Triangolo rosso

Le lettere del criminale nazista dal suo rifugio in Brasile pubblicate da un giornale israeliano

La Provvidenza e il dottor Mengele

 

di Oreste Pivetta

 

A chi gli chiedeva se non si sentisse tra i salvati dalla Provvidenza, Primo Levi rispondeva con un’altra domanda: quanti ne ha mandati a morire nei campi di sterminio la Provvidenza? Mi è capitato di leggerlo in un libro non molto recente ma appena ristampato da Einaudi, un dialogo tra il fisico Tullio Regge e lo stesso Levi: Levi sta un po’ in disparte ma dice cose molto preziose e pedagogiche (penso ad esempio alle due paginette sul rapporto tra la chimica e la scrittura, sull’arricchimento di precisione e di concretezza che deriva alla seconda dalla prima o sul valore della pazienza o dell’attesa), Regge racconta le sue storie tra le inclinazioni giovanili, gli studi superiori, la ricerca, avvicinandoci a personaggi davvero straordinari, Oppenheimer, de Broglie, Andrè Weil (fratello di Simone), Heinsemberg, Pauli, indirettamente anche Einstein (che morì nel 1955, quando Regge aveva 24 anni), grandi scienziati animati dalla curiosità di risalire all’origine e ai meccanismi dell’universo, cioè della vita, sapendo di fronte all’infinità che non sarebbero mai arrivati al primo mattone. Come se qualcuno, laico, cercasse di dare un contorno materiale o, almeno, matematico alla Provvidenza. Nel “Dialogo” (è anche il titolo del libro einaudiano) Levi accenna appena alla sofferenza della sua deportazione e della sua salvezza: ne stava scrivendo altrove (nei Sommersi e salvati, pubblicato un anno prima della sua morte, avvenuta nel 1987), anche quel riferimento alla Provvidenza non era nuovo. Ne aveva scritto in Se questo è un uomo: «Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza». Conversando con Regge, a Levi preme soprattutto l’interrogativo dello scienziato, del fisico, che riguarda il primo mattone, l’origine. Se non ci si arrampica sulle scale della trascendenza, è solo una storia della scienza moderna e contemporanea, delle sue evoluzioni alla scoperta dello spazio percorso da particelle così piccole come non riusciamo a immaginare in moto lungo tragitti misteriosi (le undici dimensioni dello spazio, che indica Regge contro le tre che noi percepiamo). Mentre leggevo Regge e Levi, mi vedevo accanto le “lettere segrete” di Mengele, pubblicate da un giornale israeliano, Yediot Ahronot. Un caso ovviamente, che mi obbligava alla banale constatazione che anche il dottor Mengele si poteva considerare tra i “salvati” della divina Provvidenza (oltre che di qualche compiacenza “alleata”) e a una domanda un po’meno banale: perché mai il dottor Mengele, lo scienziato Mengele? Mi sono ricordato anche di un romanzo, di uno scrittore tedesco che vive in Italia, Peter Schneider. Racconta di un figlio alla ricerca del padre, nascosto nella giungla amazzonica. Il padre è appunto il dottor morte. Il romanzo fantastica di un viaggio nell’oscurità della foresta per tentare di immaginare appunto il rapporto di un figlio, cosciente e critico, con un padre assassino, qualche cosa di più un mostro, che ritrova dopo un lungo silenzio. Il romanzo, pubblicato da e/o, ha un titolo semplice, Papà, ed è un titolo agghiacciante: nella sua apparente normalità suona in armonia con lettere di Yediot Ahronot, normali lettere di un signore senza storia. Mengele definisce la sua vita in Brasile “dolce e quieta”, cullata tra quotidiane abitudini: andare alla posta, attendere il giardiniere, pagare le bollette, raccogliere i lamponi per il dessert, scendere alla pasticceria tedesca per mangiare lo strudel, persino cercare una nuova cameriera “non troppo bella, non troppo precisa”, oppure inseguire come un esemplare colletto bianco il posto fisso e una piccola carriera. Un’altra volta compare un agnostico interrogativo sulla rielezione di Willy Brandt, un’altra ancora una disapprovazione per i giovani tedeschi che avrebbero perso la passione “che aveva la mia generazione”. In una lettera, Mengele accusa gli ebrei di essere diventati padroni dell’America attraverso la psicoanalisi, controllando i grandi media, producendo film. Come se stesse pensando a Woody Allen. Ma è solo un cenno, il cenno di un signore poco dotato, di scarse letture, che trascrive alcuni pregiudizi. Altrove si giunge al razzismo, non a una definizione, ma ad una constatazione: “Comunque esistono differenze di razza: lo si può notare dalle variazioni nel modo di mangiare o preparare il cibo, e dalla diversità di temperamento (ciò che i negri promettono, i biondi fanno)...”