Triangolo rosso

VENTICINQUE FAMIGLIE LI NASCOSERO COL CONCORSO DI TUTTI GLI ABITANTI. LA RICOSTRUZIONE DELLO STORICO IKO COLOMBI

Gandino Tutto il paese salvò gli ebrei dai lager nazisti negli anni cupi dell’occupazione tedesca

 

Ci sono storie che sono vere ma che non sembrano verosimili, tanto appaiono, anche a distanza di oltre sessant’anni dai fatti, talmente straordinarie da sembrare più frutto di fantasia che di vera autenticità. Una di queste storie, verissima ed eroicissima, è quella di un folto gruppo di ebrei salvati negli anni più duri della seconda guerra mondiale dalla collettività di Gandino, un comune della Bergamasca che offre, anche oggi a chi lo visita per la prima volta una lieta sorpresa per la sua gradevole fisionomia

 

Servizi a cura di Bruno Enriotti, Angelo Ferranti e Ibio Paolucci

 

Un gioiellino, con la sua deliziosa piazzetta, sulla quale si affaccia lo storico edificio del municipio, e la sua superba Basilica di sfolgorante stile barocco, con all'interno numerosi dipinti del grande Giacomo Ceruti, meglio noto col nome di Pitocchetto. Anche per noi, saliti su questa valle per parlare con i superstiti di quella fantastica vicenda, ricostruita con rigorosa e meticolosa precisione dallo studioso Iko Colombi, che ci è stato, in questi incontri, preziosa guida, la visione di Gandino è stata di piacevole impatto. Riguardo alla storia, per fornire un’idea di quanto sia stata coinvolgente, basterà ricordare che ben 25 furono le famiglie di gandinesi che, in vario modo, contribuirono alla salvezza degli ebrei. Ma di più: tutto il paese, si può dire, concorse in questa generosa gara di solidarietà, giacché ai componenti di quelle 25 famiglie che, se scoperti,  avrebbero fatto una brutta fine, è giusto aggiungere tutti gli altri abitanti, che, pur consapevoli, mantennero il segreto sulla presenza degli ebrei. Tacquero tutti, compreso l’ex segretario del fascio locale e tutti, direttamente o meno, diedero una mano. Certo, alcuni di loro, cui è stato assegnato dall’Istituto “Yad Vashem” di Gerusalemme il titolo di “Giusto”, rischiarono più degli altri. Ma tutti, ben conoscendo i luoghi dove gli ebrei erano nascosti, mantennero il silenzio, anche nei giorni in cui i tedeschi setacciarono casa per casa per scovare giovani renitenti alla leva o comunque in età per lavorare nell’organizzazione Todt o addirittura per essere deportati in Germania, e la paura era tanta. Nascosti nelle abitazioni o nelle parrocchie o in un istituto tenuto dalle suore o, quando il pericolo era maggiore, nelle baite di montagna, gli ebrei ricevettero la solidarietà concreta e operante, fatta anche di documenti di identità con nomi falsi, rilasciati dagli addetti agli uffici anagrafici del comune.

 

In queste stesse pagine pubblichiamo le interviste raccolte a Gandino.

 

