Triangolo rosso

L’eroica vita di Giovanni Pesce

L’emigrazione, la guerra di Spagna, Ventotene, i Gap e il dopoguerra

 

Un libro intervista di Giannantoni e Paolucci

 

Giovanni Pesce “Visone” è un personaggio che ormai appartiene alla storia del nostro paese. Medaglia d’oro al valor militare è stato uno dei protagonisti della Resistenza contro il fascismo. Le sue gesta eroiche negli anni della lotta di Liberazione sono state descritte in alcuni libri scritti dallo stesso Pesce e hanno insegnato soprattutto ai giovani che cosa significa, in un momento drammatico, lottare per la libertà del proprio paese rischiando ad ogni istante. Franco Giannantoni e Ibio Paolucci hanno ora raccolto in un volume dal titolo Giovanni Pesce “Visone” un comunista che ha fatto l’Italia (edizioni Arterigere – EsseZeta, euro 14) una ampia intervista con questo eroe della Resistenza. Un libro che ci fa conoscere non solo l’attività di Pesce durante gli anni dell’occupazione nazifascista, ma anche la sua vita negli anni che vanno dall’infanzia in Francia, alla guerra di Spagna, al confino a Ventotene e, dopo la Liberazione, al suo continuo impegno nella vita democratica del nostro Paese, che lo hanno visto a fianco di famosi dirigenti politici, come Togliattti, Longo e Secchia. Un impegno che per l’ultra ottantenne, Giovanni Pesce non è mai venuto meno. Pubblichiamo in questo numero del Triangolo Rosso, alcune pagine del libro di Giannantoni e Paolucci che riguardano alcuni momenti della vita di Pesce al confino di Ventotene.

 

Che ricordo ha di quell’isola-prigione?

Come scrisse Camilla Ravera, Ventotene era una specie di “ciabatta in mare”, una striscia di terra di poco più di due chilometri e mezzo di lunghezza, larga non più di 900 metri, piatta, con una sola altura, se si può dire così, che si chiamava Punta dell’Arco, e con la costa ricca di spiaggette, caverne, strapiombi. L’estate era molto calda, d’inverno soffiava sempre il vento. La flora era tipicamente mediterranea con ulivi, gelsi, fichi d’India (che spelavo con grande fatica mentre gli altri me li rubavano e li mangiavano!), agave, robinia e fiori di ogni colore, forti, belli. Il punto di ritrovo per noi era piazza Castello, un semplice spiazzo con la terra battuta. Castello era un forte borbonico. Attorno c’erano tante palazzine abitate dai cittadini più influenti. C’era qualche piccolo negozio e anche una farmacia. Poco più oltre si trovava la

piazzetta della posta, via dei Granili, una stradina tortuosa verso la chiesa di Santa Candida, la parrocchia del paese. Le strade erano due, il resto tratturi: via degli Ulivi diretta verso sud, verso la campagna e via Calanave, parallela. Qui sorgevano le piccole case degli isolani, tutte a un piano, il tetto bianco di calce ma in qualche caso anche di colori tenui. Ai confinati non era permesso di percorrere tutta l’isola. C’erano degli sbarramenti a reticolato e delle garitte che chiudevano il passaggio da via degli Ulivi a via Calanave né si poteva raggiungere la zona portuale e quella delle spiagge. Ventotene, questa Ventotene, è stata la mia casa per tre anni di cui ho un ricordo struggente malgrado la sua asprezza. Lì, a contatto coi miei compagni, sono diventato un vero uomo. Sono ritornato una sola volta, nel 1994, quando il sindaco e la giunta comunale hanno conferito a me, ad Anello Poma, combattente di Spagna e a Vivaldo Salsi, comandante gappista di Reggio Emilia, i tre unici sopravvissuti, la cittadinanza onoraria. Fu un colpo al cuore, un tuffo nel passato anche se ora tutto è cambiato, le baracche abbattute, l’equilibrio naturale notevolmente deturpato.

Quale fu il primo impatto con la comunità dei confinati?

