Triangolo rosso

Nel cinema del lager di Ravensbrück

Presentata l’edizione in lingua tedesca del “Ponte dei corvi” di Maria Massariello Arata

 

Il giorno 22 aprile 2005, nei locali del cinema del campo di Ravensbrück è stata presentata l’edizione in tedesco del libro di Maria Massariello Arata, Il ponte dei corvi, Mursia, Milano 2005, 3a edizione. Hanno parlato Insa Eschebach, nuova direttrice del Museo, la figlia della deportata italiana e il traduttore dell’opera prof. Elmar Locher. Sono intervenuti alla cerimonia, in rappresentanza dell’ambasciata italiana a Berlino il dott. Alessandro Guardanio, consigliere d’ambasciata e la dott. Caterina Rosanò che hanno deposto al muro delle nazioni la corona inviata dall’ambasciata d’Italia in ricordo delle deportate italiane.

di Giovanna Massariello Merzagora

La traduzione di questa testimonianza di una deportata politica italiana è occasione preziosa per portare nell’Europa del terzo millennio, fuori dai confini nazionali, la voce di una donna che nel campo di Ravensbrück condivise le sofferenze di donne provenienti da più di 20 nazioni, molte delle quali convivono oggi nell’Unione Europea. Un altro profilo individuale va ad aggiungersi alle storie di deportazione che già conosciamo fatte di sofferenze, di coraggio, di resistenza alla violazione di diritti umani. Chi era Maria Arata? Nata a Massa Carrara nel 1912, la sua famiglia fu costretta a lasciare la città toscana nel 1926 a causa della persecuzione fascista nei confronti del padre, Emilio Arata, socialista noto, che dovette per le sue idee dimettersi dalla sua carica di funzionario nell’amministrazione provinciale. Milano fu scelta come luogo di rifugio, nella grande città avevano già cercato riparo molti antifascisti provenienti dalla Toscana. Maria Arata, laureata a 21 anni in Scienze naturali presto assistente di ruolo di Botanica, optò nel 1942, a causa di incomprensioni con il mondo accademico, per l’insegnamento delle Scienze naturali in un liceo classico cittadino, il liceo Carducci, una scuola che diede un notevole contributo alla lotta antifascista, con l’impegno di professori e studenti. Era una scienziata che si occupava dei processi di immunità nelle piante; l’amore per la natura rappresentò per lei anche nel lager, motivi di radicamento alla vita, dai quali trarre forza per sottrarsi alla barbarie umana. Al ritorno dalla deportazione, fu offerto a Maria Arata di lavorare ancora nella ricerca, ma “la vita vista al microscopio” (sono sue parole) non rappresentava più per lei un interesse così totalizzante. Fu arrestata il 4 luglio 1944, durante una riunione clandestina con studenti della facoltà di Medicina e di Agraria ed altri resistenti, in tutto una decina di persone. Le attività clandestine consistevano in distribuzione di stampa clandestina, raccolta di farmaci e materiale sanitario per i partigiani che operavano sulle colline del vicino lago Maggiore, distribuzione di documenti falsi destinati ad ebrei o a giovani che si erano sottratti all’esercito della Repubblica di Salò. Tra gli arrestati, fu Maria l’unica a percorrere fino in fondo l’odissea della deportazione nel lager, fu lei a subire il carico più pesante degli interrogatori nel carcere di San Vittore, a mantenere il segreto sulla rete cospirativa, così che dopo di lei nessun altro venne arrestato. La sua riservatezza nel carcere e a Bolzano, per motivi di prudenza, costarono a lei un profondo isolamento, anche dalle compagne (e a questo si accenna nel libro, sottolineando la differenza tra chi lotta per la libertà senza mai calpestare la dignità della persona umana e chi invece lega la propria lotta all’affermazione di sé o del proprio partito politico visto come referente “assoluto”). Ritornata dal lager nell’agosto 1945, già nel mese di settembre tornerà al liceo per riprendere l’insegnamento. La burocrazia scolastica l’aveva licenziata dalla scuola, come risulta dall’archivio del liceo, “perché non si era più presentata a scuola” ed ella dovette inoltrare la domanda di