Triangolo rosso

I DRAMMATICI RICORDI DI GIOVANNI GULIC, DEPORTATO NUMERO 141451 A DACHAU

“Una botta in testa per finirmi. Poi mi buttarono vivo tra i cadaveri dei deportati”

 

di Giovanni Gulic

 

Anche le date e le commemorazioni fanno il doppio gioco della memoria e dei sentimenti! Ancora oggi, a più di sessant’anni di distanza, non posso fare a meno di chiedermi: che cosa rimane? Quel che talvolta chiedo, e mi chiedo, è semplicemente se quella precedente possa essere ancora chiamata vita. Io che nel sonno urlo piango soffro e prego, risvegliandomi, tormentato dai ricordi. E mi trovo costretto a rivivere all’infinito quelle immagini raccapriccianti, desolanti, disumane. Mi ricordo ad esempio di quando, nel dicembre del 1943, finii catturato dalla Gestapo e tradotto nelle carceri triestine del Coroneo. Partigiano. Picchiato e torturato. Costretto ad estenuanti, interminabili interrogatori. Ma non parlai: in fondo significava anche questo essere partigiani. Non tradire mai i compagni.

Fui deportato in Germania. Mia madre Maria, per ben due anni, dal 1943 al 1945,non poté far altro se non pregare e sperare. Sperare e pregare. La sua indole semplice e caritatevole, per fortuna le venne in aiuto: nel maggio del 1945 ricevette la visita di un tale che affermava aver assistito alla mia morte. Il suo racconto – questo lo seppi soltanto più tardi – si basava su alcuni elementi della realtà, mescolati alla fervida immaginazione che in tempi di guerra sostiene e ravviva i soldati e civili. In breve, quel tale sosteneva che Giovanni Gulic, internato a Dachau e identificato con il numero 141451, aveva contratto il tifo. Anche se i tedeschi non perdevano tempo a curare gli ammalati gravi nei loro campi di sterminio – iscrivendoli direttamente nelle liste da inviare ai funzionari addetti ai forni – la mia presunta morte era da ricercare in una violenta percossa che avrei ricevuto da un sorvegliante, mentre giacevo riarso a terra, agonizzante. Povera madre mia. Non riesco ad immaginare il suo sbigottimento momentaneo. Il dolore simile ad una fitta, ripetuta e costantemente lacerante. Quella povera donna piangeva un figlio assente, morto, di cui ricordava a malapena i tratti. Lontano. Sul cui cadavere non le sarebbe stato permesso di addolorarsi e fremere. Alcuni anni dopo quella visita, ad un migliaio di chilometri di distanza, senza che i rispettivi protagonisti di quella esistenza parallela potessero darsene conto esatto, il campo di concentramento sito a Dachau veniva occupato prima, e poi liberato, da una armata americana. Quei giovani soldati americani videro coi loro occhi ciò che il mondo, sbigottito, intravide parzialmente sulle pagine di giornali e riviste nei mesi e negli anni successivi. Corpi straziati. Dilaniati. Senza speranza. Senza lacrime. Corpi vaganti in attesa della morte. (In quella circostanza, in effetti, era la vita a far paura!)

