Triangolo rosso

La scomparsa di Pontecorvo grande regista e fondatore del Fronte della Gioventù

“Kapò” e “La battaglia di Algeri” due indimenticabili capolavori

 

di Sauro Borelli

 

Quando, nel 1959, Gillo Pontecorvo pone mano alla realizzazione di Kapò ha quarant’anni. Al suo attivo ha già una serie di documentari e cortometraggi di variabile intensità stilistica e tematica, oltre il suo primo lungometraggio a soggetto La grande strada azzurra tratto dal romanzo di Franco Solinas Squarciò, cosceneggiatore e complice assiduo anche per i più significativi film La battaglia d’Algeri e Queimada. Caratteristiche peculiari del mestiere e delle opzioni espressive di Pontecorvo si ritrovano, in ispecie, nell’attitudine a un rigore e, insieme, a una determinazione marcati nell’individuare, definire con tutto l’agio necessario - particolarità, questa, che costituirà la spiegazione di fondo dell’esigua filmografia di tale cineasta: cinque lungometraggi più l’episodio intitolato Giovanna - le storie, gli spunti, i motivi ispiratori d’ogni suoi progetto creativo. In questo senso, non ha fatto eccezione Kapò, approdo compiuto d’una laboriosa ricerca, d’una circostanziata documentazione messe in opera, appunto, dal duo Pontecorvo-Solinas. È Pontecorvo medesimo che ricorda: “Delle molte proposte che ricevetti l’unica a interessarmi fu questa sui campi di concentramento. Il soggetto che ci avevano dato non piaceva né a me né a Franco: la cosa che ci sembrava essenziale raccontare, sul modello di Se questo è un uomo di Primo Levi, era a che punto di degrado può arrivare un essere umano in determinate condizioni. Passammo otto mesi in giro per l’Europa a intervistare gli ex deportati”. L’esito di tale acribía documentaria è addensato, quindi, nel film Kapò in tutte le sue componenti specifiche: un cast cosmopolita di funzionale peso nell’economia narrativa - da Susan Strasberg a Laurent Terzieff, da Emanuelle Riva a Paola Pitagora, da Gianni Garko a Graziella Galvani; scenografia (Piero Gherardi) di spiccato rigore, musiche e fotografia sapientissime. Al proposito, Ugo Casiraghi ebbe a scrivere con l’abituale acutezza: “Il regista imposta il suo film come una ‘sinfonia della degradazione’, scandita da due temi musicali (cui ha collaborato lo stesso Pontecorvo) ricorrenti e contrapposti: quello lugubre, della furia devastatrice, che punteggia il progressivo sfacelo morale della protagonista, e quello, classico e cristallino, che ne ricorda l’adolescenza innocente”. In questo radicale contrasto tra il “prima” e il “seguito” sta infatti anche la strategia drammaturgica che governa dal principio all’epilogo il film Kapò: la tredicenne ragazzina francese di famiglia ebraica è sbalestrata da una giovinezza radiosa e serena nell’inferno dell’universo concentrazionario. E lì s’incalzano da subito gli orrori d’un calvario inenarrabile: i genitori mandati, nudi, nel forno crematorio; le angherie bestiali inflitte a tant’altre vittime come lei dai feroci aguzzini nazisti; il freddo, la fame devastanti. Edith (questo il nome dell’adolescente) viene fortunosamente salvata dalla morte da un provvido medico francese che la camuffa come una criminale comune di nome Nicole presto integrata tra le “kapò” (le donne guardiane) che cinicamente, sadicamente perseguitano le loro stesse compagne. Solo riscatto per l’ormai abbrutita Nicole è lo slancio d’amore e, poi, di eroica solidarietà per il soldatino sovietico Sacha (Terzieff) in rivolta (e in fuga) contro le SS assassine. Kapò ebbe, alla sua prima sortita veneziana, immediati, unanimi consensi e, altresì, un vistoso successo di pubblico in Italia e all’estero. Una nota schematicamente dissonante si levò in Francia ad opera di Jacques Rivette (critico e cineasta) che rimproverò a Pontecorvo di avere, in modo “abietto”, spettacolarizzato la morte di Teresa (Emanuelle Riva) con un “carrello” (o uno “zoom”) d’indebita necessità. A quell’astioso, pretestuoso spunto polemico, Pontecorvo non rispose mai, ben consapevole della probità del proprio operato. In effetti, Pontecorvo è riuscito con Kapò in un’impresa assolutamente impervia: ovvero, come scrive ancora Casiraghi, quella “già storica di ricostruire, di riportare dinanzi alla troppo labile memoria degli uomini un mondo che è ‘di sterminio’ ”. Tutto ciò, con buona pace degli acrimoniosi detrattori che hanno puntigliosamente voluto addebitare allo stesso film semplificazioni e carenze tutte ampiamente da dimostrare.