. Lo scrive Josef Mengele, come chiunque potrebbe raccontarlo in un bar nell’interminabile contesa tra settentrionali e terroni, che non è solo un vizio antropologico o un ritardo culturale, dal momento che ha dato vita a un partito. È ovvio che non si paragonano milioni di morti con alcuni infami manifesti (e con alcuni slogan gridati da qualche tribuna politica). Però vale sempre l’esempio del muro e degli invasori: basta una breccia perché entrino tutti. Senza la memoria, si aprirebbe la porta e si correrebbe il rischio di tollerare e assolvere anche Mengele: in fondo sono solo ovvietà. Ad esempio: “Chi non si accontenta delle differenze fisiche, del colore della pelle o della forma del naso, per notare le differenze fra un uomo bianco e un negro africano magrolino o un religioso cinese o un orientale, può usare come misura la cultura di cui le persone fanno parte...”. Si corre sopra. Come se Mengele dicesse: sono cose di poco conto. Non fu così, perché nei campi di sterminio si tentò di stabilire per altre vie, dolorose fino alla morte, le differenze genetiche tra le razze. Mengele “studiava” i gemelli ad Auschwitz: il suo obiettivo, per il quale ebbe un incarico ufficiale, era di individuare un metodo che permettesse alle donne tedesche di concepire più feti durante la gravidanza. Per la supremazia della razza. I gemelli capitati nei campi di Mengele venivano sottoposti a misurazioni e a test clinici (ad esempio le punture negli occhi per modificarne il colore in azzurro), poi venivano uccisi con una iniezione di cloroformio nel cuore, i cadaveri venivano sezionati. I resti venivano spediti in alcune cliniche tedesche. Mengele allo stesso modo “studiava” il nanismo. I suoi “studi” si concludevano sempre uccidendo. Mengele ha conosciuto il destino di diventare famoso, un incubo famoso. Gli hanno dedicato pure un film: Mengele lo impersonava Gregory Peck, alla sua caccia era Lawrence Olivier. Ma non era da solo. Nel 1946, a Norimberga, venne celebrato il cosiddetto “Processo ai medici”. Sette vennero condannati a morte e giustiziati, nove furono condannati a vari anni di carcere, altri furono assolti. Altri ancora riuscirono a fuggire. Anche questi numeri sono modesti rispetto alla realtà. I primi esperimenti nazisti non si svolsero nei campi di concentramento durante la guerra, ma molto indietro negli anni, appena il partito di Hitler salì al potere. La legge per la prevenzione delle malattie ereditarie fu approvata il 14 luglio del 1933. Dal ’33 al ‘39 furono chirurgicamente sterilizzati duecentomila tedeschi. La sterilizzazione di tedeschi malati o di zingari o di ebrei divenne un’ossessione: inventarono di tutto per giungere a una pratica di massa... Si ricorda il “programma bancone”: la vittima doveva presentarsi ad un ufficio, fermarsi davanti a una scrivania a una certa altezza e lì compilare un complicato modulo, durante quei minuti senza saperlo veniva esposto a un bombardamento di raggi X. I responsabili nazisti però ritennero il metodo troppo laborioso, ordinarono altre sperimentazioni. Vi era libertà di sperimentazione, chiunque avesse un grado e si trovasse a comandare un ufficio medico in un campo di concentramento poteva permetterselo. Mengele era uno di quei numerosi scienziati, con la vocazione a tagliare a pezzi, iniettare, esporre al gelo e al caldo, catalogare, tutti autorizzati, parti di un sistema dinamico, attivo. Niente compare nelle letterine di Mengele, non una domanda, figuriamoci un pentimento. Si lamenta se dorme poco la notte. Scrive: “Atmosfera e umore pessimo. Spesso penso di vivere una vita parallela, una seconda realtà”. Solo questo. La morte, nel 1979, annegando nell’oceano: la sua identificazione non cancellò mai tutti i dubbi. Non pagò i suoi delitti. In fondo era la particella di un’organizzazione. La sistematicità di fronte all’individualità dell’adesione. Che cosa colpisce di più? Manca sempre qualcosa alla comprensione. La Provvidenza non aiuta.

Triangolo Rosso, aprile 2005

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