Montagne di carcasse umane, in mucchi sparpagliati

Io, Giovanni Gulic, prigioniero n. 141451 fui ritrovato, ancora in vita, accatastato su uno dei mucchi, giacente, come corpo morto. Ma in realtà ancora respiravo. Ripresi conoscenza dopo un numero inqualificabile di giorni. Giorni passati senza che io serbassi il benché minimo ricordo. Giorni non miei. Altro tempo rubato alla mia giovane vita. Mi risvegliai nella baracca che i nazisti avevano destinato ai sorveglianti del campo. Ancora a Dachau. Circondato da corpi scheletrici assiepati sulle brande. Scheletri viventi – ridotti anche peggio di me. L’unico suono che ricordo è il rimbombo che in me provocarono le urla disperate dei feriti. Gemiti orrendi che ancora oggi, a volte, mi avvolgono in una spirale di dolore e di morte. Desolazione e angoscia. Smarrito, mi chiesi che cosa ci facessi in quel posto. Non capivo. Non riuscivo a capire. Per quel che ne sapevo la scena che mi si era presentata corrispondeva alla vita o anche alla morte, indifferentemente. Nel vano tentativo di alzarmi mi resi conto che non potevo muovermi. E mentre mi sentivo di nuovo inghiottito dal vortice della solitudine e della paura ecco apparire ai piedi del mio letto un gruppo di medici. Parlavano e scherzavano tra di loro in una lingua incomprensibile. Li osservavo implorandoli, sperando in una traduzione, o almeno in una spiegazione. In quel mentre uno di loro, in un italiano piuttosto stentato si avvicinò a me, e accarezzandomi mi raccontò dell’avvenuta liberazione. Il mio ritorno a casa sembrava essere imminente. Quel giovane soldato italoamericano, il suo gesto così umano, provocò in me una reazione del tutto inaspettata: non riuscivo a credere che dopo tutto quel massacro esistesse una gestualità capace di fare incontrare gli individui, abituato com’ero al terrore, a rapporti interpersonali governati da un’insanabile violenza.

Capii che la guerra era finita dalle amorevoli parole del medico

Credevo di sognare! E non avevo nessuna voglia di risvegliarmi e ripiombare in

quella lugubre quotidiana realtà. Ma dopo qualche momento di esitazione ripensai alle parole del medico, e finalmente capii che la guerra era veramente finita. Dopo alcuni giorni furono allestite delle ambulanze per il trasporto dei feriti. Pur non conoscendone la destinazione, l’essenziale risultava essere il tanto sospirato abbandono di quel luogo odorante di morte. Dopo un lungo viaggio, giungemmo a Bolzano, dove la colonna si sciolse e gli ammalati furono smistati. Non so, ma poco importava, con quale criterio. Io capitai in un luogo simile ad un convento: qui fui amorevolmente assistito da due donne di mezza età, vestite di bianco - Suore? Infermiere? Crocerossine? - che fecero di tutto per rimettermi in piedi. Avevo finalmente raggiunto uno stato d’animo simile alla felicità, o almeno al ricordo che di essa ancora conservavo. Prima o poi avrei sicuramente ripreso a camminare. Fu un periodo di grandi progressi psico-motori, suggellato da una passeggiata che le mie due salvatrici mi permisero di condurre a termine, facendomi finalmente risentire vivo tra i vivi. Un ricordo vivido: l’immersione in quel bagno di umori e sensazioni di velocità. In quella estate tutto sembrava correre intorno a me. I rumori dei passanti, le loro voci gaie e vivaci sembravano fondersi e confondersi in un unico, sensazionale canto di pace, frizzante e contagioso. In quella schiera si concretizzò la voce di un tale che dopo avermi individuato e riconosciuto, mi chiese notizie sul mio paese natale. Perplesso, attonito, incredulo, non riuscivo a darmi conto esatto di quel che stava accadendo; dunque quel tale mi conosceva. E anzi, stando a quanto mi disse in quel primo incontro, anch’io lo conoscevo, dacché entrambi provenivamo da Rupingrande … In quel momento ebbi davvero la sensazione di essere molto vicino casa. E capii che presto avrei potuto arrivarci pure io. “Domani parto per Trieste. Hai notizie dei tuoi? Senti, sai che ti dico: appena arrivo, vado da loro e racconto di averti incontrato, saranno preoccupati per te…” In effetti egli si recò da mia madre, che non aveva ancora superato il dolore provocatole dalla prima notizia di morte, per informarla che invece ero ancora vivo. E che era vero: cercò di convincerla. Povera madre mia: quali altre beffe avrebbe riservato il destino! In cuor suo, probabilmente, non sapeva se credere o meno a quell’uomo comparso dal nulla. Ma è anche vero che spesso si preferisce dar credito a quelle che sembrano le notizie migliori, le più belle, a volte le meno credibili.

