Triangolo rosso

Un ricordo dell’ultimo Natale di guerra

“Le polacche accolsero noi deportati come Gesù bambino”

 

di Ibio Paolucci

 

Per me, ragazzo diciottenne, l’ultimo Natale di guerra, lunedì 25 dicembre 1944, resta nel ricordo un’immensa distesa bianca e un casolare sperduto in quel deserto di neve con due donne che si sbracciano per attirare l’attenzione mia e di un compagno di lager. Il nostro era un campo di concentramento di lavoratori coatti nella provincia di Torun, la città polacca dove studiò Copernico. Il Natale fu anche per noi un giorno di festa, santo Stefano, invece, un giorno come un altro. Usciti dal campo, che non aveva reticolati, iniziammo una passeggiata in quel paesaggio sconsolato, parecchi gradi sotto zero, non immaginando la strabiliante avventura che ci sarebbe capitata. Quelle donne, infatti, con il loro agitarsi, intendevano rivolgersi proprio a noi. Sorpresi e incuriositi ci dirigemmo verso di loro e quando fummo vicini, quelle donne ci fecero segno di entrare nella loro casa. Una volta dentro, ci venne offerta una fetta di torta e ci fu detto di sederci, mentre loro preparavano qualcosa di caldo. Sembrava di essere entrati in un mondo irreale e ci chiedemmo come mai e perché proprio a noi. Ci venne spiegato che quella festosa accoglienza faceva parte di una simpatica tradizione, rispettata anche in quell’orrendo periodo di occupazione nazista. In breve, noi, per loro, eravamo i “pellegrini”, che, il giorno di Natale, visti per primi, dovevano essere accolti in quel modo ospitale perché una leggenda voleva che fossero inviati direttamente dal bambino Gesù. Bevuto il tè, ebbe inizio una lunga conversazione con molte domande da parte loro: innanzitutto se eravamo cattolici, che questo per loro era la cosa più importante, e poi qual era la nostra città, qual era il nostro mestiere in Italia, come eravamo trattati nel lager, eccetera. Dopo fu la nostra volta. Le due donne erano madre e figlia. Il padre non si sa dove fosse finito. Era a Varsavia quando i tedeschi aggredirono la Polonia. C’era andato per trovare uno zio, molto malato. Non se ne era più saputo nulla. Ci mostrarono la sua fotografia incorniciata e ci precisarono che lui era proprio così perché quella foto se l’era fatta qualche settimana prima. Nella foto appariva un uomo sui sessant’anni, baffuto, sorridente. “Mia madre - disse la più giovane - si illude ancora, ma sono trascorsi cinque anni da allora». Per me, invece, i mesi di cattività erano soltanto sei, dal 16 giugno a Genova ad allora. Da Genova ero stato portato a Danzica, con centinaia di altri e una volta lì, visto che non avevo né arte né parte, mi avevano sbattuto da un piccolo proprietario prussiano che si chiamava Hugo Wraase, e chissà quale sarà stato il suo destino, di sicuro poco allegro, lui che portava con tanta fierezza il distintivo nazista, orgoglioso del figlio che era nelle SS e che io avevo anche visto in occasione di una sua breve licenza nella lugubre divisa nera. All’approssimarsi dell’Armata Rossa, era stato mobilitato assieme ad altri anziani dei dintorni in un raggruppamento paramilitare che avrebbe dovuto vigilare, nientemeno, sulla sicurezza del territorio, chiamato pomposamente Volkssturm. Anche lui, comunque, con la moglie, la nuora e un bambino appena nato, dovette sloggiare da quella proprietà rubata ai polacchi, caricando tutto il possibile su un carro trainato da un cavallo. Ricordo, quando ero ancora nel lager, la fila interminabile di questi carri contadini, con la gente che quando gli si chiedeva dove andasse rispondeva invariabilmente “nach Berlin”, illudendosi, evidentemente, di trovare nella capitale la salvezza. Migliaia di carri che percorrevano quelle strade di campagna senza che nessun aereo sovietico si alzasse per mitragliarli. Per me il lavoro massacrante dai contadini, dall’alba al tramonto, era terminato verso metà settembre quando venni spedito nel lager. Dai contadini il lavoro era durissimo, però si mangiava abbastanza bene. Quella proprietà, prima dell’invasione, apparteneva a una famiglia polacca, i Narbroski, padre, madre e figlia, che, arrivati i tedeschi, da padroni erano diventati servi, e grazie al cielo che non erano stati uccisi, come era capitato a molti loro connazionali. Al campo di concentramento, il lavoro, tutto sommato, era meno gravoso, però il cibo che ci distribuivano era pessimo e maledettamente insufficiente. Una brodaglia a mezzogiorno e alla sera un miserabile pezzo di pane marrone scuro, umidiccio, che sembrava fango, con l’aggiunta di un pezzetto di una sottospecie di margarina schifosa o di una fettina di pseudo salame o di qualcos’altro che non rammento. Avevamo sempre una fame indefinibile e si può immaginare con quale entusiasmo avevamo accolto quella torta, soprattutto quando ci venne detto che ne potevamo prendere un’altra fetta. Il lavoro, nel lager, consisteva nello scavare i “panzergraben”, fosse anticarro, che avrebbero dovuto fermare, figuriamoci, i carri armati sovietici. Ma questa è un’altra storia. Con le due donne, che continuammo a ringraziare, stemmo ancora un po’ di tempo. Quando le salutammo, la più vecchia volle abbracciarci e farci, sulla fronte, il segno della croce. Vedemmo che s’era messa a piangere allorché ci disse che erano loro che dovevano esserci grate, perché quella mattina era come se fossero state visitate dallo stesso bambino Gesù, sicuro preannuncio di una bella notizia, che avrebbe potuto anche essere quella che il loro padre e marito era ancora in vita.

Triangolo Rosso, ottobre 2006

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