e di fargli il segno della croce sulla fronte. C’erano altri, eravamo nel lager; non ebbi il coraggio e ne ho il rimorso. Doveva essere uno di quei semplici contadini russi, semplici come si vedono nei libri di Tolstoi. Era solo, disteso sul pavimento della stanza vuota, e Cristo moriva con lui. E io mi sentii vile nell’anima davanti a lui.

Hanno detto di lui

MARIO DE MICHELI

A leggere le pagine di questo suo diario si avverte sin dall’inizio la ripugnanza di Carpi a dover riconoscere la presenza attiva del ‘male’ nel cuore dei propri simili, a dover ammettere che gli uomini sono diventati capaci di organizzare premeditatamente e razionalmente il delitto di massa. Il crimine come ‘incongruenza’ estranea alla logica vera dell’esistenza umana è una convinzione che neppure per un attimo abbandona la mente di Carpi. E di qui il tono alto e ispirato di tanti suoi fogli, la fermissima, indomita energia della sua fede nelle qualità dell’uomo a dispetto di tutte le prove contrarie.

CORRADO STAJANO

Il Diario di Gusen, scritto fra il 1944 e il 1945 su minuscoli foglietti, le ricette di un medico, nel campo di lavoro e di eliminazione a sette chilometri da Mauthausen, conservato a rischio della vita, è un documento di religiosità profonda, una lezione di pudore, di dignità e di coraggio che incute commosso rispetto. Si scorre la smisurata bibliografia sui lager nazisti, sull’universo concentrazionario, sullo sterminio, da Amery ad Antelme a Bettelheim a Primo Levi, si capisce subito, tra memorie, testimonianze, saggi critici e storici, analisi e polemiche, che il Diario di Gusen è unico per i modi in cui è nato, sul luogo dell’orrore, tra i Muselmann, i prigionieri che hanno lasciato ormai ogni speranza, davanti alla finestra che guardava sul Bahnhof del blocco 31, la camera a gas e il crematorio, una parola circospetta dopo l’altra, quando di notte le SS se ne andavano e il campo restava nelle mani di ex galeotti. Scritto in forma epistolare – lettere alla moglie Maria - il diario è diverso anche nello stile, sereno, privo di risentimento, odio, spirito di rivalsa.

PININ CARPI

(il figlio, curatore del Diario di Gusen)

Mio padre venne arrestato da una squadra della polizia fascista la mattina del 23 gennaio a Mondonico, una piccola frazione – un centinaio di abitanti - fra le colline di Olgiate Calco ai piedi del monte San Genesio, situata a una quarantina di chilometri da Milano, dove la nostra famiglia era sfollata. Allora era titolare della cattedra di pittura dell’Accademia di Brera ed era stato denunciato per attività antifascista proprio da un ‘collega’, un mediocre scultore che insegnava al liceo artistico e che era anche lui sfollato a Mondonico, in una casa in cui al principio del secolo aveva lo studio il pittore Emilio Gola e che era proprio attigua a casa Riva dove abitavamo noi Carpi. Aggiungo che a Mondonico, con l’aiuto di mio padre, era sfollata anche altra ‘gente’ di Brera, così due suoi prediletti allievi, Ennio Morlotti e Bruno Cassinari, l’insegnante Guido Ballo e probabilmente persino lo scultore spia. Nel diario mio padre non nomina mai il suo delatore, pur sapendo con certezza chi era. Accenna a lui più di una volta chiamandolo variamente ‘lo scultore boia, il ridicolo vile mago’, dato che si dilettava di pratiche più o meno occulte. Per questo nella prima edizione avevo ritenuto opportuno non nominarlo neanch’io. Però tacerlo ha provocato spiacevoli illazioni che è giusto cancellare. Così - come già in un altro scritto recente - noto qui che la spia si chiamava Dante Morozzi, che a Brera aveva ottenuto l’incarico certo per meriti fascisti, poco tempo prima, che proveniva da Firenze dove si era prodigato contro gli ebrei e i loro beni, e che, dopo la Liberazione, in base a una serie di denunce, una delle quali formulata da me, per tutto questo è stato processato. Preciso che alla fine del dibattimento il Pubblico Ministero chiese una condanna a 16 anni di reclusione e che poi la Corte la elevò a 18 anni. Di cui il Morozzi non scontò nemmeno un giorno, dato che alcuni mesi prima della Liberazione era scomparso - con la moglie, sua complice - e nessuno, che io sappia, in Italia l’ha più rivisto”.

EDUARDO DE FILIPPO

Sebbene non abbia ancora terminato il volume, sento il bisogno di scriverle per dirle quanto mi interessi e mi appassioni il suo Diario. La pazienza, la tenerezza, la bontà, la poesia e l’umanità di cui ogni pagina, ogni disegno sono impregnati costituiscono una lezione per tutti noi; ma quello che più ammiro e giudico altamente positivo è la mancanza dell’odio ‘cieco’. C’è sempre, in tutto quello che scrive, il desiderio di capire il perché di quel che accade, il perché sia della cattiveria sia della bontà; c’è il tentativo abbandonato solo in casi estremi, di salvare il salvabile del proprio prossimo; c’è soprattutto, l’assenza di violenza che è la condanna più completa, più agghiacciante della violenza stessa.

ENNIO MORLOTTI

Prima di ammannirci canoni, teorie, ricette, Carpi ci guardava negli occhi, poi ci dava colori, scriveva lettere perché ci aiutassero. Al di sopra di polemiche, di mode, di gusti del giorno, ci portava con costanza a provare la nostra tendenza naturale, ricordava che la vita sola è il grande motore, l’essenza di ogni creazione, il segreto delle cose, la realtà nascosta sotto il reale. L’arte era per lui la vita, amore alla vita. Da Carpi abbiamo imparato soprattutto quello che più ci ha servito e aiutato.

PAOLO VI

Pochi mesi dopo la morte di Aldo Carpi, Paolo VI nella chiesa di Sant’Antonio a Roma, per la “Giornata mondiale per la pace”, concluse il proprio discorso con un accorato richiamo alla testimonianza del Diario di Gusen. Nel resoconto che ne fece Il Giorno il 2 gennaio del 1974, si diceva che “nella coscienza di ciascuno occorre rafforzare insieme alla pace la giustizia, che è tutto il contrario della ‘pseudo giustizia’ che adesso si cerca di introdurre, basata sulla vendetta, su una tragica psicologia a catena mafiosa, che crede di regolare i conti sopprimendo, opprimendo l’avversario”. Un atteggiamento di costume che Paolo VI condannava severamente, contrapponendogli l’insegnamento morale proveniente da uomini, cattolici e non cattolici, come Gandhi, il dottor Schweitzer, padre Kolbe e il pittore Aldo Carpi, che ci ha lasciato con Diario di Gusen una testimonianza di “tanta bontà” sulla propria esperienza nei campi di sterminio: “Sono esempi che noi cristiani dobbiamo portare agli altri, che ci fanno non deboli, non imbelli, di gente che difende la vera giustizia, unita strettamente alla carità e alla pace”.

Triangolo Rosso, gennaio-marzo 2008

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