Triangolo rosso

Come portai a felice esito l’operazione Breda-otto-ta-pum

Il giovane ebreo fra i partigiani con la sua genialità rese efficace una mitragliatrice inservibile

 

di Giorgio Weiller

 

Giorgio Weiller racconta in questo articolo un episodio della sua vita quando, giovanissimo, si trovava tra i partigiani. Weiller ha avuto una vita molto avventurosa, da lui raccontata nel suo libro La bufera – Una famiglia di ebrei milanesi tra i partigiani dell’Ossola, da noi recensito nel marzo 2003. Per sfuggire ai nazisti, la sua famiglia lasciò Milano dopo l’8 settembre per trovare rifugio in Val d’Ossola dove chiesero protezione ai partigiani. Salirono così in montagna e mentre la madre, il padre e la sorella si impegnavano in diversi lavori per rendersi utili alla formazione, Giorgio dimostrò, in quella situazione, la sua precoce genialità nel campo della meccanica e della fisica (Weiller diventa molti anni dopo l’esperto scientifico dell’Unità nell’epoca degli Sputnik e dello sbarco sulla Luna). Weiller descrive in questo articolo come riuscì – con l’aiuto degli operai di una fabbrica che erano in contatto con i partigiani – a far funzionare una preziosa mitragliatrice che sembrava inservibile. I partigiani salvarono la famiglia Weiller facendoli sconfinare in Svizzera durante i terribili rastrellamenti dei nazifascisti. Tornato in Italia immediatamente dopo la Liberazione, il giovane Weiller portò con sé le prime immagini dei campi di concentramento consegnandole con orgoglio al vice presidente del Cln Luigi Longo.

 

