Triangolo rosso

Fondamentale opera dello storico Angelo Del Boca sul comportamento del soldato italiano sui fronti di guerra in centocinquant’anni di storia nazionale

Italiani, brava gente?

Un falso mito per cancellare i fantasmi dei crimini

 

di Franco Giannantoni

 

I campi di concentramento, veri e propri lager, furono anche italiani. Fatti dagli italiani. Gestiti dagli italiani. Quelli nel deserto libico della Sirte, di Nocra in Eritrea, di Danane in riva all’Oceano Indiano dove fra paludi, rocce, sabbie roventi, un clima impossibile, scomparirono, minati dalle malattie e dagli stenti, migliaia di prigionieri. I lager realizzati in Libia dal fascismo coloniale furono quindici. Lì venne imprigionata la Resistenza contro il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani guidata da Omar el-Mukhtar, impiccato il 16 settembre 1931 nel campo di concentramento di Soluch al cospetto dei notabili confinati a Benina e a ventimila libici condotti in catene dai diversi campi di concentramento per assistere al martirio del loro eroe nazionale. Da Dio siamo venuti e a Dio dobbiamo tornare, furono le ultime orgogliose parole del vecchio capo, ferito e malato. È solo una pagina della fosca rappresentazione di un’Italia terribile, ignota, nel corso di decenni di folli campagne di conquista. Tanto oscena che da anni vige in Italia la proibizione di proiettare Il leone del deserto il film girato dal regista siroamericano Moustapha Akkad sulla vita del capo partigiano perché giudicato da una improbabile Commissione censura italiana lesivo dell’onore dell’esercito italiano. Una meschina trappola per evitare la verità. Muammar Gheddafi il 7 ottobre 1975 affermò, carte alla mano, celebrando l’anniversario della cacciata degli italiani, che “ciò che l’Italia ha commesso rappresenta oggi una lezione storica per l’umanità e un tragico esempio di aggressione, brutalità e barbarie. Esso rispecchia l’arroganza dei forti quando aggrediscono i popoli poveri e deboli”. Angelo Del Boca, il più accreditato storico italiano delle imprese coloniali, questa tragica verità ce la sbatte in faccia con il suo ultimo libro Italiani, brava gente?, rigoroso, documentato, incalzante, semmai ancora più crudo dei precedenti per la mirabile sintesi di un impressionante concentrato di misfatti più leggibili ora che i veli che avevano ammantato il nostro passato, quello pre-fascista e quello fascista, sono lentamente caduti per l’opera coraggiosa, incessante degli storici del suo stampo. Esce di quell’Italia un ritratto impietoso, per molti sorprendente ed ignoto. Ma è corretto e giusto, e questo è il grande merito dello studioso torinese, che possa sapere che il comportamento del soldato italiano fu esattamente pari a quello del soldato di ogni altro Paese, crudele, spietato, freddo esecutore degli ordini ricevuti. Un uomo comune, senza particolari fanatismi, né costruito a tavolino per compiere particolari nefandezze. Un italiano qualunque, del Nord e del Sud. Non un buon italiano comunque, perché il risultato che si ottiene, dopo aver scorso le pagine dell’orrore e della sanguinaria violenza, è quello di vedere demolito il luogo comune dell’italiano brava gente. Del Boca nel suo titolo in modo provocatorio accompagna il logoro cliché dell’italiano generoso e civilizzatore, come da consolidata propaganda, con un punto interrogativo, in realtà una sottile provocazione per guidare quel lettore che, illuso, non fosse ancora riuscito a maneggiare la sterminata, dolorosa materia che coincide con le pagine più oscure della nostra storia. Pagine che iniziano coi massacri compiuti nella guerra al brigantaggio nel Sud dell’Italia e si dipanano dagli eccidi in Cina durante la guerra ai boxer, alle deportazioni nell’ottobre 1911 verso Ustica, Ponza, Favignana, le Tremiti, Gaeta, Caserta, di migliaia di cittadini libici di ogni età dopo il bagno di sangue di Sciara Sciat che segnò un’ecatombe italiana, allo schiavismo in Somalia contro le popolazioni delle rive dei grandi fiumi, all’utilizzo dei gas tossici nella guerra d’Etiopia per avvelenare popolazioni, acque e territori interi e accelerare la conquista