riammissione per poter riprendere il suo posto di lavoro. Alcuni allievi dell’immediato dopoguerra ricordano ancora oggi quell’insegnante alla quale ogni tanto veniva a mancare la voce e che sembrava talvolta assentarsi guardando nel vuoto: non ne conoscevano i motivi e soltanto a distanza di anni seppero della sua storia di deportata. A partire dal 1946, l’impegno nella scuola e le vicende private assorbirono con intensità la sua vita, il matrimonio e i figli insperatamente giunti, dopo la deportazione. Nel 1973, Maria si ammalò di un male incurabile. Dal momento in cui la malattia la tenne lontana dall’insegnamento, nel presagio della morte imminente, ritornò con intensità a quella che era stata l’esperienza centrale della sua vita, la deportazione ed impiegò tutti i giorni che le restavano a ricomporre nella scrittura i suoi ricordi. Ricordo le parole di mia sorella Lucia, pronunciate in occasione di una tavola rotonda dedicata alle donne nei lager: “Tutti gli altri eventi della sua esistenza - il marito ed i figli che le stavano vicino - rimasero nell’ombra, e negli ultimi mesi di vita la vedevamo immersa in questi ricordi che riviveva intensamente, tanto che soffrivamo un poco, soprattutto mio padre, di questo suo estraniarsi. Eravamo d’altro canto contenti che potesse realizzare ciò cui teneva tanto: la possibilità di tramandare la propria esperienza”. Il compimento della stesura di questo libro risale a un sabato del febbraio 1975, tre giorni prima della sua scomparsa. Lo scritto venne pubblicato dalla casa editrice Mursia nel 1979 e quest’anno è stato riedito in Italia per la terza volta. Già dal campo, all’indomani della liberazione, Maria Arata aveva annotato in un Tagebuch, che reca la data del 1944 alcune vivide impressioni: per esempio la selezione e il trasferimento allo Jugendlager. Nello stesso taccuino sono affannosamente registrati i nomi delle italiane incontrate nel lager, di alcune lavoratrici coatte e di compagni incontrati a Ravensbrück dopo la Liberazione (30 aprile 1945). Nello stesso taccuino sono annotati testi destinati a comparire sui Bollettini redatti, come in altri campi, quasi quotidianamente dal gruppo nazionale dei deportati italiani, in attesa del ritorno a casa che avvenne poi per molti e anche per lei, in modo avventuroso, comunque non organizzato da istituzioni di alcun tipo. Nessuno cercava o sapeva di queste donne italiane finite nel lager. L’edizione tradotta del libro comprende alcuni documenti che non sono presenti nell’edizione italiana: i testi di Bollettini, i fogli di un giornale quotidiano redatto e diffuso nel Lager (sono noti quelli di Dachau) da lei personalmente redatti. I testi del Tagebuch, manoscritto a matita, comprendono analisi di tipo politico sulla condizione della donna sotto la dittatura e sulla storia del capitalismo, oltre alla cronaca di una partita di calcio tra jugoslavi e italiani che si era conclusa con una certa tensione e Maria Arata redige un invito alla distensione degli animi dei due contendenti. Sono fogli di recupero, utilizzati sul verso, ma che sul recto riportano schemi di impianti elettrici coperti dal segreto bellico, pezzi di carte geografiche della Germania nazista. Sono documenti importanti e talora commoventi della volontà dei deportati di ritornare a partecipare alla vita fuori del lager, al dibattito politico, alla fondazione della democrazia nel loro paese. In seguito, Maria, tornata in patria, si affrettò a redigere la cronologia della sua deportazione, con le indicazioni degli spostamenti da Ravensbrück al sottocampo di NeuBrandenburg, del ritorno a Ravensbrück, della destinazione allo Jugendlager, del ritorno ancora a Ravensbrück e le tappe del viaggio di ritorno a casa attraverso la Germania; altri suoi scritti inediti sintetizzano l’esperienza concentrazionaria e preparano la scrittura di questo libro. Fu pubblicato soltanto un suo scritto dal titolo Fanciulla alzati!, nel quale ella testimonia, con forte spirito di denuncia e commozione, la morte crudele di una giovanissima