Qualche giorno fa, ho rivisto alla Tv l’indimenticabile film con Alberto Sordi, Tutti a casa, nel quale con evidenza mirabile compaiono le vicissitudini di un giovane ufficiale dell’esercito che, dopo l’8 settembre, dopo che il comando militare aveva lanciato senza ordini né istruzioni l’intero esercito italiano, cerca di raggiungere, in abiti borghesi, la propria casa, nel basso Lazio. Il film si conclude con il protagonista che, arrivato a Napoli nel corso delle famose “quattro giornate” - nelle quali l’intera città insorse contro i tedeschi, e li cacciò prima che arrivasse la Quinta armata americana -, visto un partigiano che non riesce a piazzare una mitragliatrice, si mette al suo posto, monta l’arma sul suo treppiede, la carica e fa fuoco sui tedeschi. A quel punto, qualcosa è scattato nella mia memoria: io quell’arma “la conoscevo da vicino”, quell’arma “l’avevo fatta funzionare”, sapevo benissimo come fosse costruita. I ricordi hanno preso corpo nitidi e precisi. Ero partigiano a Campello Monti, in testa alla Valle Strona, vallata che si diparte dalla bassa Val d’Ossola e sale serpeggiando verso il Monte Rosa. Avevo compiuto da poco i diciott’anni; faceva abbastanza freddo, ma non c’era ancora neve; eravamo alla fine di ottobre del 1943. Nel riordinare le armi e le munizioni, in un unico deposito (la mia brigata, formatasi a Camasca, un gruppo di malghe site a nord di Quarna, si era portata a Campello, unendosi con la Brigata dei fratelli (Di Dio), vidi, ben sistemate una accanto all’altra, quattro mitragliatrici, i loro quattro treppiedi e un pacco di caricatori completi di bossoli. Chiesi al partigiano Sante, con cui stavo lavorando, come mai quattro armi di quella fatta giacessero in magazzino anziché essere in dotazione alle varie squadre. Mi rispose rivelando una buona competenza: come avrei saputo più tardi, all’8 settembre era in una formazione di fanteria. “Le mitraglie sono in ordine, e anche i treppiedi. Ma non abbiamo munizioni: soltanto sei o sette caricatori completi non servirebbero neanche per cominciare”. Specificò trattarsi di armi fabbricate dalla Breda, e me ne indicò il calibro: 8 millimetri. Aggiunse che il fucile mitragliatore “lungo” aveva un calibro piccolo, se non erro 6,35, come i “moschetti Balilla” realizzati dai fascisti per i ragazzi, appunto “i Balilla”; che i moschetti “modello 1898” in dotazione ai soldati italiani erano “calibro 7,5”; che i “mitra Beretta” erano “calibro 8”, e che il “ta-pum” tedesco ed un tipo di mitragliatrice in dotazione ai “territoriali” della Wehrmacht erano “calibro 7,92”. “Un casino”, commentò; “le munizioni del “ta-pum” si trovano dappertutto, ma di moschetti non ne abbiamo. I “colpi” del mitra sono “calibro otto”, ma sono troppo corti per la Breda. Domani ci portano un moschetto francese (uno solo), un Saint-Etienne, con tante munizioni, ma i suoi bossoli sono così larghi che non entrano nei caricatori di nessun’altra arma.” Ci pensai sopra, la sera stessa, e mi venne un’idea peregrina, che poteva balenare solo nella mente di chi sapeva poco. Un proiettile calibro 7,92 poteva forse essere “sparato” da una “canna” calibro 8 ma la Breda 8, progettata negli anni ’30 in Italia, non prevedeva certo l’utilizzo dei 7,92, realizzati trent’anni prima in Germania. Però… una lontana “speranza” c’era… e poi “provare non costava niente”. E così “ci provai”. La mattina dopo portai una “calibro 8”, poi il suo treppiede, e poi i caricatori “suoi” e un paio di pacchetti di bossoli da “ta-pum” nel punto più a sud della piazzetta del paese, che costituiva il nostro “poligono di tiro”: terminava con un breve avvallamento e presentava, a un centinaio di metri, un ripido costone roccioso. Il più maldestro dei tiratori in addestramento (addestramento che avremmo poi fatto con il “Saint-Etienne”, l’unica arma largamente munizionata di cui fossimo in possesso), anche sparando nella maniera più stramba dal nostro “poligono”, non avrebbe potuto far male a nessuno. Montai l’arma sul treppiede: impiegai più di mezz’ora per trovare il modo giusto per farlo, ma finalmente ci riuscii. Provai subito a sparare un paio dei “suoi” colpi. L’arma andava benissimo. Presi allora un caricatore e vi sistemai i bossoli del “ta-pum”. Caricai l’arma e premetti il grilletto. L’arma fece “clic”. Provai di nuovo: sempre “clic”. Cercai di capire perché: riuscii, sempre dopo un’ora di tentativi, a sollevare una sorta di copertura, incernierata a un estremo, capii come stavano le cose: il bossolo del “tapum” era più corto di quello della “calibro otto”, per cui, il relativo percussore, spinto dalla massa battente, non arrivava a colpire il detonatore del bossolo, sito nel relativo fondello. Vidi anche che il percussore era semplicemente “spinto” dalla massa battente, e “guidato” da una struttura fissa, ed era indipendente e facilmente estraibile. Era lungo un paio di centimetri, in acciaio brunito, sagomato in modo peculiare per tornitura, munito di punta conica. Mi venne, a questo punto, un’altra idea, anche questa “stramba” ma anche questa (forse) tale da poter essere sperimentata: se il percussore fosse stato “più lungo”, “forse” avrebbe colpito il detonatore del bossolo, e “forse” avrebbe sparato. Smontai il percussore, cercai di misurarlo, e di valutare la differenza di lunghezza tra un bossolo “8” e un bossolo “7,92”. Ma non avevo un calibro, avevo solo un righello; riuscii a stabilire soltanto che la differenza era di “circa” un centimetro. Un tentativo, comunque, si poteva fare. A Omegna operavano varie industrie meccaniche, entro le quali numerosi operai appoggiavano i partigiani in tutti i modi. Era forse possibile mi fabbricassero una “serie” di percussori, di lunghezze superiori a quella del percussore originale, “scalati” in lunghezza di millimetro in millimetro? Ne parlai con un partigiano della formazione, non più giovanissimo, originario di Omegna, che spesso operava “da staffetta” tra Campello e Omegna. Mi ascoltò e mi disse di dargli il campione e un disegno con le lunghezze che mi interessavano, tutte ben definite. Gli portai un’ora dopo campione e “disegno”. Mise tutto in tasca e disse laconicamente: “Vedremo”. “Vedremo”, in tre giorni si tramutò in una serie di percussori tra loro distinguibili solamente per la diversa lunghezza. Me li consegnò senza commenti. Andai di nuovo a prendere una “Breda-Otto”, il treppiede e tre caricatori, nei quali inserii i bossoli del “ta-pum”. Portai tutto nel nostro “poligono” e cominciai a “provare”. Con i tre percussori “più corti”, nessun risultato. Con il quarto, un colpo partì, ma i successivi no. Con il quinto partì una raffica regolare, e lo stesso avvenne con il sesto. Tornai dal partigiano omegnese, e gli consegnai il sesto percussore: “Va bene. Me ne servono otto pezzi eguali a questo”. Altro “Vedremo”, seguito di lì a due giorni dall’arrivo dei percussori “lunghi”. Chiamai Sante. Lavorammo dalla mattina alla sera, portando su e giù dal deposito tutte e quattro le “calibro otto”, e provandole montate su un unico treppiede “per far più presto”. Con i nuovi percussori “lunghi”, funzionavano tutte regolarmente. Stanchi morti, ma felici e anche eccitati, ci guardammo in faccia. “Bisogna andare al comando e parlarne”, disse Sante. “Le ‘mitraglie’ vanno bene, ma di caricatori ne abbiamo soltanto una decina. E i caricatori non si trovano ‘attorno a Omegna’ così facilmente come i colpi del ‘tapum’”. Al comando trovammo Di Dio senior: il capitano (Beltrami) era, come s’usava dire, “in missione”. Di Dio ci ascoltò, poi “Interessante”, ci disse tranquillissimo. “Vi mando cinque o sei uomini, e tra venti minuti voglio le quattro mitragliatrici pronte a far fuoco. Devo ‘convincermi’”. Così fu fatto. Le quattro armi funzionavano benissimo. Di Dio non fece commenti se non “rimettete via tutto; adesso occorrono i caricatori”. La mattina dopo, prima delle otto, partì per Omegna sul motociclo a tre ruote che usavamo sempre, ben vestito, sobrio ed elegante, come un professionista che vada a contattare un cliente. Mi vennero a chiamare due giorni dopo. Arrivai al comando. Sante c’era già. Di Dio, sempre tranquillo, ci indicò una grossa valigia: “È piena di caricatori, li ho trovati a Milano. Stasera tardi arriva un motocarro con i colpi del ‘ta-pum’” e ci porse un foglio. “Qui ci sono le istruzioni per assegnare ogni arma, un pacco di caricatori e le munizioni alle quattro squadre segnate. Fatevi firmare il foglio a consegne fatte e riportamelo”. La mattina dopo, “l’operazione Breda-Otto-ta-pum” era finita.

