Triangolo rosso

È MORTA A 91 ANNI LA SUORA CHE RISCHIÒ LA VITA PER SALVARE DECINE E DECINE DI PERSEGUITATI PER LE LEGGI RAZZIALI

Ricordo di Madre Lina Manni, l’angelo della Shoah per gli ebrei in fuga verso la Svizzera

 

di Franco Giannantoni

 

Madre Lina Manni, quando l’occupazione nazifascista fra l’autunno del ‘43 e la primavera del ‘45 strinse in una morsa d’acciaio il Varesotto, aveva poco più di trent’anni. Era giunta a Varese da Colico nell’alto lago di Como nel 1937 per mettersi al servizio della “Casa san Giuseppe” o come più comunemente era chiamata “Casa famiglia”, un istituto religioso d’accoglienza per le ragazze lavoratrici, fondata da monsignor Carlo Sonzini, un sacerdote votato alla carità, dal profilo antifascista, direttore del periodico Luce, di cui è in corso da anni la causa di beatificazione.

“Un po’ di cielo può esserci anche in terra”

Suor Lina Manni, dal 1952 al 1982 madre generale della congregazione delle Ancelle di san Giuseppe, è morta lo scorso 29 gennaio a Viggiù presso Varese all’età di 91 anni. Nella tempesta della guerra svolse un’intensa e coraggiosa attività a favore dei perseguitati, ebrei e giovani sbandati che per diverse ragioni avevano bussato alla porta dell’Istituto, che sorgeva in via Griffi, in pieno centro della città, per ricevere soccorso. I funerali nella basilica di san Vittore sono stati seguiti da centinaia di persone, da molte religiose, da molti parroci di montagna, e anche da alcuni parenti dei beneficiati. Il vescovo episcopale, monsignor Luigi Stucchi, nell’omelia ha ricordato espressamente l’aiuto dato dalla suora alla comunità ebraica. Si è trattato di un tributo dovuto e giusto. “Un po’ di cielo - ha detto il giovane vescovo - può esserci anche in terra se siamo aperti all’amore di Dio”. Il riferimento era alla suora scomparsa.

Un punto di riferimento nel disperato cammino per la salvezza

Gli ebrei avevano fatto di Varese un punto di riferimento fondamentale nel loro disperato cammino verso la salvezza: poco lontano dal capoluogo fra Luino, Ponte Tresa, Porto Ceresio, fra il lago e il Tresa e la corona delle montagne non particolarmente aspre, correva la linea di confine, non sempre controllata dalle armi dei tedeschi che l’avevano posto sotto il loro controllo, senza colpo ferire, tra il 16 ed il 29 settembre 1943. Prima di programmare il viaggio, una volta presi i contatti con i “passatori”, i contrabbandieri o gli “spalloni” incaricati, dietro un lauto compenso, di accompagnarli lungo la pista stabilita, era indispensabile trovare un luogo in cui trascorrere la vigilia che poteva durare anche qualche giorno al riparo delle ronde nazifasciste che battevano con frequenza quotidiana le grandi strade di collegamento verso la frontiera. Varese era diventata una grande trappola disseminata da numerosi presidi militari. Gli spazi di movimento erano ridotti al minimo. Il registro-matricola del carcere dei Miogni di Varese fa fede dei numerosi arresti degli ebrei, singoli o interi nuclei familiari, giunti da ogni parte del Paese, “traditi” dai loro accompagnatori ad un passo dalla libertà o individuati durante le faticose e disperate marce di avvicinamento al confine. Madre Lina Manni in questo complesso gioco poliziesco, dove la morte o il rischio della cattura erano sempre in agguato, ebbe un ruolo fondamentale. Accolse per lunghi giorni gli ospiti ebrei, ne favorì il recupero fisico e morale, li nutrì, infuse loro speranza, ne programmò la fuga, li dotò - elemento indispensabile - della documentazione “ariana” necessaria per percorrere, al riparo da eventuali controlli polizieschi, la distanza tra Varese e il confine utilizzando i “canali” dell’Oscar (Organizzazione cattolica soccorso antifascisti ricercati) messo in piedi da una schiera di sacerdoti antifascisti come don Aurelio Giussani, don Natale Motta, don Franco Rimoldi, don Andrea Ghetti e quelli di Calogero Marrone, il capo dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese che, tradito, sarà arrestato e morirà a Dachau.

