Triangolo rosso

Tutta la popolazione aiuta oltre diecimila militari in fuga dopo l’8 settembre

 

di Bruno Enriotti

 

Il primo aiuto è stato un secchio pieno d’acqua con un mestolo posato su una seggiola accanto all’ingresso della canonica. Lo aveva messo borbottando Maria Cristina, “Marieta”, la perpetua del parroco Giovanni Battista Falzari, stanca di andare su e giù per la scale per dissetare quei giovani che bussavano alla porta della chiesa. Con quel secchio, riempito infinite volte prima che facesse sera, ha preso avvio una delle più vaste operazioni di assistenza ai soldati dell’esercito italiano immediatamente dopo l’8 settembre 1943.

Quanti sono stati i giovani in fuga verso le loro case passati per Ronchi dei Legionari nei giorni che seguirono l’armistizio? Almeno 10.000, forse 15.000 soldati; una massa immensa di giovani che questo piccolo centro ai piedi dell’altopiano carsico ha assistito, dissetato, rifocillato, nascosto, vestito con abiti borghesi, aiutato a sfuggire i rastrellamenti tedeschi e a raggiungere le loro case lontane.

Le drammatiche vicende di quelle giornate sono descritte nel volume 8 settembre 1943. Il caso di Ronchi, uno studio curato dall’ Istituto di storia politica e religiosa di Gorizia assieme all’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia. Ronchi, allora in provincia di Trieste, era una cittadina di circa 8.000 abitanti, in parte mezzadri e fittavoli alle dipendenze di grandi proprietari, in parte occupati come operai nelle grandi industrie della vicina Monfalcone, i Cantieri Riuniti dell’Adriatico e l’Adria Solvay. Anche per questo i sentimenti antifascisti erano profondamente radicati nella popolazione. La cittadina per la sua posizione geografica era un passaggio obbligato per le migliaia e migliaia di soldati in fuga verso casa. Erano stati colti dall’annuncio dell’armistizio nella Venezia Giulia, in Istria, in Croazia, in Slovenia, senza nessuna direttiva, abbandonati dagli ufficiali superiori e dai generali, col rischio molto concreto di cadere nelle mani dei tedeschi. Mentre l’esercito nazista si muoveva per accerchiare le divisioni italiane ormai allo sbando, i partigiani jugoslavi attaccavano i gruppi di militari con lo scopo di disarmarli e di impadronirsi di scarpe e indumenti. Un vero e proprio esercito in rotta si riversò verso l’Italia e diverse migliaia di soldati transitarono per Ronchi dei Legionari, soprattutto dopo il 9, 10 e 11 settembre. Furono giorni di anarchia completa nei quali emerse la solidarietà di un intero paese. Il primo aiuto fu quello del secchio d’acqua continuamente riempito, ma questo non era certo sufficiente. I militari chiedevano cibo e soprattutto vestiti borghesi per poter raggiungere le loro famiglie lontane. Il centro propulsore di questa spontanea solidarietà popolare fu la parrocchia, retta allora da don Giovanni Battista Falzari. Fu il primo a rendersi conto che l’aiuto dei singoli era insufficiente e che occorreva assistenza organizzata. La prima emergenza fu quella igienico-sanitaria. Molti soldati avevano percorso lungi tragitti a piedi, a volte anche senza scarpe o con calzature sfasciate. Era necessario provvedere a lavarli, curare le ferite, fasciarli. Prezioso fu l’aiuto del farmacista locale, Gustavo Olivetti, ma anche quello delle famiglie che portarono in parrocchia vecchie lenzuola per trasformarle in bende. Poi iniziò la raccolta degli abiti civili: giacche, calzoni, camicie maglioni, biancheria e anche qualche paio di scarpe furono accatastati nel cortile della chiesa a disposizione dei militari. In tutta Italia, in quei giorni, centinaia di migliaia di soldati in fuga casa furono assistiti dalle famiglie, molte delle quali vedevano in quel soldato sconosciuto che stavano aiutando, un loro congiunto verso il quale speravano che altre famiglie, in altri paesi, prestassero lo stesso aiuto. A Ronchi però questa gara di solidarietà assunse una dimensione eccezionale. Un’emergenza che durò a lungo accompagnata dall’assistenza alimentare. Si andò di casa in casa a raccogliere cibo per i militari e ogni famiglia donava quello che poteva: farina di polenta, pane, patate, lardo. Sorsero diverse cucine improvvisate dove si cercava di preparare un pasto caldo per tutti. Si utilizzarono anche le cucine del patronato scolastico, accanto alla palestra della Gil e i cibi venivano distribuiti nella vicina parrocchia. Intanto l’afflusso degli sbandati si andava sempre più intensificando. Venivano dalla Croazia e dalla Dalmazia, dopo avere percorso a piedi centinaia di chilometri, sempre braccati dai tedeschi, evitando le strade costiere ormai presidiate, attraversando il Carso triestino e scendendo il vallone di Brestovizza. Ad essi si unirono gli internati civili slavi che erano stati rinchiusi nel