Vivono ancora persone che allora erano piccole e sono ancora in vita ebrei in Italia o all’estero che trascorsero qui, nascosti, gli anni della loro infanzia. È stata proprio una di loro, che risiede oggi a New York, la signora Marina Lowi, a perorare la causa per il riconoscimento del titolo di “Giusto” ai gandinesi. In quei terribili anni si trovava nascosta assieme alla madre e al fratello in una casa della famiglia Ongaro. I riconoscimenti sono stati assegnati il 27 novembre scorso nel Salone della Valle a Gandino, presenti il dottor Shai Cohen, consigliere dell’ambasciata di Israele a Roma, il sindaco Gustavo Maccari, il presidente della Provincia Valerio Bettoni, il presidente della Comunità montana Valle Seriana Bernardo Mignani, il comandante della locale stazione dei carabinieri Giovanni Mattarello. Nel corso della manifestazione è stato letto un messaggio inviato dagli Stati Uniti da Marina Lowi, da sempre in costante contatto epistolare o telefonico con il figlio, suo coetaneo, dei propri salvatori. Drammaticamente toccante, nella sua sobria semplicità, la motivazione del diploma di “Giusto”: «Per l’aiuto reso a persone ebree durante il periodo dell’Olocausto mettendo a rischio la propria vita». Chi ha vissuto quel periodo sa che cosa significava quel rischio: o la morte o la deportazione in un campo di sterminio o, nel migliore dei casi, la prigione o l’internamento in un lager di lavoro coatto. Per contro chi denunciava un ebreo riceveva un compenso di 5000 lire, che allora costituiva una bella somma, o cinque chili di sale, un bene che nelle campagne era prezioso come l’oro. Il primo ad arrivare a Gandino fu il rabbino Samuel Zeitlin, con la moglie Katarina, il figlio, la nuora e la piccola Frida, accolti dalla famiglia di Michele Nodari e successivamente da quella di Luigino Ongaro. Gli Zeitlin erano jugoslavi e venivano da Sarajevo, dove era in corso da parte dei nazisti una feroce caccia agli ebrei. Conoscere il numero preciso delle persone salvate dai gandinesi è difficile, ma secondo Iko Colombi, furono almeno una cinquantina. Con molti di loro, dopo la Liberazione, sono continuati rapporti epistolari. L’architetto Francesco Ongaro, per esempio, conserva ancora una lettera di Samuel Zeitlin spedita da Brooklyn nel 1951, con espressioni di calda riconoscenza al padre. Isacco Zevi, nato a Gandino nel 1941 e ora rabbino in Israele scrive così al sindaco: «Voi ci riceveste a braccia aperte senza badare ai sacrifici, pronti ad aiutare il debole. Gandino, vorrei ornare le tue porte e le tue mura con ghirlande di fiori e piantare alberi di vita lungo le Tue strade .... Abbiate la mia benedizione». Un altro ebreo, Giuseppe Zeitlin, tornò a Gandino per sposarsi con Paola Siegelman di fronte al sindaco Raimondo Zilioli. Molti gli episodi che potremmo ancora citare, alcuni dei quali sono ricordati nelle interviste che pubblichiamo qui di seguito. Il quadro che emerge da questa storia è di una appassionata e commovente solidarietà. Nell’album tragico dell’Olocausto il nome di Gandino risplende, per l’eternità, di una fulgida luce.

 

La Malga Lunga Rifugio per famiglie braccate... ... e teatro di lotte partigiane

 