Emozionante e non poteva essere diversamente. Ero infatti il più giovane di tutti. La popolazione confinaria oscillava fra gli 850 e i 900 elementi. La metà era comunista. Giorno dopo giorno ebbi modo di incontrare gli uomini che avevano fatto la storia dell’antifascismo militante, i dirigenti dei partiti clandestini, comunisti, socialisti, azionisti, repubblicani, anarchici, volti sconosciuti, nomi che avevo solo sentito mormorare. Per un gruppo di loro, esattamente dodici, era stato previsto un pedinamento continuo. Erano giudicati i più pericolosi e, quando camminavano, erano seguiti come un’ombra dalla milizia. Si trattava dei comunisti Umberto Terracini, Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro; dei “giellisti” Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Francesco Fancello, Vincenzo Calace, Nello Traquandi, Dino Roberto (questi nel 1947 contribuì, con il proprio deciso intervento, a sbloccare la mia pratica per la concessione della Medaglia d’oro al valor militare, proposta l’anno prima dal Pci); del socialista Sandro Pertini e dell’anarchico Giobatta Domaschi. C’erano, fra i confinati, anche degli antifascisti generici e, su un altro versante, una minoranza politica mista, i testimoni di Geova, alcuni ras e notabili abissini catturati al tempo dell’invasione dell’Etiopia e un gruppetto di albanesi di cui alcuni avevano frequentato anni prima il corso allievi ufficiali di Torino, erano fuggiti, avevano combattuto in Spagna, poi al rientro in Italia, erano stati arrestati e buttati qui. Gente simpatica che rividi quando Giancarlo Pajetta nel 1950 volle che partecipassi a Tirana alla Festa dell’Amicizia fra i popoli e l’Unione Sovietica. Uno fra questi, Mehmet Shehu, era diventato addirittura capo del governo! Infine c’erano quelli che noi politici chiamavamo “manciuriani”, i delinquenti comuni. Le donne confinate erano una decina, figure splendide come la Camilla Ravera, l’Adele Bei, quarantenne marchigiana, comunista, le sorelle Baroncini.

Come trascorreva la giornata?

Alle prime luci dell’alba c’era la sveglia. Ci veniva portato in baracca il caffé, una brodaglia nerastra e un po’ di latte ma veramente poco. Dalle otto a mezzogiorno, con qualsiasi tempo, sole o pioggia, vento o burrasca, non si faceva altro che passeggiare in su e in giù, non più di due alla volta, perché in tre era giudicata una sorta di radunata sediziosa. L’impressione, quando si muovevano tutti, era quella di un enorme formicaio. Uomini di idiomi e costumi diversi, malandati, peggio vestiti, con le barbe lunghe e i capelli spesso in disordine. Si camminava e si parlava. Poi si cambiava il compagno e in questo modo la notizia, se c’era, circolava, diventava patrimonio collettivo. Non avevamo altro mezzo per evitare il controllo della polizia. Il pranzo e la cena venivano consumate alla mensa. Noi comunisti avevamo la nostra, anzi le nostre, perché eravamo ben organizzati e ne gestivamo sette in via dei Granili, oltre a far funzionare una lavanderia e a avere un piccolo podere con qualche mucca e dei polli. Tenuto conto della situazione si mangiava discretamente e in modo sufficiente. Il pasto era soprattutto a base di pastasciutta. La domenica o alle feste, non sempre, c’era il dolce. Il cibo lo comperavamo noi, anche a me capitò spesse volte di andare a fare la spesa nei negozietti del paese. Il fascismo dava a ogni confinato cinque lire. Ogni confinato comunista ne girava quattro al nostro comitato direttivo, il nucleo dirigente, formato da Pietro Secchia, Battista Santhià, Girolamo Li Causi, Antonio Cicalini e Giordano Pratolongo che si preoccupava, fra le tante altre faccende, di far quadrare i conti della cassa per la mensa. Chi riceveva del denaro dalla propria famiglia, ne versava spontaneamente una buona parte alla cassa comune. Mia madre ogni tanto mi mandava un vaglia postale attraverso la zia Ernestina di Bassano del Grappa. Erano dei bei soldi, spesso trecento lire. Il 70% finiva per le spese collettive. La mamma in qualche lettera mi sgridava in modo bonario perché dicevo di avere sempre il borsellino vuoto. “Ma cosa ti lamenti a fare, se mangi gratis e per giunta non lavori!”, commentava. L’ultimo inverno, ricordo, fu molto duro, perché il traghetto postale “Santa Lucia” venne usato anche per missioni militari per cui i collegamenti con l’isola diminuirono e i rifornimenti tardarono ad arrivare. Questo imprevisto ebbe un’influenza assai negativa per tutti noi. Quando arrivava la bella stagione si faceva il bagno ma non è che si potesse andare dove si voleva. La nostra zona era quella di Cala Rossano tra due scogliere, ben controllata dal tiro dei fucili spianati dei carabinieri. Comunque erano ore serene in un’acqua splendida e su una sabbia finissima e scura.

Si poteva lavorare?