Le sue strategie permettevano di allontanarsi agli ebrei detenuti

Ma questa indomita religiosa, testimone di grandi virtù, fece molto di più. Quando le autorità nazifasciste di Varese, a causa del sovraffollamento del carcere dei Miogni e delle “cantine-prigioni” di Villa Concordia, sede del comando doganale tedesco, avevano deciso di affidare i prigionieri-ebrei alla “Casa san Giuseppe” (e/o Casa famiglia) con l’ordine tassativo di impedirne ogni movimento, madre Lina mise in atto una serie di strategie che permise a molti detenuti di allontanarsi indisturbati, guadagnando la libertà. La religiosa non fu mai sospettata di nulla; non così il suo superiore monsignor Carlo Sonzini, fondatore della “Casa san Giuseppe”, tratto davanti ai giudici del Tribunale provinciale straordinario di Varese anche per la sua attività giornalistica su Luce, che faceva trasparire nel limite del possibile la sua avversione per il regime. Monsignor Sonzini fu salvato per l’intervento del cardinale Ildefonso Schuster che lo “confinò” in un Istituto di Cesano Boscone, sottraendolo ad un possibile arresto. Ebbi la fortuna di incontrare madre Lina Manni il 24 giugno 1982 nella sede di via Walder a Varese da poco in pensione. Avevo la necessità di comparare la freddezza della documentazione fascista di cui ero in possesso e che si riferiva alla persecuzione antisemita con una fonte testimoniale di prima mano. Avevo bisogno che una persona facesse parlare quei fogli di carta. Madre Manni non si fece pregare e ripercorse in un lungo colloquio la stagione feroce dell’occupazione tedesca e del governo della Rsi. Emerse un volto in parte sconosciuto della città e dei suoi caporioni, di “Casa san Giuseppe” ridotta in parte in un carcere, dei tedeschi che spesso piombavano in piena notte per controllare la situazione o per rilevare alcuni prigionieri, intere famiglie, genitori, figli. Scorrevano fra le parole di madre Manni le immagini degli sfortunati “ospiti” e le storie rocambolesche di alcune fughe con la soldataglia nazifascista alle spalle pronta a entrare in azione. Margherita Sonnino in stato di detenzione, “scomparve” un bel giorno all’improvviso: in realtà suor Lina aveva preparato la sua fuga, perfettamente riuscita. Così per le sorelle Schwartz con due piccoli figli, così per la famiglia di Laura ed Amilcare Tedeschi strappata al controllo nazifascista con la simulazione di un assalto di un commando di partigiani all’Istituto di monsignor Sonzini e fatta riparare in casa di don Ernesto Pisoni ad Arconte sino a finire al salvataggio in extremis di due ragazzi di 12 e di 14 anni del gruppo di “Villa Emma” di Nontantola che non erano riusciti, a differenza di altri compagni, a superare il Tresa ed erano stati arrestati.

Il rischio per salvare la famiglia milanese dei Balcone

Se si può fissare in questo enorme dramma umano una graduatoria di rischio corso e di risultato ottenuto, la vicenda della famiglia milanese dei Balcone ebbe un posto del tutto speciale. Madre Manni l’aveva viva nella memoria e me la riferì al punto che più tardi sull’onda di quel colloquio potei riannodare i fili con i sopravvissuti di quella avventura, emigrati in Australia per prendere il più possibile, tanto era il terrore che la storia si ripetesse, le distanze dall’Europa. I Balcone dopo aver contrattato a Milano la cifra da sborsare con i delegati dei “passatori” luinesi, il 10 dicembre 1943 lasciarono Oronco di Varese dove erano sfollati dirigendosi in tram sino a Luino. Il giorno successivo avrebbero raggiunto dal monte Lema il confine. Il gruppo era formato da Angelo Balcone, il capofamiglia, ariano, la moglie Edvige Epstein, ebrea austriaca, Gabriele Balcone il figlio di 4 anni, ebreo-misto, Luisa Schlesinger, amica di famiglia, affetta da leggera zoppia, ebrea austriaca. Avevano trascorso la notte all’albergo “Impero” di Germignaga ed erano stati traditi dall’albergatore. Interrogati dai fascisti e poi dai tedeschi furono trasferiti in catene a “Casa san Giuseppe” perché le carceri erano zeppe. Mentre per i coniugi Balcone e per la signorina Schlensiger non fu possibile alcun intervento protettivo (ad Angelo Balcone dopo qualche mese fu riconosciuta la condizione di ariano e fu liberato; la Epstein fece il giro dei campi da Auschwitz a Theresientstad e si salvò; la Schelensiger fu gassata all’arrivo a Birkenau) per il piccolo Gabriele Balcone madre Manni studiò un piano geniale di salvataggio. Fu inventato sui due piedi un attacco di appendicite, il bambino fu trasportato d’urgenza all’ospedale di Circolo di Varese da un gruppo di studenti universitari della Fuci (la Federazione che raccoglieva gli studenti cattolici), il primario dottor Ambrogio Tenconi si prestò al gioco fingendo di sottoporre Gabriele all’intervento chirurgico, poi gli stessi studenti riportarono Gabriele in casa di don Natale Motta, a due passi dalla Caserma “Muti” della Gnr di Varese da dove prese il volo in direzione della vicina Brianza. Oggi Gabriele vive a Melbourne dove fa il fotografo. Passata la tempesta dell’inchiesta di polizia che non arrivò ad alcun risultato, madre Manni tornò in trincea. La caccia antisemita non si era allentata, il 1944 fu segnato dal decreto della “zona chiusa” che cinse in una grande trappola la zona del confine per cui far “scivolare” ebrei in Canton Ticino fu molto difficile. Ma qualcosa riuscì e “Casa san Giuseppe” continuò a rappresentare un’isola felice dove affidare le proprie speranze di salvezza. Così per i vecchi ammalati che con ferocia disumana i nazifascisti, dal marzo del ‘44, rastrellarono negli ospedali e nelle cliniche per avviarli nei campi di sterminio. Madre Manni ebbe parole commoventi anche per quella pagina terribile e per qualche estremo salvataggio come quello di due mature signore polacche che stavano per essere sorprese nella casa di cura “La Quiete” di Varese e fecero in tempo a trovar asilo nell’Istituto di monsignor Sonzini in via Griffi.

Triangolo Rosso, aprile 2005

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