dell’impero (materia sviscerata per decenni da Del Boca sino a smascherare alla fine, ma quanta fatica, le ipocrite resistenze di Faldella, Lessona e Montanelli che pure sapevano), alla campagna di Spagna con le sciagurate imprese, fra le altre, dello squadrista Arconovaldo Bonaccorsi nell’isola di Maiorca (tremila fucilati), all’esecuzione sommaria di duemila monaci e diaconi copti nella città conventuale di Debrà Libanos e alla strage di Addis Abeba del 1937 con la più bestiale caccia al nero mai vista in Africa, all’invasione e ai rastrellamenti dei Balcani dalla Grecia, all’Albania, al Dedocaneso, alla Dalmazia, alla Croazia, al Montenegro, alla campagna di Russia contrassegnati da impiccagioni, saccheggi, incendi di interi villaggi, violenze sulle donne, alla caccia degli ebrei durante i 600 giorni della Rsi, alla loro cattura, al successivo sterminio in mano tedesca. Che fosse artefatto il mito degli italiani brava gente incapaci di crudeltà e di crimini di massa, Del Boca lo documenta ripetutamente. Basti, ed è solo un esempio, l’episodio della defenestrazione del commissario Giuseppe Daodiace da parte di Graziani nel pieno della repressione della Cirenaica, un Paese che aveva visto la popolazione precipitare in pochi anni di 60 mila unità, 20 mila per l’esodo verso l’Egitto e 40 mila per le terribili conseguenze della guerra. Daodiace era stato uno dei rarissimi funzionari ad essere rimpatriato perché incapace, per forma mentis, di seguire i metodi nuovi imposti dal regime nella gestione dell’occupazione fra cui spiccava quello di non fare prigionieri in battaglia, donne e bambini compresi. L’Africa scorre nella ricostruzione di Del Boca attraverso agghiaccianti fotogrammi. C’è l’italiano vero? Certo che esiste come nei progetti del verbo mussoliniano. Sanguinario, impietoso, vendicativo. Dal cielo piovono tonnellate di iprite che investono carovane di fuggiaschi. Il fuoco arde i poveri alloggi. La laurea per essere uomini si ottiene seminando la morte, afferma Vittorio Mussolini, il figlio del duce, pilota di caccia. Gli additivi chimici proibiti dalla Convenzione di Ginevra sono pane quotidiano regolarmente autorizzati dai vertici romani. Ne arriveranno segretamente in Africa orientale a tonnellate per l’impiego ravvicinato, per l’aeronautica, per l’artiglieria. Il 24 dicembre 1935 Graziani invia tre “Caproni” per irrorare ras Destà, un resistente abissino. Fece una strage, 125 bombe in altri tre attacchi. Leggere queste pagine stringe il cuore. Scrive Del Boca: “Complessivamente dal 22 dicembre 1935 al 29 marzo 1936 venivano sganciate sul fronte Nord 1020 bombe c.500T per un totale di 300 tonnellate di iprite. Sul fronte Sud (…) 44 tonnellate”. Con la battaglia dell’Amba Aradam, il totale toccò il tetto delle 350 tonnellate di aggressivi chimici. Quando nel 1941 l’avventura africana si concluse nella completa disfatta dalle tasche dei 90 mila soldati italiani fatti prigionieri emerse una documentazione fotografica, scrive Del Boca, atroce, allucinante. Migliaia di immagini di forche rudimentali e di impiccati, di sorridenti carnefici in posa, di fucilazioni, di incendi, di uomini in divisa con in mano le teste mozzate delle loro vittime. “Quello che sorprende - annota Del Boca - è il pieno consenso espresso dai volti di chi circonda gli aguzzini. Come se questi macabri spettacoli costituissero un rito quotidiano, naturale, scontato”. Lasciata l’Africa il fascismo si imbarcò in altre avventure, quelle che ne decretarono la fine. Del Boca le propone e il senso di ripulsa diventa ingovernabile. Infatti le repressioni nei Balcani non furono meno feroci di quelle africane con 650 mila soldati e dieci Corpi d’Armata equipaggiati alla meno peggio. Un quadro sconcertante, un’altra tragedia occultata. Seppur la presenza italiana non sia durata più di due anni, i crimini perpetrati dagli occupanti fascisti furono numericamente superiori a quelli della Libia e dell’Etiopia. Anche la ferocia più elevata qui tutta ascrivibile ai soldati italiani a differenza del fronte africano dove agirono i collaborazionisti locali. A ispirare le operazioni i nomi altisonanti dei