Certo e molti si ingegnarono per farlo. Pietro Secchia che aveva studiato sino al ginnasio prima di impiegarsi in attività saltuarie, capo indiscusso della gioventù comunista, un duro e anche un po’ un solitario, cominciò a dipingere, cosa che faceva bene, paesaggi marini e scene di pesca sulle conchiglie che a Ventotene non mancavano. Lo faceva in un localino sulla gradinata fra piazza Castello e via Calamare. In un secondo momento, siccome quei temi erano poco apprezzati e il ricavato era modesto pensò, e fece benissimo, di cambiare soggetto, dipingendo sulle conchiglie volti di Madonna e di santi, che ebbero invece un grosso successo. Giuseppe Di Vittorio, bracciante, pugliese, deputato nel ‘21 e nel ‘24 coi socialisti e poi coi comunisti, fece il contadino. Prese in affitto due ettari e mezzo di terra a Calamare Superiore e in compagnia di altri confinati con vanghe e zappe (a Ventotene non c’erano infatti né il cavallo né il bue, dunque neppure l’aratro) si mise a lavorare la terra, coltivando lenticchie, fave, piselli, carciofi, verdura, grano. Nella stalla Secchia aveva anche due mucche da latte e il latte era soprattutto destinato ai compagni ammalati di tubercolosi. Il profitto dei campi credo fosse piuttosto modesto perché il clima certo non favoriva i raccolti. Brillava spesso il sole ma non mancavano il forte vento e la tempesta e allora erano guai. Ho però avuto sempre un dubbio e cioè che Di Vittorio che era anche un fine politico coltivasse anche i rapporti con il mondo esterno, sfruttando la libertà di movimento di cui godeva. Altri compagni organizzarono un’attività in proprio, impagliando sedie, lavorando il legno per ricavare utensili da cucina, bastoni. Altri si impiegarono come aiutanti nei vari negozi. Altiero Spinelli, 32 anni, dieci anni già trascorsi in carcere e al confino, uscito dal Pci, aderente a “Giustizia e Libertà”, autore con Ernesto Rossi nell’inverno 1940-41 del Manifesto sull’Europa libera ed unita, d’accordo con Giuseppe Pianezza, un anziano decoratore, piemontese, pluricondannato per attività comunista, aprì in via degli Ulivi una bottega dove si aggiustavano orologi e si lavorava il ferro. Alle spalle del locale, Spinelli con Eugenio Colorni, un ebreo milanese di ricca famiglia, studioso di Freud, lettore a Marburg, allevarono polli e conigli. Ma i due non si accontentarono di questo e coltivarono, in due campi affittati, pomodori, fagioli e patate. Colorni ed Eugenio Curiel furono certamente fra le personalità culturali più elevate di quello spicchio di mondo che era il concentramento confinario. Siccome la moglie di Colorni, Ursula Hirschmann, una giovane ebrea berlinese, iscritta alla gioventù operaia socialista, non era sottoposta al regime del confine, poté raggiungere il marito assieme alla piccola figlia e vivere con lui. Abitavano in una casetta di via delle Rose con vista che dava su piazza Castello, il cuore di Ventotene. Lei, ricordo, era in attesa di un’altra figlia ma la straordinaria bellezza per cui era molto ammirata non ne soffriva. Di lei si innamorerà, come è noto, Altiero Spinelli che da lei avrà tre figlie. Colorni un bel giorno fu chiamato in direzione dal commissario Guida che gli notificò il trasferimento al confino di Melfi in Basilicata. Se ne andava un grande uomo che non avrei più rivisto. Quanti i ricordi anche se non tutti sono chiari: nel laboratorio del tornitore torinese Gustavo Comollo, comunista, si riparavano oggetti di ferro; un altro confinato, di cui mi sfugge il nome, vendeva carne equina; Umberto Terracini ogni mattina passava ad aiutare Battista Santhià nell’allevamento di polli di cui era socio; il giovane comunista romano Pietro Grifone impartiva lezioni di italiano e latino in cambio di cibo; l’anarchico Alfonso Failla faceva il barbiere.

Si è sostenuto da più parti che Ventotene sia stata per molti confinati una sorta di università proletaria? Fu così anche per lei?