La Malga Lunga è in una zona impervia, alta sulle montagne che circondano Gandino. Oggi ci si arriva agevolmente con un fuoristrada, ma sessant’anni fa, quando in queste zone infuriava la lotta partigiana, si poteva raggiungere soltanto a piedi dopo ore di cammino lungo ripide salite. È alla Malga Lunga che trovò rifugio una delle famiglie ebree che erano state nascoste dagli abitanti di Gandino. A portare in questo luogo sicuro Alfred Hacher, sua moglie e le loro due bambine Luzy e Trudy, quando le squadracce fasciste si scatenavano a Gandino alla ricerca degli ebrei, era stata Ines Astori che li teneva nascosti nella sua abitazione a rischio della sua stessa vita. La “maestra Ines”, come tutti la chiamavano in paese, aveva educato generazioni di bambini di Gandino. Una maestra preparata e severa, che cercava di trasmettere ai suoi alunni oltre alla grammatica e all’aritmetica anche l’ideologia del fascismo, nella quale peraltro credeva. Quando a Gandino comparvero intere famiglie di ebrei alla disperata ricerca di un aiuto per sottrarsi alla caccia di tedeschi e fascisti, la “maestra Ines” fu tra le prime a venire in soccorso di quegli innocenti perseguitati con generosità e coraggio. Accolse nella sua casa la famiglia Hacher, le piccole Luzy e Trudy divennero amiche di sua figlia e con lei frequentarono anche l’asilo tenuto dalle suore. La Malga Lunga rappresentò per la famiglia Hacher la salvezza nei momenti di massimo pericolo, quando nel paese si scatenavano i rastrellamenti alla ricerca di partigiani e di ebrei. Era la “maestra Ines” che li guidava, assieme al contadino Mattia, su quelle montagne e andava a riprenderli quando riteneva che il pericolo fosse passato. La Malga sorgeva in una località ritenuta inaccessibile e in quella zona gli ebrei potevano essere protetti dai partigiani e sfuggire alla deportazione nei campi di sterminio. Anche per questo, dopo la Liberazione, la Malga Lunga è stata trasformata in “Rifugio Museo della Resistenza” a ricordo della lotta della 53a Brigata Garibaldi. La lotta partigiana nel Bergamasco è stata dura ed è costata numerose vittime. Due sono gli episodi più significativi avvenuti attorno alla Malga Lunga. Nell’ottobre del 1944, di fronte alla continua crescita delle formazioni partigiane sulle montagne, i fascisti organizzarono un rastrellamento nel tentativo di circondare la 53a Brigata Garibaldi attestata sui monti. Oltre duemila militi di Salò equipaggiati con armi pesanti salirono da Gandino, Sovere e Clusone. Si accamparono nelle stalle della Val Piana e della Val d’Ager razziando le case dei contadini e facendo pressione su di loro per sapere dove si trovavano i partigiani. Ottennero soltanto delle risposte volutamente evasive e contraddittorie che fecero nascere nei fascisti la convinzione che i partigiani fossero qualche migliaio e ben armati. In realtà erano un numero assai inferiore, anche se qualche giorno prima erano stati raggiunti da una cinquantina di russi, provenienti da una formazione di Fiamme Verdi della Val Camonica scioltasi dopo un rastrellamento. Preoccupato, il comandante delle squadre fasciste mutò la linea di condotta. Attraverso un megafono venne diffuso un ordine preciso: «Ritirarsi sul sentiero della Malga Lunga con tutto l’equipaggiamento. Proseguiremo in seguito per altra direzione». Avuta notizia di questa nuova disposizione i partigiani passarono al contrattacco. Giorgio Paglia che in quel periodo comandava la 53a Brigata preparò un agguato alle squadre fasciste in movimento. Un gruppo di partigiani con le due uniche mitragliatrici di cui disponevano si appostò in un punto che dominava il sentiero per la Malga Lunga e quando apparve la colonna dei fascisti aprì il fuoco. Dopo un combattimento di alcune ore i partigiani riuscirono a sganciarsi, mentre i fascisti ebbero alcuni morti e diversi feriti, fra cui il loro comandante. Un mese dopo, il 17 novembre, la Malga Lunga fu teatro di un altro tragico scontro tra partigiani e brigatisti neri. In questo edificio abbandonato aveva trovato temporaneo rifugio una squadra di partigiani, composta da nove persone, tra cui cinque russi La comandava Giorgio Paglia, un ragazzo di 22 anni, allievo ufficiale, studente del Politecnico di Bologna che dopo l’8 settembre era salito in montagna. Per lui non era stata una scelta facile: suo padre, Guido Paglia, era morto nel 1936 in Etiopia mentre combatteva nell’esercito fascista e per questo era stato decorato con la medaglia d’oro. La squadra di Giorgio Paglia aveva compiuto una lunga perlustrazione sulle montagne e si era accampata alla Malga Lunga, mentre il resto della 53° Brigata Garibaldi si trovava a qualche ora di distanza. Probabilmente informati da una spiata, i reparti fascisti della “Tagliamento” colsero l’occasione per vendicare la sconfitta del mese precedente. Circondarono la zona e irruppero di sorpresa nella Malga, favoriti dal mancato allarme della sentinella. Dopo un breve combattimento nel quale rimasero feriti il partigiano “Tormenta” (Mario Zeduri) e il russo Starich, subito finiti dai fascisti a colpi di pugnale, Giorgio Paglia e i suoi compagni dovettero arrendersi. Portati a Costa Volpino furono condannati a morte: tutti meno il comandante, al quale venne concessa la grazia in quanto figlio di una medaglia d’oro della guerra d’Etiopia. Giorgio Paglia rifiuta questa concessione, chiede inutilmente la libertà per suoi compagni, insulta i fascisti e tutti e sette i partigiani vengono fucilati al muro del cimitero. A Giorgio Paglia verrà assegnata dopo la Liberazione la medaglia d’oro. Nel corso dello stesso rastrellamento, erano stati catturati e subito fucilati i fratelli Florindo e Renato Pellegrini. Avevano entrambi meno di vent’anni, erano venuti dalla Francia per combattere con i partigiani italiani e si erano dati il significativo nome di battaglia “Falce” e “Martello”. Una lapide ricorda il loro sacrificio nel luogo dove vennero assassinati: «Il loro nome di guerra - si legge - fu il simbolo sacro degli oppressi di tutto il mondo». Gandino oggi non è più il paese dove nei secoli passati si producevano i “pannilana” esportati in tutto il mondo. È un tranquillo borgo ai piedi delle montagne dove si sono combattute aspre battaglie partigiane. Sui muri del paese si può ancora leggere una sbiadita scritta mussoliniana che esalta la guerra, mentre sulla piazza centrale la sede della Lega Nord ostenta orgogliosamente i dati del recente referendum costituzionale (a Gandino i “sì” hanno superato il 70%). La vita ha ripreso il suo corso normale, ma gli episodi di solidarietà che sessant’anni fa hanno coinvolto tutto il paese sono un patrimonio di civiltà che non può essere dimenticato.