maggiori alti ufficiali del nostro esercito: Mario Roatta (criminale di guerra n. 105, capo di Stato maggiore dell’esercito, mancato difensore di Roma all’armistizio), Mario Robotti, Gastone Gambara (combattente di Spagna), Taddeo Orlando (rastrellatore nel ‘42 coi granatieri di Sardegna in Slovenia, ministro della Guerra con Badoglio nel ‘44, comandante generale dei carabinieri e con De + Gasperi segretario generale della Difesa), Vittorio Ruggero (che consegnò l’8 settembre 1943 Milano ai tedeschi), Renzo Montagna (capo della polizia di Salò), Giuseppe Bastianini, Alessandro Pirzio Biroli, brutale fucilatore sul fronte africano. Basti, per avere un’idea del sangue prodotto in una carneficina senza pari, scorrere la relazione n. 4 sui crimini di guerra italiani che nel febbraio 1945 la Commissione di Stato jugoslava di Tito aveva presentato alla United Nations War Crimes Commission di Londra per avere giustizia. La ricostruzione è impressionante. Durante il periodo dell’occupazione della Slovenia (le altre relazioni riguardavano la Dalmazia ed il Montenegro), dall’aprile del ’41 al settembre del ‘43, nella sola provincia di Lubiana, in una campagna di bonifica etnica vennero fucilati 1000 ostaggi (indagini più recenti fanno salire a 1500 i fucilati), partigiani giustiziati 900, ammazzate in modo proditorio oltre 8 mila persone, incendiate 3 mila case, deportate in campi di concentramento oltre 35 mila persone comprese donne e bambini, devastati 800 villaggi. Nel campo di Arbe presieduto dal tenente colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli, criminale al pari degli altri, morirono di fame più di 4500 persone con un tasso di mortalità del 19% superiore a quello del lager nazista di Buchenwald dove la percentuale era del 15%. Tirate le somme, in un arco di due anni, 50 mila sloveni furono massacrati o puniti da una repressione senza pari. Per completare il quadro,alcuni dati del Tribunale militare di guerra di Lubiana presieduto dal colonnello Antonino Benincasa e dal colonnello dei carabinieri Ettore Giacomelli rendono la situazione ancora più pesante: 13.186 imputati, 83 condanne a morte, 434 ergastoli, 25.459 anni di detenzione. Molto di più, fatti i debiti rapporti, di quanto comminato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato nei suoi sedici anni d’attività dal ‘27 al ‘43 (5.619 gli imputati, 27.752 gli anni di detenzione, 42 le condanne capitali di cui solo 31 eseguite, tre gli ergastoli). Il soldato Lorenzo Tamburini, simbolo in Balcania dell’italiano brava gente, il 9 luglio 1942 scriveva alla moglie: Cara Tota ora ti dirò nuovamente quale danno stiamo causando. Proprio oggi siamo tornati nello stesso accampamento in cui eravamo alcunigiorni fa poiché siamo stati nuovamente tradotti in treno ad incendiare due villaggi dei ribelli. Non posso descriverti il macello che abbiamo fatto. Per il generale Robotti i soldati italiani chiamati a rastrellare i banditi comunisti pagati dal denaro antiitaliano erano signori legionari della civiltà per il prestigio del nome italiano e del nostro Esercito. Seguì il tempo di Salò, 600 giorni di occupazione nazifascista. Gli impiccati, i fucilati, i torturati furono migliaia. Gli ebrei, prima discriminati, ora deportati. Dopo Fossoli, Auschwitz, Mauthausen, Gusen, Flossenburg, Dachau. Correttamente Del Boca collega in modo diretto la violenza dell’ultimo governo di Mussolini con le brigate nere e le ville tristi disseminate in tutto il territorio non tanto alle conseguenze dell’8 settembre quanto ai trascorsi del regime, al tempo lontano, al manganello e alle squadracce di Balbo, alle imprese di Libia, alle forche di Graziani, all’iprite del lago Tana, ai rastrellamenti dei Balcani. Sottolinea la continuità, il filo nero che cementa tutto sino alle stagioni delle stragi di Stato dal 1969 al 1987 con 14.591 atti di violenza, 491 morti, 1181 feriti cifre - hanno scritto Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri e Del Boca lo ha ricordato - da guerra che non hanno uguali in nessun altro Paese europeo”. 

Triangolo Rosso, maggio 2006

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