Il ritorno alla vita di un corpo massacrato

I giorni passavano, e lasciavano depositato sul volto il segno di una nuova speranza, di una nuova umanità vestita a festa. Come il soffio lieve di una brezza marina, fresca, tonificante, così il mio corpo si impossessava ancora una volta delle antiche forze perdute. Cominciavo a pensare a come organizzare il mio ritorno a casa: potevo finalmente farlo. Come sarebbe stato?

In quei giorni conobbi un tedesco malato di tisi che mi rivelò di avere parenti a Trieste, e mi confidò la sua intenzione di fuggire da quel luogo di cura. Organizzammo insieme la fuga. Lui mi caricò letteralmente in spalla, e arrivammo lentamente alla stazione ferroviaria, dove salimmo su un vagone per il bestiame. In pochi istanti il treno partì, e a quel movimento ne corrispose un altro, uguale e contrario si potrebbe dire, che mi portava a pormi un numero elevatissimo di interrogativi. Una volta arrivati a Trieste, il mio salvatore mi caricò ancora una volta in spalla, e mi portò al capolinea del tram di Opicina, dove mi adagiai in un angolino. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Poi non seppi più nulla di lui. Ormai mi trovavo a un passo da casa. Mi mancavano però le forze per potermi muovere e salire autonomamente su uno di quei mezzi che continuavano ad andare e venire davanti a me. Vidi pure un mio compaesano, che però non mi riconobbe e se ne duole tutt’oggi.

Il rientro a casa su un carretto. Le lacrime di mia madre

Dovevo soltanto pazientare. Aspettare. Ci avevo fatto l’abitudine, ormai. Poco dopo passò un altro conoscente, che invece si accorse di me e che, avvicinatosi, mi sollevò senza fatica - con tutti gli abiti addosso, infatti, non raggiungevo i 40 chili - e mi fece salire sul tram. Concettualmente il mio viaggio poteva dirsi finito, ed il mio ritorno a casa assicurato, anche perché su quella linea tranviaria lavorava mio cognato, che incredulo di vedermi ancora vivo, organizzò il mio rientro a Zolla Monrupino su un carretto. Quando entrai nella corte di casa mia, ad attendermi c’era mia madre, che dopo aver versato tante lacrime per la mia morte presunta, ne aveva versate altrettante nel vedermi arrivare. A raccontarlo ora, non posso fare a meno di pensare a tutte quelle povere madri che invece non hanno avuto mai la fortuna di rivedere e riabbracciare i propri figli. Nell’autunno del 1945 incontrai quel tale Ladi, che alcuni mesi prima raccontò a mia madre di avermi visto morire. Insieme cercammo di ricostruire la mia presunta morte. Dunque nell’aprile del 1945 mi ammalai di tifo, e fui condotto nella baracca dove lui lavorava come infermiere agli ordini del comando SS. Poiché mancavano i medicinali, gli ammalati venivano immediatamente iscritti nelle liste delle persone da inviare al forno crematorio; però negli ultimi giorni della guerra, precedenti alla liberazione del campo, i forni non erano attivi, e per questo motivo i morti venivano accatastati nei mucchi. Io ormai ero in coma, e quell’infermiere mi adagiò sotto la finestra della baracca, vicino ad una marmitta. A quel punto un sorvegliante, accortosi che ancora respiravo, decise di colpirmi in testa con un mestolo di ferro: mi diede un colpo così forte che avrebbe ammazzato chiunque, tanto più un malato senza forze, quale ero io. Poi fui trascinato di peso fino a quel mucchio di cadaveri, in uno stato di incoscienza. Fu lì che gli americani mi ritrovarono, prigioniero 141451; e capirono che dietro a quel numero era possibile rintracciare una persona umana. Viva.

Da Triangolo Rosso, dicembre 2004

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