Triangolo rosso

LA TRAGICA FINE DELLA SCIENZIATA FIORENTINA DEFINITA “LA MADRE DELL’ERPETOLOGIA ITALIANA”

Enrica Calabresi: con il veleno per topi si sottrae ad Auschwitz

Nel gennaio del 1944, a Firenze, in una cella del carcere femminile di Santa Verdiana, una donna si toglieva la vita ingerendo una fialetta di veleno.

Era l’unico modo per evitare l’inferno di Auschwitz. Si chiamava Enrica Calabresi, aveva 53 anni ed era ebrea.

 

di Bruno Enriotti

 

L’astronoma Margherita Hack, allora ragazzina, la ricorda mentre, vestita dimessamente, camminava rapida per le stradine di Firenze. Il libro del giornalista fiorentino Paolo Ciampi ricostruisce la tragica vicenda di questa vittima del nazifascismo di cui si era perso quasi totalmente il ricordo. Enrica Calabresi era una donna di scienza. Zoologa era stata insegnante universitaria e direttrice di musei. Era nata a Ferrara, una città dove la presenza della comunità ebraica ha lasciato un segno profondo. La sua famiglia aveva stretti rapporti con i Bassani, e un’eco di questa amicizia la si può ritrovare nel Giardino dei Finzi Contini dello scrittore ferrarese. Ebrea laica, la famiglia Calabresi. Nessuno di loro era osservante, e in sinagoga ci si recava solo nelle grandi ricorrenze, più per rispettare un obbligo sociale che per convinzione religiosa. Quando nacque Giuseppe, fratello di Enrica, la madre, una Fano cognome antico e importante nella comunità israelitica, cacciò inviperita coloro che si presentarono alla sua porta per effettuare la circoncisione. Famiglia colta, numerosa e unita, dove le donne contavano molto. Quasi tutti i figli, maschi e femmine, sono laureati in materie scientifiche, appassionati di musica e di poesia: le sonate di Beethoven e le poesie di Leopardi erano famigliari nella loro casa. Enrica segue le tradizioni della famiglia: liceo a Ferrara con un diploma di licenza a pieni voti che le riconosce la “menzione onorevole” e a 18 anni si iscrive alla facoltà di Matematica, dove frequenta anche i corsi di zoologia e di botanica che si tengono alla facoltà di medicina. Sono materie che l’appassionano e per questo, non essendoci a Ferrara un corso di laurea in scienze naturali, lascia la sua città e passa all’Università di Firenze.