campo di concentramento di Visco, a 18 chilometri da Ronchi, abbandonato in quei giorni dai soldati italiani che lo custodivano. Don Falzari così li ricorda in uno scritto dell’immediato dopoguerra: “Era una bella giornata di settembre. Verso le 9 si vide una lunga fila di persone di tutte le età, che sembravano ombre in movimento. Magri, pallidi, avviliti, con in spalla un sacco che conteneva i loro cenci. La popolazione li guardava con stupore e commozione, chiedendo loro da dove venissero, senza ottenere risposta». All’improvviso comparve sulla piazza una camionetta militare con sei soldati tedeschi che bloccarono con una mitragliatrice la colonna di internati. Accorse il parroco e la signora Berta Hofhansel vedova Hinke, proprietaria di una villa poco distante dalla chiesa che era appartenuta a suo suocero, ammiraglio della marina austriaca. Il parroco chiese chi erano quei poveretti e la donna rispose “Banditen, partisaner». Si saprà più tardi che era stata quella donna a telefonare al comando tedesco di Monfalcone quando vide passare i primi internati di fronte alla sua proprietà. Ci fu una lunga e animata trattativa tra il parroco e il sottufficiale tedesco per consentire agli ex internati di proseguire verso le loro case, mentre la popolazione cercava di rifocillarli. Solo verso sera i tedeschi cedettero e dissero al parroco “Hoher, machen Sie was Sie wollen!» (Reverendo, faccia ciò che vuole). Gli ex internati poterono così proseguire verso le loro case mentre alcuni, molto ammalati, vennero ricoverati all’ospedale di Monfalcone. Così don Falzari ricorda l’episodio nelle sue memorie: “Non posso descrivere la scena d’addio. Io piangevo, e loro pure. I tedeschi, no; ma erano commossi. Tutti i croati ci salutavano, volevano baciarmi la mano; il comandante tedesco, congedandosi, mi disse: “La ringrazio signor parroco dell’interessamento, sono contento di aver potuto rendermi utile, ma lei sa che avevamo ben altre indicazioni”. Dissi di portar loro un bicchiere di vino e tutto si concluse con una stretta di mano». Non tutto ebbe però un così felice conclusione. L’evento più tragico di quelle giornate ha avuto ancora come protagonista la signora Berta Hofhansel, l’unica abitante di Ronchi amica dei nazisti. Cinque soldati sbandati in cerca di aiuto ebbero la sventura di bussare alla porta della sua villa. La donna li cacciò in malo modo e avvertì immediatamente per telefono il comando tedesco. Una pattuglia li colse mentre stavano fuggendo nei campi e li falciò con una raffica di mitraglia. Quattro furono uccisi e uno solo, ferito, riuscì a salvarsi con l’aiuto degli abitanti di Ronchi, i quali da quel momento avvertirono tutti gli sbandati di non passare dalle parti della villa. Solo altri quattro soldati ebbero la sventura di passare nei pressi della villa, anche loro caddero nelle mani dei tedeschi e furono immediatamente fucilati. Mentre otto giovani morivano a causa di Berta Hofhansel, nel paese continuava l’aiuto alle centinaia di sbandati che continuavano ad affluire. Il problema non era solo quello di rifocillarli e vestirli con abiti borghesi, ma di aiutarli a raggiungere le loro famiglie. L’unico mezzo era quello di farli salire sui treni che erano diretti verso il Friuli. Il capostazione Cesare Turco si diede da fare per farli salire su qualsiasi convoglio in partenza dalla stazione del paese. Erano vestiti con abiti borghesi e non avevano certo il biglietto. Per evitare contestazioni, che avrebbero potuto attirare l’attenzione dei tedeschi, occorreva fornire gli sbandati di un qualsiasi documento che attestasse il loro diritto a viaggiare per far ritorno alle loro case. Il sistema escogitato dal capostazione e dal parroco fu veramente ingegnoso. Nella sacrestia c’erano due pacchi con centinaia di cartoline appena stampate raffiguranti la chiesa o l’altare maggiore. Quelle cartoline “vidimate” con il timbro della parrocchia e la firma del parroco potevano essere usate come biglietto ferroviario. Il capostazione informò dell’iniziativa un amico che lavorava al Dipartimento ferroviario di Trieste. Questi telefonò a un dirigente del ministero del Trasporti che sapeva essere membro del Comitato di liberazione nazionale che si stava costituendo in quei giorni. Da Roma partì quindi un fonogramma diretto alle principali stazioni col quale si disponeva che le cartoline firmate dal parroco di Ronchi dovevano essere considerate a tutti gli effetti come biglietto ferroviario. I soldati italiani poterono così raggiungere le loro case con in mano una cartolina di Ronchi. Un intero paese si mobilitò in quei giorni con tutte le sue strutture civili e religiose riuscendo a evitare la deportazione di migliaia di giovani italiani abbandonati a se stessi dal governo di Roma e dalle alte gerarchie militari.