Parlano i protagonisti

 

Gandino, un piccolo paese dell’alta Valle Seriana, ha un passato importante nella produzione del tessuto povero, il pannolana, quello da lavoro. I gandinesi tra il Trecento e il Quattrocento hanno portato i loro prodotti in molte parti dell’Europa del nord, in Germania, Francia, Belgio. Hanno creato ricchezza esibita nelle case patrizie e nelle chiese: lo testimonia la Basilica con le opere del Ceruti. Quella storia ha segnato e conformato tra alterne vicende la comunità. Nel corso della seconda guerra mondiale,come tutto il resto del Paese, Gandino patisce sofferenze e lutti. Si vive con fatica lavorando la campagna, culture povere, della montagna di mezzo, come sono quelle delle nostre Prealpi, frumento, poco, e granoturco, curando la terra, la stalla e il fienile. I protagonisti della nostra storia sono un’intera comunità, la loro è la storia di una solidarietà verso i perseguitati che ha coinvolto tutto il paese. Molti dei protagonisti sono ormai scomparsi. Nella sede del Comune abbiamo incontrato chi allora era giovanissimo. Nell’incontro che abbiamo avuto con Bepi Ongaro, Felicita Salvatori Colombi, Iko Colombi e il vice sindaco Roberto Colombi, che al tempo erano poco più che bambini, colpisce la voglia di raccontare, di far conoscere come anche in questo piccolo comune ci si oppose, si resistette anche rischiando rappresaglie e violenze da parte dei nazifascisti. Nelle loro parole emerge chiara questa consapevolezza: «Eravamo anche noi dalla parte giusta, lo erano i nostri genitori, il vicino che stava nella stessa cascina o nella stessa corte, innanzitutto per il fatto che erano uomini, donne e bambini come noi, che soffrivano per la guerra e che avevano perso tutto». Loro giovanissimi, inconsapevoli dei rischi che correvano i loro genitori partecipavano attraverso il gioco e poi l’amicizia - che dura ancora oggi a distanza di tanti anni - a quel rischio e a quei pericoli. Nascondere, proteggere, un gioco più grande di loro che qualche volta divenne molto pericoloso, ma di cui capivano, seppure confusamente, l’importanza e il significato.

 

Bepi Ongaro ci ha particolarmente aiutati nella visita dei luoghi e nella raccolta dei materiali e con lui Iko Colombi che, con le sue ricerche, ha fatto conoscere questa bella pagina di solidarietà umana. Solo chi coltiva la memoria può guardare con fiducia al domani. Se non sappiamo da dove veniamo, ancora meno sapremo dove andare.

Bepi Ongaro

Una stanza tutta per loro

 