La sua carriera scientifica avviata a un esito brillante

Sono poche, in quegli anni - siamo nel 1910 -, le ragazze che seguono quel corso di laurea, e meno ancora quelle che lo portano a termine. Ma questa è la passione di Enrica che si laurea quattro anni dopo con una tesi di stretta natura scientifica: le ghiandole salivari del riccio durante il letargo invernale. Le è costata due anni di fatica e sarà pubblicata. Comincia così la sua carriera scientifica. Ha un incarico presso il Gabinetto di zoologia e anatomia comparata dei vertebrati; qualche mese dopo è assistente effettiva del Regio Istituto di Firenze e inizia a pubblicare i suoi primi saggi sull’organo ufficiale dell’Unione zoologica italiana. Enrica ha 24 anni ed è venuto il momento dell’amore. Il suo uomo si chiama Giovanni Battista De Gasperis, è di Udine ed è un geologo grande appassionato di montagna. La guerra mondiale travolge anche il loro amore. Lui parte per il fronte e ad Enrica non restano che le sue lettere appassionate. In una delle ultime scrive: “Ieri ho provato il supplizio di Tantalo applicato alla geologia. In una vicina selletta stanno alcune trincee in muro a secco: tutte le pietre sono piene di fossili. E come sono belli. Ma ne ho preso nota e se porto a casa la ghirba…”. Non ci riuscirà. Una pallottola austriaca lo colpirà ucciderà nella primavera del 1916. Enrica ora è rimasta sola e non si sposerà più. A lei resta la sua passione per la scienza che l’accompagnerà per tutta la vita. È stimata e apprezzata da studiosi italiani e stranieri. Stende relazioni scientifiche e forte della sua conoscenza di francese, inglese e tedesco è in grado di allacciare rapporti con prestigiose realtà accademiche e centri di ricerca, dall’Università di Berlino all’Istituto di storia naturale di Nantes. Nel 1922 vince un concorso per il museo di storia naturale “Giacomo Doria” di Genova e si trasferisce nella città ligure. Due anni dopo viene abilitata alla libera docenza in zoologia e torna a Firenze per insegnare all’Università. La scienza è la sua passione e la politica non la interessa anche se tra fascismo e antifascismo la sua scelta à precisa: tra lei e il fascismo c’è una distanza incolmabile e le manifestazioni dei fascisti di quegli anni le danno un grande fastidio. La conoscenza delle lingue che le consente la lettura dei principali giornali stranieri, rafforza questa sua presa di distanza dal regime. Quando all’università di Firenze la cattedra cui lei aspirava viene assegnata al conte ultrafascista Lodovico di Caporiacco, che ha partecipato alla “marcia su Roma”, Enrica capisce che le sue possibilità di carriera sono chiuse e passa a insegnare nelle scuole medie dove almeno le viene garantito uno stipendio sicuro. Nel 1933 per conservare il posto Enrica è però costretta a iscriversi al partito fascista. Le porte dell’Università si riaprono per lei dopo qualche anno. Non quelle di Firenze, ma di Pisa, dove insegna chimica agraria presentata da un amico della sua famiglia, il prof. Ciro Ravenna, anch’egli ebreo che morirà ad Auschwitz nel 1944. A Pisa Enrica diventerà direttrice dell’Istituto di entomologia agraria. Ormai contro gli ebrei in Italia si scatena la politica razzista voluta da Mussolini. Enrica, come molti suoi colleghi, viene cacciata dalla scuola pubblica e diventa insegnante in una nuova scuola, aperta dalla comunità israelitica dopo le leggi razziali, denominata “Corsi Medi Ebraici”. La sua avversione al fascismo è diventata fortissima. Si avvicina agli ideali sionistici e comincia a vagheggiare una patria del popolo ebraico: il ritorno in Palestina dove gli ebrei possano vivere sicuri e in pace. Ai “Corsi Medi Ebraici”, Enrica insegna per diversi anni, sempre più apprezzata da colleghi e studenti per il suo impegno e la sua serietà. Ma sull’Italia si stava ormai abbattendo il dramma della guerra voluta dal fascismo e con essa la tragedia degli italiani di etnia ebraica. L’8 settembre del 1943 anche la relativa tranquillità di cui, tra odiose discriminazioni, ha subito la comunità ebraica, cessa improvvisamente. La caccia all’ebreo voluta dai nazisti e assecondata dai fascisti di Salò si scatena anche in Italia. La famiglia Calabresi si è trasferita in una loro proprietà a Gallo Bolognese. È un luogo più sicuro della città, ma pur sempre pericoloso. La speranza per tutti è di poter raggiungere la Svizzera che per loro significa la salvezza. Ma Enrica è inquieta, la sua vita è Firenze là vuole tornare, nonostante