 

“Quando mi raccontò la sua lotta contro il fascismo”

di Ibio Paolucci

 

Com’era Gillo Pontecorvo, il grande regista della Battaglia di Algeri, negli anni tremendi ma anche esaltanti della Resistenza, lo dice molto bene Giorgio Amendola nel suo libro Lettere a Milano: “Gillo aveva il dono della facilità. Tutto gli riusciva, e con la stessa eleganza con cui a Saint Tropez si gettava in mare per la pesca subacquea, ora si muoveva a suo agio tra le drammatiche difficoltà della situazione torinese, riuscendo ad infondere ai suoi collaboratori del Fronte della Gioventù un grande slancio, una immensa fiducia nelle possibilità di azione contro i tedeschi. Egli allargò l’orientamento politico ed il carattere unitario del Fronte della Gioventù torinese e pur non trascurando la lotta armata, seppe indirizzare il lavoro dei giovani verso obiettivi politici di avvicinamento e conquista ideale delle più larghe masse giovanili. In breve tempo, il Fronte della Gioventù, sotto la direzione di Gillo, divenne una forza essenziale della lotta del popolo torinese”. Com’era Gillo Pontecorvo, nel proprio ricordo, a cinquant’anni di distanza, è lui stesso a dirlo, rispondendo alla prima e ad altre domande dell’intervista.

Com’è cominciata la tua avventura politica?

A Parigi. Io ero allora un ragazzetto, 18-19 anni di roba, un po’ play-boy, e soprattutto appassionato di tennis. Di politica, masticavo poco o niente. Venivo dall’Italia, dove, figurarsi, il fascismo addirittura teorizzava che non ci si doveva interessare di politica. Ricordi la scritta? “Qui non si parla di politica, qui si lavora!”. A Parigi quasi automaticamente, cominciai a frequentare ambienti antifascisti. Andavo qualche volta alle grandi assemblee alla Mutualitè, dove si respirava un clima entusiasmante. Giovani, ragazze che arrivavano in bicicletta, canti, bandiere rosse. Finché cominciai ad essere avvicinato dai primi comunisti, Scotti, Natoli, Negarville, che iniziarono, diciamo così, ad indottrinarmi, a fornirmi gli elementi iniziali, l’abc della politica. Mi diedero anche un libro, che si intitolava, se ben ricordo, Préside du marxisme. Per via di quel libro, venni anche un po’ sfottuto. Tutti marxisti in 15 giorni, mi dicevano i compagni, riferendosi a quella lettura.

E tu come reagivi?

Ma io, per la verità, pensavo soprattutto ai fatti miei. Poi, certo, arrivarono i tedeschi, e dovemmo scappare. Ma anche allora, io mica mi ero ancora tuffato del tutto in quel clima di tragedia. Ricordo che con una ragazza, che poi diventerà la mia prima moglie, acquistammo un tandem e partimmo portandoci dietro anche le racchette da tennis. Nella gente, invece la disperazione era grande. C’era un fiume di persone che intasavano le strade verso sud. Sembrava l’uscita da una partita di calcio. Molti, vedendoci con le racchette nel sacco, esasperati com’erano, gridavano: “Guarda quelli, vanno in villeggiatura loro!”. Avevano voglia di menarci.