zingarella, quasi una bambina, sottoposta a sterilizzazione nel Revier di Ravensbrück. Alla scrittura quindi della sua esperienza, l’autrice di questo libro pensò lungo tutto l’arco della sua vita, così come desiderò fortemente di ritornare sul luogo di tante sofferenze. Il ritorno avvenne nell’estate del 1969, quando il campo era ancora occupato dalle truppe sovietiche e poteva essere solo parzialmente visitato. Volle attraversare tutta la Germania con la famiglia, nella convinzione che “la migliore vendetta fosse ritornare in cinque là dove avrebbe dovuto morire in solitudine”: sono sue parole. Il viaggio le provocò una profonda emozione, anche perché le trasformazioni del campo non le consentirono di ritrovare la piazza dell’appello, le baracche e soprattutto a NeuBrandenburg, a quel tempo, non ritrovò alcuna segnalazione dei luoghi della memoria. Proprio nel ricordo del vagare di mia madre alla ricerca di un luogo reso sacro dalle sofferenze di tante compagne, soprattutto di quelle non ritornate, sono impegnata oggi nel Comitato internazionale di Ravensbrück, come rappresentante dell’Italia (insieme a Bianca Paganini Mori) perché la conservazione del campo e la possibilità di visitarne la vasta area attraverso percorsi guidati e segnalati da scritte plurilingui rendano partecipi le nuove generazioni di quello che il campo di Ravensbrück ha storicamente rappresentato. Vorrei infine fare qualche riflessione sul racconto della deportazione fatto da mia madre ai suoi figli: nell’immediato dopoguerra e anche oltre, fino agli anni ‘70, non erano così consueti in Italia gli inviti ai testimoni a parlare della propria esperienza nelle scuole. E così ella non parlò mai ufficialmente della propria deportazione all’interno della scuola nella quale insegnò per oltre trent’anni. Solo qualche frammento di memoria regalato ai suoi allievi, in rare circostanze. Si confidò soprattutto con noi figli che fin da piccoli eravamo abituati ad ascoltare il suo racconto, pensando che appartenesse a tutti i bambini il fatto di aver avuto una madre deportata. La sua narrazione tuttavia era priva di odio ma fortemente integrata alla vita quotidiana: “Quando ero a Ravensbrück …” era l’incipit per noi corrispondente a “C’era una volta” delle fiabe. La mamma ci risvegliava al mattino della domenica, con la sua voce squillante con “aufstehen!”, altre volte ci invitava ad affrettarci con “schnell, schnell”, quasi ad integrare nella vita quotidiana, sdrammatizzandoli, i terribili richiami del tempo passato. Il suo rapporto con la lingua tedesca era fortemente ambivalente: ci spinse verso lo studio di essa e lei stessa durante la scrittura di questo libro dedicava alcune ore allo studio di quella lingua che le suscitava tanta emozione, anche quando risuonava in bocca ai turisti in vacanza sulla sua spiaggia nativa della Versilia. Le erano inoltre insopportabili tutte le circostanze nelle quali le sembrava ripetersi la spoliazione subita nel campo: nelle circostanze di un ricovero ospedaliero, le parve assurdo, in attesa della visita dei medici, lasciare i suoi abiti, le calzature, la collana di perle che non abbandonava mai, per vestire la divisa del ricoverato! Il senso della dignità individuale era stato il recupero più lungo e doloroso della sua vicenda di deportata: raccontava che, nell’immediato ritorno a casa, una delle cose che le erano più incomprensibili della società civile, erano le cerimonie funebri, l’apparato per celebrare la morte di un solo individuo, quando i suoi occhi erano stati avvezzi alle montagne dei cadaveri e per la morte di tante creature umane, non era versata una sola lacrima. Eppure si era fieramente opposta al processo di disumanizzazione, continuando a essere capace anche là di gesti umani, di solidarietà, tanto da poter scrivere: “Abbiamo perduto tutti i diritti dell’umanità, siamo bestie da soma, ma nessuno può impedirci di pensare, di contemplare la natura, di pregare.”

Triangolo Rosso, maggio 2006

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