i familiari cerchino di trattenerla. Le vacanze estive sono finite e lei, puntigliosa come sempre, vuole riprendere l’insegnamento. Appena scende a Santa Maria Novella, Enrica si rende conto quanto la situazione sia cambiata nel breve volgere di poche settimane: ovunque scorazzano le truppe naziste accompagnate dalla soldataglia di Salò. A Firenze sono giunte molte famiglie ebree provenienti da altre parti d’ Italia o d’Europa, in cerca di un rifugio più sicuro in una città internazionale e con la speranza che le truppe alleate, che ormai avanzano dal Sud, raggiungano al più presto la Toscana. La comunità fiorentina li ha accolti come ha potuto. Nella sinagoga di via Farini dormono su materassi stesi nelle aule. Si nasconde a Firenze, in una casa di via Carducci, anche il poeta Umberto Saba, di madre ebrea. Va spesso a trovarlo, di nascosto, Eugenio Montale. Le prime settimane dopo l’8 settembre trascorrono in una calma apparente carica di tensione, perché i tedeschi hanno preteso dalla comunità l’elenco completo di tutti i tedeschi che vivono a Firenze. Il primo ottobre, giorno del Capodanno ebraico il rabbino parla per l’ultima volta nella sinagoga: “Siete sciolti da questo momento da ogni obbligo di frequentare il Tempio. Ora andate; ci ritroveremo certamente con l’aiuto di Dio, quando tutto sarà finito”. Il rastrellamento dei nazisti inizia poche settimane dopo: prima a Trieste, il 9 ottobre, poi a Roma, il 18. Queste notizie rimbalzano a Firenze, dove transitano anche i treni diretti ai lager. Enrica si rende conto di essere ormai in un vicolo cieco. Vorrebbe tornare dai suoi, a Gallo Bolognese, ma le comunicazioni sono interrotte per i civili e per gli ebrei mettersi in viaggio è un grande azzardo. Cerca aiuto presso conoscenti, ma nessuno pare in grado di darglielo: nascondere un ebreo, in quei tempi, è troppo rischioso ed Enrica non accetta nessuna protezione per non mettere nei guai nessuno. Racconterà un suo nipote, Francesco, dopo la Liberazione: “Enrica avrebbe potuto salvarsi, ma era troppo consapevole di quanto fosse pericoloso nascondere un ebreo. Quello che si poteva leggere sui giornali o sui manifesti appesi per le mura di Firenze, per lei erano più che una minaccia. Enrica viveva nell’incubo che qualcuno potesse finire fucilato per lei”. Il 6 novembre l’organo dei fascisti fiorentini esce con un editoriale con il titolo La razza nemica: una chiara esortazione a passare all’azione contro gli ebrei. Da quel momento iniziano i rastrellamenti casa per casa. Tedeschi della Gestapo e della SS assieme agli italiani della banda Carità - una delle più feroci sorte nell’Italia di Mussolini - fanno irruzione nella sinagoga. Il primo arrestato è il custode, poi i profughi che qui hanno trovato accoglienza. La caccia all’ebreo viene condotta alla luce del giorno, come prova di una forza ostentata. Non si salva nessuno: Emma Levi Orefice, 91 anni, paralizzata viene portata in barella sul treno che la condurrà nel lager. Enrica almeno per il momento riesce a salvarsi. Nessuno la cerca e lei continua a vivere nella sua abitazione di via Proconsolo. In tutto questo tempo non ha fatto nulla, ha semplicemente aspettato mentre gli ebrei fiorentini cadevano uno ad uno nelle mani dei nazisti. Di lei la sua famiglia non ha più notizie. Per questo suo nipote Francesco, che vive a Galla Bolognese, viene a cercarla. Arriva a Firenze in bicicletta ed Enrica lo accoglie in malo modo: è stata una pazzia venire a Firenze, non doveva rischiare di farsi intrappolare in città. Francesco riparte e lei resta sola. Di lei i famigliari non avranno più notizie, fino al termine della guerra. Loro riusciranno a salvarsi fuggendo da Gallo Bolognese e riparando in Svizzera Il turno di Enrica arriva nel mese di gennaio quando i tedeschi irrompono nella sua abitazione. Forse qualcuno ha fatto la spia, forse i nazisti ci sono arrivati attraverso gli elenchi della comunità. Viene rinchiusa in Santa Verdiana, la sezione femminile del carcere delle Murate. Non ci rimane molto. Ha portato con sé una fialetta di floruro di zinco, un liquido che viene usato anche per ammazzare i topi. Nella notte tra il 19 e il 20 gennaio lo inghiotte, evitando così il lager di Auschwitz. Ha lasciato poche righe scritte a matita: “Prego con tutta l’anima la Madre Superiora di prendere in consegna tutti gli oggetti che mi appartengono e di non lasciarli andare nelle mani dei tedeschi. Voglia a suo tempo destinarli a opere di bene. Dio mi perdoni”.