Bepi Ongaro, mentre ci accompagna per le strade di Gandino, ci indica dalla sua casa, in via Castello, i luoghi dove avevano trovato rifugio le varie famiglie ebree. La sua ospitò Marina e Sighi Lowi, due bambini con la madre Maria. Ricorda: «La signora ci chiedeva una stanza. I miei si trovarono a decidere se accogliere o meno questo piccolo nucleo; mia madre lavorava alla tessitura e mio padre si occupava della poca terra che avevamo e delle bestie. Lei arrivò come al solito alle 12 e 40… Io ero lì con loro, senza sapere di che si trattasse. Poi mio padre, dopo aver scambiato poche parole con mia madre, disse che avremmo trovato per loro una sistemazione, nella parte alta della casa; per il mangiare, che era poco, ci si sarebbe adattati. Avvenne così il mio incontro con Marina e Sighi, ricordo i giochi, la curiosità che avevo per queste presenze così diverse; la nostra parlata, come eravamo vestiti… capivo che loro venivano dalla città. La presenza di un presidio tedesco era una fonte di pericolo costante. Molte volte dovemmo portarli fuori dal paese precipitosamente o nasconderli in un piccolo locale che avevamo dietro la cucina. Nessuno nonostante i rischi e il pericolo continuo fece parola di quella presenza: tutti sapevano, ma la maggior parte di noi era conscia che solo continuando a condurre la nostra vita normalmente avremmo evitato rappresaglie. Con Marina continuiamo a sentirci: lei vive in America. Mio padre Bortolo e mia madre Battistina Onagro hanno avuto il riconoscimento di “Giusti fra le Nazioni”, l’unica onorificenza che lo Stato di Israele concede a quanti hanno offerto aiuto agli ebrei perseguitati e destinato a quanti si opposero all’Olocausto. È stato un grande onore per me e per la mia famiglia e sono fiero per quanto hanno fatto mio padre e mia madre».

 

Felicita Astori

Il coraggio della maestra di fronte ai tedeschi

 

La signora Ines Astori, la “maestra Ines”, teneva nascosta una famiglia ebrea in una casetta a Plaz, sopra un roccolo, due piccole stanze e un bagnetto. Gli Hacher venivano da Vienna ed erano giunti a Gandino forse per un passaparola. «Mia madre – ci racconta oggi la figlia Felicita – li aveva ospitati e tenuti nascosti, fuori paese, in una piccola casa verso il bosco, quindi più sicura e meno soggetta alla curiosità e alle domande imbarazzanti. Una mattina mia madre era a scuola come sempre, entrò il bidello Castelli tutto agitato che l’avvertì che i tedeschi erano entrati nella scuola e che chiedevano di lei. Mia madre uscì di corsa dall’aula e andò incontro al tedesco di maggior grado chiedendogli con durezza per quale motivo era entrato nella scuola e cosa volesse. L’effetto di questo atteggiamento così battagliero certamente disorientò l’ufficiale il quale le chiese se sapeva dove si trovava una famiglia ebrea. La risposta di mia madre fu pronta: “Sono partiti, non so dove siano andati, esca dalla scuola e non disturbi i ragazzi”. Di fronte alla fermezza di mia madre, nota in tutto il paese per il suo coraggio, i tedeschi voltarono i tacchi e se ne andarono. Soltanto tempo dopo, quando commentammo insieme quella drammatica giornata mi disse: “Per me è stato un momento terribile”».

 

Cousil Lowi

Torno qui per sentirmi ancora a casa

 

Cousil Lowi era un bambino quando la sua famiglia si rifugiò a Gandino. Eravamo nel ’42 e venivano da Milano. Furono ospitati da diverse famiglie in vicolo Orfanatrofio vecchio, vicino all’oratorio e alla palestra dove fu installata anche la sede del distaccamento tedesco. I rischi di essere scoperti erano grandi e proprio per questo gli ebrei dovevano cambiare spesso alloggio trovando ospitalità in diverse famiglie. Cousil Lowi fa l’avvocato e vive a Milano. «Vengo spesso a Gandino – afferma oggi – e ogni volta che vengo qui mi sento come a casa. Vado a trovare Mary Servalli o sua sorella, con le quali abbiamo giocato insieme, avevamo la stessa età. Sono un sopravvissuto, anche grazie al loro aiuto. I miei ricordi sono in parte belli in parte brutti, perché abbiamo sofferto quella condizione di non essere più uomini, donne, bambini come gli altri. Ricordo mio padre che fu catturato dai tedeschi durante un rastrellamento. Per fortuna incontrò un ufficiale tedesco di origine polacca che lo aiutò. Anche mio padre era polacco ed è proprio grazie a questo incontro, che, dopo molte traversie, riuscì a salvarsi. Per quello che hanno fatto per noi non solo le famiglie che ci hanno ospitato, ma anche tutti gli abitanti di Gandino, noi ebrei abbiamo per loro una gratitudine infinita e per questo quando torno qui mi sento a casa».