E dove eri diretto?

Nel sud della Francia. Lì, la mia vita cominciò a cambiare. Ormai potevo considerarmi come un antifascista, con forti simpatie comuniste. E lì, nel sud, mi ripescarono Amendola, Dozza e Negarville.

Difatti, Amendola scrive che veniva con Negarville, a Saint Tropez, per “prepararti politicamente”.

Sì, certo. Allora la Direzione del Pci, installata in Francia perché in Italia non avrebbe retto più di una settimana, teneva i contatti con quello che restava dell’organizzazione clandestina in Italia, mandando dei compagni, che venivano beccati quasi tutti dopo pochi giorni dalla terribile ed efficientissima Ovra. Così pensarono che anche un ragazzetto di 21 anni poteva essere utile. Dovevano contentarsi. Mi proposero di fare un “viaggio” in Italia. Dovevo portare materiale e prendere contatti con esponenti dell’antifascismo. Tra l’altro, io dimostravo tre o quattro anni meno della mia età. La mia faccia era il migliore lasciapassare.

Così venisti in Italia. In che anno? E con chi ti incontrasti?

L’anno era il ‘42. Le città dove andai, Perugia, Pisa, Milano, Torino. I primi contatti li ebbi con Calogero, Capitini, Ramat, il gruppo dei liberalsocialisti e di Giustizia e Libertà. A Milano, invece, dovevo incontrarmi con Ugo La Malfa. Così, andai alla Comit e quando lo vidi, mi presentai con la parola d’ordine che mi era stata data: “Vengo dall’uomo che mangia le mele per la strada”. La Malfa mi guardò sospettoso e per un trenta secondi non disse nulla. Io cominciavo ad aver paura. Forse mi sono sbagliato di persona! Quanto a lui, in quel breve arco di tempo dovette pensare: “Ma guarda che cavolo mi hanno mandato quei pazzi”. Poi però diventammo buoni amici, forse perché avevo imparato decentemente la lezione di Amendola e di Negarville.

Altri incontri?

Beh, uno straordinario, a Pisa, dove andai un po’ perché era la mia città, un po’ perché Amendola e Negarville mi avevano detto che più notizie portavo, meglio era. E proprio lì trovai un giovanissimo professore alla Normale, molto in gamba. Anche lui era allora liberalsocialista o giù di lì. Ma a me parve quello più vicino a noi. Era già convinto della necessità del Fronte nazionale e della possibilità-necessità di passare subito a certe forme di azione. E sai chi era? Alessandro Natta. Feci anche una relazione su quell’incontro, tanto mi aveva colpito. Una relazione che si trova negli archivi del partito.

Pieno successo, dunque. Cosa ti dissero i compagni al ritorno in Francia?

Che visto che le cose non erano andate troppo male, avrei dovuto ripetere quei viaggi. Ne feci, infatti, altri due o tre.

E infine, definitivamente in Italia.

Sì. Io, per la verità, non ne volevo sapere. Ma poi Amendola l’ebbe vinta. Lui aveva un grosso ascendente su di me. Mi disse che dopo gli scioperi del marzo, bisognava rafforzare tutta l’organizzazione. E poi aggiunse che era anche ora che diventassi una persona seria. Così fui spedito a Milano per fare il funzionario a tempo pieno, il “rivoluzionario di professione”, come si diceva allora con un termine, che ho sempre trovato un po’ buffo.

La caduta del fascismo, dunque, ti colse a Milano.

Sì. Furono giorni entusiasmanti. Anch’io ero sul tetto di quel camioncino affittato da Elio Vittorini, a Porta Venezia, quando Pietro Ingrao fece il suo primo comizio pubblico. Un’emozione enorme. Ingrao parlò benissimo.

E poi ti spostasti a Torino, alla direzione del Fronte della Gioventù piemontese.

