Triangolo rosso

Morto a Vienna, all’età di 96 anni, Simon Wiesenthal - A lui si deve l’arresto di circa 1.100 criminali nazisti

Una vita alla ricerca della giustizia

Nato in Polonia nel 1908, si trasferì a Vienna e a Praga per completare gli studi di architettura. Ma non esercitò mai questa professione: allo scoppio della seconda guerra mondiale conobbe la sorte che i nazisti avevano in serbo per gli ebrei.

 

di Alessandra Chiappano

 

Con l’inizio delle persecuzioni Wiesenthal fu rinchiuso in vari campi di lavoro per ebrei nei dintorni di Leopoli da dove riuscì a far uscire la moglie Cyla che, bionda, riuscì a farsi poi passare per ariana e a salvarsi. In seguito fu prigioniero in diversi campi e partecipò alle marce della morte verso ovest. Fu liberato a Mauthausen il 5 maggio 1945, ad opera degli americani, dopo esser passato per Plaszow, Gross-Rosen, Buchenwald. Dopo la guerra, a Vienna, nel 1947 insieme alla moglie e ad alcuni volontari aprì il Centro di documentazione ebraica, che si prefiggeva lo scopo di trovare e assicurare alla giustizia i criminali di guerra nazisti, che nella confusione del dopoguerra, riuscivano spesso a far perdere le loro tracce. Nel 1977 è stato fondato in suo onore il Simon Wiesenthal Center di Los Angeles, che ha uffici sparsi in diverse città, in Europa come negli Usa. Oggi questi centri non si occupano più soltanto della “caccia ai criminali” nazisti ma anche di temi di attualità, come il razzismo e l’antisemitismo e sono dotati di moderni centri pedagogici ed educativi. Wiesenthal continuò a vivere a Vienna insieme alla moglie Cyla, morta nel 2003, e dedicò tutta la sua vita alla ricerca dei tedeschi compromessi con la soluzione finale. A Vienna il suo Centro di documentazione ebraica è un appartamento di sole tre stanze. Uno dei suoi più grandi successi fu quello che portò alla cattura e al processo di Adolf Eichmann, uno degli esecutori della soluzione finale, colui che organizzava in termini tecnici lo sterminio. Infatti fu grazie alle sue informazioni che il Mossad, riuscì a identificare Eichmann, che viveva sotto falso nome, in Argentina. La cattura e il processo celebrato a Gerusalemme contro di lui nel 1961 rappresenta uno degli eventi chiave nella storia della memoria della Shoah: infatti fu proprio grazie a questo processo, seguito dalla stampa internazionale, che ebbe inizio una fioritura di studi storici su questo evento, che entrò a far parte della memoria collettiva dei vari Paesi europei. Sempre alle sue ricerche si deve la cattura di Franz Stangl, il comandante del campo di Treblinka, dove furono assassinati più di ottocentomila ebrei. Anche lui viveva sotto falsa identità in Sud America. Wiesenthal spese moltissime energie nel tentativo di identificare Joseph Mengele, il medico di Auschwitz, autore di numerosissimi esperimenti medici sui bambini e in particolare sui gemelli. Nonostante la caccia spietata Mengele riuscì a non farsi identificare e morì tranquillamente in Brasile nel 1979, senza rispondere davanti ad un tribunale dei suoi crimini. Un altro successo di Wiesenthal fu la cattura di Karl Silbebauer, nel 1963, il poliziotto che arrestò Anna Frank e la sua famiglia; la sua cattura comprovò la veridicità del famoso Diario, messa in dubbio da molti. Wiesenthal ha scritto numerosi volumi in cui racconta la sua vita e la sua opera. A lui si deve l’arresto di circa 1.100 criminali nazisti. Tra le sue opere più importanti si segnalano Gli assassini sono tra noi (1967), Il girasole (1970) e infine Giustizia non vendetta (1989).

 


Quando a una SS morente fu rifiutato il perdono

 

di I.P.

 

Reduce da ben tredici campi di sterminio, nel 1943, a Leopoli, Simon Wiesenthal fu protagonista di un episodio sconvolgente, che riguarda il problema del perdono. Una mattina di quell'anno, Wiesenthal, con altri prigionieri, fu mandato nell'ospedale della città per lavori di bassa manovalanza. Qui venne avvicinato da una infermiera tedesca che, dopo avergli chiesto se era ebreo, gli disse di seguirla fino ad una cameretta dove si trovava un giovanissimo delle SS agonizzante, che gli raccontò di avere preso parte ad un orrendo delitto, avendo incendiato un edificio dove erano stati rinchiusi un centinaio di ebrei di tutte le età, che finirono bruciati vivi. Confessato l'infame crimine, la SS chiese a Wiesenthal di perdonarlo, consentendogli così di morire in pace. Wiesenthal ascoltò con disagio e in silenzio la confessione e poi uscì dalla stanza senza concedergli il perdono. Vent'anni dopo, assalito dal dubbio, si rivolse ad una quarantina di eminenti personalità, chiedendo loro se aveva fatto bene o no. Diverse le risposte sempre di elevata intensità, che, tuttavia, su alcuni punti di fondamentale importanza risultarono di eguale significato. No, non era lecito concedere il perdono. Il quesito venne posto anche a due italiani: Primo Levi e Umberto Terracini. Levi disse che "nel caso specifico, poiché lei era uno Haftling, cioè una vittima predestinata, e poiché lei allora sentiva di rappresentare la totalità del popolo ebreo, lei avrebbe sbagliato assolvendo il suo uomo, e proverebbe oggi un rimorso più grande di quello che prova forse oggi per averlo condannato". Pienamente condivisibile, a nostro avviso, la risposta di Terracini che gli scrisse che, semmai, non all'ebreo ma ai suoi aguzzini la SS avrebbe dovuto rivolgersi: "Sì, avrebbe dovuto gridare la propria accusa, la propria esecrazione a tutti i tedeschi, i nazisti, con i quali poteva ancora comunicare: i medici, gli infermieri, i colleghi d'arme, con la voce, con muti gesti, con lo scritto, instancabilmente, fino a che fosse rimasto un residuo di energia".

Triangolo Rosso, novembre 2005

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