 

L’anagrafe della salvezza

Per nasconderli rilasciavano documenti falsi

 

Giulio Mosconi, dipendente comunale, era il responsabile dell’anagrafe comunale di Gandino. Un ruolo speciale che svolse per tutti gli anni compresi tra il ’43 e il ’45. Il figlio Giuseppe, medico, ci racconta quanto avveniva la sera tra le mura della sua casa. «Mio padre si faceva aiutare da mia madre, molto preoccupata, nella preparazione di documenti di identità per molti degli ebrei che erano presenti a Gandino. Il tutto avveniva approfittando dell’esodo di migliaia di cittadini che avevano lasciato i centri più grandi per via della guerra: la confusione e la impossibilità di registrare i movimenti di tante persone permetteva di ricostruire delle identità nuove. I pericoli erano comunque grandi. Ricordo mia madre che mentre compilava a mano i nuovi documenti si domandava come si poteva far passare delle nuove identità che erano state riprese da persone defunte! Questo lavoro non coinvolgeva soltanto la mia famiglia, ma l’intera anagrafe del Comune e voglio ricordare con mio padre che nel dopoguerra divenne sindaco di Gandino, gli impiegati comunali che con lui rischiarano moltissimo: Giovanni Servalli, Francesco Castelli. Le capacità manifestate in quegli anni da mio padre gli valsero una proposta da parte di una famiglia ebrea che avevamo aiutato. La ricevette nell’immediato dopoguerra: trasferirsi in Canada per amministrare una grossa impresa di pellicceria di qualità. Mio padre si interrogò per molto tempo se accettare o no questo invito. Io e mia sorella eravamo già grandi, studenti all’università e le nostre condizioni economiche non erano delle migliori. Ma alla fine restammo qui».

 

L’albergo Makallè

Rifugio di una famiglia polacca

 

“L’albergo Makallè si trova un po’ fuori paese, luogo di sosta per chi transitava per quei luoghi, all’apparenza un posto per camionisti, luogo di ristoro per quanti si inerpicavano per quella valle per trasferire altrove come dicono ancora oggi a Gandino “il ricco del pannolana”. Il nome, Makallè, era stato scelto, dai primi proprietari, in ricordo del sacrificio di quanti erano caduti in quella sanguinosa battaglia della guerra d’Africa, in Abissinia, nel gennaio 1896, che aveva visto la sconfitta di Adua. Da qualche anno il Makallè ha chiuso i battenti. Oggi è rimasta solo un’insegna un po’ sbiadita, consumata dal tempo, ma ancora ben presente sull’esterno della facciata che dà sulla strada principale. La signora Angela Forzenigo viveva nell’albergo con i suoi genitori Francesco Forzenigo e Margherita Andreoletti, che lo gestivano e ha un ricordo vivido della famiglia Grunland. Erano polacchi, erano giunti a Gandino alla fine del ’43, venivano da Milano e come altri rifugiati nel nostro comune erano dei commercianti che avevano dovuto abbandonare le loro attività per effetto delle persecuzioni razziali. Erano marito, moglie e una figlia: Alina. Come altri erano stati aiutati a cambiare nome. In Comune si era costituito un vero e proprio centro di falsificazione di documenti d’identità. In quegli anni i bombardamenti nelle grandi città avevano costretto all’esodo e all’abbandono delle proprie case e delle proprie attività. Sfollati, questa condizione permetteva, con molti rischi per chi produceva nuovi documenti, di mettere in salvo molte persone. I Grunland avevano acquisito il nome italiano di signori Bianchi. Oltre alla nuova identità, le persone che in Comune, all’anagrafe producevano i nuovi documenti, a loro come a molti altri fornivano la tessera annonaria, l’unica possibilità di ricevere gli scarsi alimenti previsti dal razionamento. Ci racconta ancora la signora Angela che i Grunland erano particolarmente angosciati per la loro situazione e per i rischi continui che correvano: la loro presenza in un luogo pubblico molto frequentato li esponeva al rischio continuo di essere riconosciuti e a domande sulla loro provenienza e per quali ragioni si trovavano lì. «Durante i rastrellamenti – dice – si allontanavano senza mai dire dove andassero. Poi ritornavano. La signora Grunland restò a Gandino anche nel dopoguerra ed è sepolta nel nostro cimitero».

Triangolo Rosso, ottobre 2006

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