 

La celebre astronoma ha scritto la prefazione al volume

Margherita Hack: “Quel giorno che la vidi nelle strade di Firenze”

 

Questo libro ruota attorno alla figura di una donna dall’aspetto fragile, una donna estremamente timida, che chi, come me, ha conosciuto solo come la professoressa di scienze, riteneva chiusa, poco o punto comunicativa: una figura di cui ci si sarebbe dimenticati facilmente, se non fosse per il fatto di essere stata colpita da quella ingiustizia disumana che furono le leggi fasciste sulla «difesa della razza ariana». Infatti Enrica Calabresi si era macchiata della grave colpa di essere nata ebrea. L’autore l’ha conosciuta solo attraverso i racconti di chi l’ha frequentata, oltre che attraverso una paziente ricerca fra i documenti e i ricordi della comunità ebraica fiorentina e degli ambienti universitari dove Enrica ha lavorato e insegnato. Ma questa non è solo la storia di una donna che si rivela forte, determinata, capace di grandi affetti, ricercatrice di riconosciuto valore, in un’epoca in cui le donne scienziate sono una rarità. È anche la storia di un’epoca compresa fra le due grandi guerre mondiali; la storia degli ebrei italiani, prima delle leggi razziali cittadini a tutti gli effetti della cui appartenenza a una religione diversa da quella della maggioranza pochi si curavano, anche perché fra loro c’erano praticanti, agnostici e atei, così come c’erano persone profondamente democratiche e antifasciste e persone che avevano aderito entusiasticamente al fascismo, alcune addirittura insignite della «sciarpa Littorio», che distingueva coloro che avevano partecipato alla marcia su Roma. Questo libro si pone a pieno titolo accanto a quegli indimenticabili documenti della barbarie nazifascista che sono il Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi. Senza dimenticare che il grande merito di aver sottratto all’oblio il lavoro scientifico di Enrica va a due ricercatrici della Specula, il Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Marta Poggesi e Alessandra Sforzi. Leggendo queste pagine ho sempre in mente l’ultima immagine che mi è rimasta indelebile di Enrica Calabresi: una figurina esile, vestita dimessamente, che camminava rapida, quasi strisciando contro i muri di una di quelle stridette dietro piazza della Signoria, parallele a via del Corso, diretta probabilmente a quella che ora ho saputo essere la sua casa, in via del Proconsolo. Sapevo perché era scomparsa dal liceo Galileo, poche settimane dopo che avevo iniziato la seconda liceo, sapevo della discriminazione di cui cominciavano a essere oggetto i tanti amici e conoscenti ebrei che facevano parte della Società teosofica, di cui era presidente il babbo mio. Avrei voluto parlarle, esprimerle tutta la mia solidarietà. Non ne ebbi il coraggio. Era sempre la professoressa, lontana e distaccata, che incuteva soggezione. Leggendo queste pagine ritrovo anche la Firenze dell’inizio del ‘900, che avevo imparato a conoscere dai racconti dei miei, gli anni del dopoguerra, della nascita del fascismo, della fine della democrazia. Si parlava in casa dell’assassinio di Matteotti, dell’obbligo di iscriversi al fascio se si voleva mantenere il posto di lavoro, delle ultime elezioni pseudodemocratiche in cui all’elettore erano state date due schede: una tricolore per chi votava per il governo fascista e una bianca per chi era contro. Solo che le due schede erano semitrasparenti. Ricordo anche il periodo in cui il fascismo raggiunse il massimo consenso. Fu quando l’Italia conquistò il «proprio posto al sole» con la guerra per la conquista dell’Etiopia. Le «inique sanzioni» furono una delle ragioni per cui anche molti antifascisti andarono spontaneamente a dare l’oro alla patria - le fedi matrimoniali. Francesi e inglesi, dicevano, hanno molte e ricche colonie, perché l’Italia no? La propaganda patriottica imperversava a scuola, i temi che ci davano parlavano sempre dell’impero tornato a risplendere sui «colli fatali» di