 

Ronchi dei Legionari

Un paese democratico fin dai tempi dell’Austria-Ungheria

 

Ronchi dei Legionari è stata sempre una città profondamente democratica, dove i valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale non sono mai venuti meno. La città iniziò a trasformarsi socialmente con la nascita nella vicina Monfalcone di grandi complessi industriali. Inizia fin dai primi anni del Novecento a svilupparsi un movimento di ispirazione socialista destinato a crescere nei decenni successivi. Già nelle elezioni del 1913, quando Ronchi faceva parte dell’Austria-Ungheria, la lista socialista aveva ottenuto 112 voti su un totale di 847 elettori. L’influenza dei partiti di sinistra aumentò notevolmente negli anni successivi la prima guerra mondiale con l’annessione della Venezia Giulia all’Italia. Nelle elezioni del 1921, su 927 iscritti al voto, il Partito comunista, appena costituito, si conquistò il primo posto con 386 voti, seguito dai socialisti (178 voti), dai repubblicani (61 voti) dai fascisti del Blocco nazionale (61 voti) e dai popolari (57 voti) Dopo la presa del potere da parte del fascismo, la classe operaia di Ronchi - come ci ricorda Giuseppe Zorzin (Pino) nel suo libro Dalla tuta blu ai campi di sterminio - si mantenne totalmente ostile alla dittatura e diede vita, fin dai giorni successivi all’8 settembre 1943 alla Brigata Proletaria che combatté contro l’occupazione nazista a fianco dei partigiani sloveni. Anche nel dopoguerra le forze di sinistra erano maggioranza nel comune di Ronchi, come dimostrano i dati elettorali: nel 1972 il Pci si confermò il primo partito col 42,9% e il Psi ottenne il 9,4; nel 1976 il Pci raggiunse il 46,4% e il Psi il 12,2; nel 1983 il Pci ottenne il 45,5% voti e il Psi il 14,4; nel 1987 il Pci ebbe il 43,3 e il Psi il14,4. Anche in anni più recenti le forze di sinistra hanno mantenuto la loro forza nel paese di Ronchi. Nelle elezioni del 1996 il Pds ha ottenuto il 26,14 dei voti; Rifondazione Comunista il 13,47 e i Verdi il 6,2 mentre nelle ultime elezioni, quelle dell’aprile scorso, i partiti del centro sinistra raggiunsero il 60 % dei voti. Il grande moto umanitario in favore dei militari italiani che coinvolse tutta la popolazione nei giorni successivi all’8 settembre e che ebbe come centro promotore la parrocchia si sviluppò in un paese dove la solidarietà aveva radici profonde. 

Triangolo Rosso, gennaio/aprile 2007

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