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“Dammi qua,faccio io”

 

Nel 1960 Luigi Comencini firma un capolavoro del cinema italiano prodotto insieme alla Francia: Tutti a casa. È la storia del sottotenente Alberto Innocenzi, interpretato da Alberto Sordi, che all’indomani dell’armistizio del 1943 viene investito dallo scoramento e la confusione dell’esercito allo sbando, subito dopo la disfatta. I soldati della truppa si danno alla fuga e alla fine lo stesso puntiglioso graduato deve dismettere la divisa e tentare il ritorno insieme a due commilitoni (nella foto a sinistra il ritorno di Sordi in compagnia di Serge Reggiani). L’odissea verso casa diventa un periglioso viaggio di formazione. Il protagonista trovandosi faccia a faccia con le atrocità e le ingiustizie, alle quali si oppongono i partigiani, è duramente colpito negli affetti e scopre dentro di sé il coraggio per abbracciare la mitragliatrice della foto a destra e combattere gli invasori nazifascisti. Tutti a casa, che vanta anche la presenza dello straordinario Eduardo De Filippo, racconta la grande guerra passando dal comico al drammatico e dal tragico all’eroico. Ecco allora che il soldato Alberto Innocenzi capisce finalmente il suo compito, e scostato l’indeciso compagno alla mitragliatrice, comincia a rispondere al fuoco nemico al grido di: “Non si può star sempre a guardare”.

Triangolo Rosso, luglio 2005

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