Beh, da Milano dovetti andarmene perché in una casa dove i fascisti avevano trovato armi, un ciclostile e manifestini, c’era anche una carta di identità in bianco con la mia fotografia. Il partito decise che dovevo cambiare aria. In attesa dovevo starmene nascosto. Assolutamente non dovevo uscire. Siccome non si fidavano di me, mi fecero andare nella casa delle sorelle Musci, che erano ligie al cento per cento agli ordini del partito. Io, nemmeno se suonava la sirena d’allarme, dovevo muovermi. Ma a me non mi andava di star lì chiuso. Così mi feci crescere i baffi, mi misi degli occhiali scuri e una lobbia purtroppo nera, che avevo pescato in un vecchio baule, e me ne uscii. Scalogna vuole che fatto un centinaio di metri, incontro Giancarlo Pajetta, che mi fulmina con un’occhiataccia. E poi si avvicina e mi dice: “Dopo mi spiegherai anche perché ti sei travestito da ebreo”. Tipica battuta di Giancarlo. E, aveva ragione, perché conciato in quel modo sembravo proprio la caricatura di un ebreo.

Parlami di Torino.

A Torino, comandavo la Brigata d’assalto Eugenio Curiel. Ma facevo anche parte della segreteria della Federazione, dove c’erano compagni, come dire, ancora influenzati da vecchie concezioni settarie. Io, in quella sede, dovevo portare avanti la linea di Amendola, ovviamente molto più aperta. Con Giorgio, fra l’altro, maturò un rapporto straordinario, un sodalizio bellissimo.

Ed è stato lì, a Torino, che hai vissuto i giorni della liberazione.

Certo, giorni indimenticabili. Ma voglio parlarti del primo comizio pubblico di Amendola. La mattina c’erano stati i funerali dei tanti morti dell’insurrezione. I corpi degli operai morti alle Ferriere furono portati in una grande piazza, dove Giorgio salì su un autocarro e cominciò a parlare. Ora devi sapere che, in quei giorni, la cosa più difficile per noi era quella di convincere i nostri uomini a deporre le armi. Quando avevo cominciato a parlarne coi compagni della mia Brigata, quasi mi sputavano in faccia. Dunque, siccome quello era il primo comizio pubblico che organizzavamo, io mi aspettavo che Giorgio parlasse tenendo conto di questo grave problema. Invece, lui fece un discorso bellissimo, ma si commosse. Di fronte ai corpi di quei caduti e ai volti delle vedove dei fucilati del Martinetto, che erano in prima fila, venne travolto dall’emozione e cominciò ad urlare. Non solo non parlò di deporre le armi, ma usò espressioni che andavano in direzione opposta, tipo, citando Lenin, che la libertà è il fucile nelle mani degli operai. Quando finì, mi chiese, ancora tutto eccitato, come era andato. Di merda, gli risposi. E ora, gli dissi, chi ci va nelle formazioni a dire che bisogna lasciare le armi? Lui ci rimase male e ne parlò anche a Germane, sua moglie, dicendole che aveva l’impressione di essere disastrosamente caduto nella mia stima. Figurarsi. Ma che scherzi, gli dissi. Io lo adoravo veramente. Anzi, guarda, quella sua emozione mi commuove ancora.

Un’ultima domanda. Come mai tu che hai dedicato film bellissimi alla Resistenza di altri paesi, non hai mai diretto un film sulla Resistenza italiana, da te vissuta, peraltro, con tanta intensità?

Cosa vuoi che ti dica. C’è un certo ritegno. Forse, proprio perché è stata vissuta in prima persona, c’è la paura di cadere nella retorica o, comunque, in una sdrucciolevole emotività. Non lo so. Ma ora, chissà. Ora che sono passati tanti anni, diventerà più facile stabilire quel distacco che ti consente di affrontare un film nel modo giusto. Ma sì, perché no? Forse lo farò.

(Intervista rilasciata per l’Unità il 18 settembre 1993)

Triangolo Rosso, dicembre 2006

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