Roma, e noi marciavamo in divisa cantando, giocando a fare i soldati. Furono proprio le leggi razziali del 1938 a far capire a me, e credo a molti altri ragazzi della mia età, che cos’era il fascismo. Vedere compagni ebrei, professori ebrei, che fino ad allora erano stati solo compagni e professori come tutti gli altri, cacciati da scuola da un giorno all’altro, privati di ogni diritto, solo sudditi, non più cittadini, rappresentava un’intollerabile ingiustizia, anche se nessuno di noi poteva allora sospettare a quali atrocità si sarebbe arrivati. Da questo libro vengo a sapere la storia di Enrica dopo che con il decreto ministeriale del 18 marzo 1939, «anno XVII dell’era fascista», era stata dichiarata decaduta dal l’abilitazione alla libera docenza in zoologia in quanto appartenente alla razza ebraica, dopo che aveva dovuto abbandonare anche l’insegnamento al Galileo. Vengo a sapere dell’entusiasmo e del coraggio con cui lei e altri suoi colleghi fecero funzionare le scuole ebraiche, scuole private i cui studenti dovevano sostenere da privatisti gli esami alle scuole pubbliche. E in quegli esami, come per una rivalsa all’ingiustizia subita, loro risultavano sempre fra i migliori: anche quelli che prima erano tutt’altro che studenti modello. Arriva il 10 giugno 1940. Io sono in piazza del Duomo, davanti al caffè Bruzzichelli con la mia bicicletta, quando da tutti gli altoparlanti risuona la voce stentorea del duce che annuncia l’entrata in guerra. Doveva essere una guerra lampo che avrebbe «fascistizzato» tutta l’Europa. E all’inizio sembrò davvero che potesse finire così, in questo truce medioevo. Ma ecco l’entrata in guerra degli Stati Uniti, e poi dell’Unione Sovietica, ecco l’eroica battaglia di Stalingrado e il «generale inverno» che decima i soldati italiani e tedeschi. Pochissimi saranno i reduci. Arriva anche il 25 luglio 1943, e lo spettacolo del giorno dopo con i ritratti del duce e i «brigidini» (cioè i distintivi del fascio) a decine, anzi a centinaia per terra nelle strade. E poi il proclama di Badoglio - «La guerra continua» - e le speranze che si gelano. Arriva l’8 settembre. A Firenze, in piazza San Marco, quattro tedeschi a bordo di due sidecar occupano il comando delle truppe italiane. L’esercito è in rotta, c’è chi è catturato dai tedeschi e portato in Germania nei campi di lavoro e c’è chi si arruola nelle formazioni partigiane per continuare la guerra, questa volta contro i nazifascisti. Intanto la situazione degli ebrei, che finora avevano potuto seguitare a vivere, sia pure senza diritti e senza lavoro, diventa drammatica. Quell’immondo giornalaccio che è La difesa della razza tenta di aizzare la popolazione contro gli ebrei; si dice che vengano prelevati nelle loro case e portati in Germania, nei campi di lavoro. Alcuni si nascondono in casa di amici, altri ovunque sia possibile. Il fisico Franchetti credo fosse nascosto nell’Istituto di Fisica, (dove lo vidi fugacemente sparire dietro una porta. Mora non sapevo chi fosse, lo seppi solo a guerra finita quando tornò sulla sua cattedra. Enrica avrebbe potuto tornare al suo paese, Gallo Bolognese, e con la sua famiglia fuggire in Svizzera. Invece torna a Firenze, torna nella sua casa da dove viene prelevata nel gennaio del 1944 e portata al carcere femminile di Santa Verdiana. Alcuni giorni dopo si suicida. Perché non tenta di salvarsi? L’autore se lo domanda. Forse ha perso la voglia di combattere, forse l’entusiasmo che l’aveva sostenuta grazie all’insegnamento si è ormai spento? Otto mesi dopo, in agosto, arrivano gli Alleati. Per Firenze la guerra è finita. Ora bisogna rimboccarsi le maniche e ricostruire sulle macerie. Ma deve passare ancora quasi un anno perché la guerra si concluda davvero, perché gli orrori dei lager vengano alla luce. Questo libro ci fa rivivere quegli orrori, che non dovremo mai dimenticare, perché non si ripetano. Mai più.

Triangolo Rosso, dicembre 2006

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