Ventotene rappresentò per me un’esperienza molto significativa che poi misi a frutto nella guerra di Liberazione. Fu infatti un’occasione speciale di studio e di crescita culturale. Se non avessi avuto quell’opportunità, sarei rimasto sempre quello di prima, un buon minatore ma una persona ignorante. Ventotene servì ad aprirmi gli occhi, a farmi conoscere la realtà del mio Paese, ad apprezzare l’amicizia e la solidarietà dei tanti compagni. Certo mancava la cosa più importante. Non eravamo liberi. Imparai, passo dopo passo, la lingua italiana che conoscevo pochissimo e in quell’occasione maneggiai per la prima volta una grammatica. I miei “maestri” furono Arturo Colombi e Giovanni Brambilla, il primo futuro dirigente di primo piano del Pci, membro della direzione del partito, animatore della Resistenza nel nord, che rividi a Torino nell’autunno del 1943 ai primi passi coi Gap; il secondo un dirigente comunista milanese, bravo ma un po’ noioso per la sua pedanteria, paziente educatore, un ortodosso al 100%, che mi fu indicato da Curiel. Eugenio Curiel, dal bagaglio culturale straordinario data l’età giovanissima, caduto per mano fascista il 24 febbraio 1945 a Milano alla testa del “Fronte della Gioventù”, quando venne a sapere che avevo combattuto in Spagna volle incontrarmi e parlarmi. Seppe da me ogni particolare, la politica militare delle Brigate Internazionali, la storia della brigata “Garibaldi”, la tecnica delle battaglie, lo scontro fra italiani e italiani a Guadalajara, la lunga e logorante guerriglia sull’Ebro, la ritirata. Volle capire il perché della politica del “non intervento” da parte di Francia e Inghilterra e della linea seguita dall’Unione Sovietica. Furono diversi colloqui molto intensi a cui io non sempre ero stato capace di dare risposte adeguate. Con i rudimenti della lingua italiana, appresi anche le nozioni di storia politica, sociale ed economica. Anche qualche pagina di letteratura. Dante, Petrarca, Machiavelli, Galilei, Manzoni, Leopardi: chi li conosceva prima di Ventotene? Quelli che mi aiutarono a crescere in quegli oltre mille giorni di confino nell’isola, furono compagni meravigliosi. Capirono i miei limiti, mi presero per mano e mi guidarono lungo percorsi altrimenti inaccessibili. Divenni una persona consapevole. Imparai ad amare l’Italia, il Paese che dovevamo liberare da una tirannia. Come non pensare a tutti loro, punti di riferimento della mia vita di militante? E come non andare alla storia del Pci e al suo ruolo in quegli anni? Per noi era sempre nel giusto, non poteva sbagliare. Il partito, come si diceva allora, aveva sempre ragione.

Quali furono i suoi rapporti con Luigi Longo, Pietro Secchia, Giuseppe Di Vittorio?

Erano per noi comunisti fra i personaggi più popolari, il primo per il passato di comandante in Spagna, gli altri per il loro grande rigore politico. Li vedevo spesso e li salutavo, da compagno a compagno. Non partecipavo però alle loro discussioni politiche perché non ero alla loro altezza. Semmai se qualcosa mi giungeva all’orecchio era per quello che mi dicevano, a seconda dei casi, Alberganti e Colombi. Ottimo fu il rapporto con Di Vittorio. Ricordo che finito il pranzo o la cena mi avvicinava e mi dava sempre qualcosa da mangiare, dicendo mentre sorrideva: “te bocia, mangia”, “te bocia, mangia”.

Chi le fu più vicino nella sua crescita politico-culturale?

Certamente Umberto Terracini e Arturo Colombi, questo nelle primissime giornate. Mi aiutarono anche Giuseppe Petracchi e Giuseppe Banchieri, un ottimo compagno di Treviso che fungeva da collegamento fra noi. L’attività principale era dedicata alla formazione politica per portare i compagni, soprattutto quelli come me digiuni di tutto, a un accettabile livello. La Ravera era occupata soprattutto a fare lezioni di cultura generale; Scoccimarro di economia ma a me la cosa interessava poco; Longo, Luigi Frausin, un operaio intelligentissimo di Trieste, poi ucciso nella Risiera di San Sabba dai nazisti e Banchieri di politica; Secchia e Curiel di politica estera. Non mancarono nozioni sulla guerriglia prendendo esempio da quella combattuta in Spagna al tempo di Napoleone, a quella partigiana in Jugoslavia, a quella per bande in Unione Sovietica. Nozioni che ci sarebbero tornate utili nella Resistenza. Leggevamo anche i libri di una nostra piccola biblioteca clandestina. Il divieto era assoluto ma noi riuscivamo a far circolare i volumi mascherando l’intestazione in modo da non destare sospetti, mettendo, ad esempio, al posto della copertina del Manifesto Comunista quella dei Tre Moschettieri e così via. Non mancava neppure una modesta attività musicale. Fisarmoniche, violini, chitarre, contribuivano a rallegrarci e a far trascorrere il tempo quando non passava. C’era persino un’orchestrina comunista formata da tre mandolini e due chitarre, accompagnati dal suono del violino di un eccellente Umberto Terracini.

Triangolo Rosso, luglio 2005

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