Triangolo rosso

Scienziato tra i più noti in Italia Massimo Aloisi racconta di un soggiorno di studio nella Germania nazista del ’37

Un pezzetto di vecchia cronaca nera

 

di Ibio Paolucci

 

Conobbi Massimo Aloisi a Padova negli anni cosiddetti di piombo, quando imperversavano nell’Università gli autonomi, amici dei terroristi, fieri teorici del diciotto obbligatorio per tutti, soprattutto per gli ignoranti, squadristi contro i professori democratici, che si opponevano alle loro prepotenze. Parecchi docenti furono vittime della loro furia criminale. Ricordo per tutti l’amico e compagno Guido Petter, già comandante partigiano, già insegnante nella scuola Rinascita di Milano, voluta dall’Anpi, dove studiarono molti giovanissimi combattenti antifascisti o figli di caduti partigiani. Petter insegnava nell’ateneo padovano e una mattina fu vilmente aggredito e bastonato a sangue. Ferito seriamente, poté salvarsi grazie al fatto di avere in testa un pesante colbacco, regalo di un collega moscovita. Massimo Aloisi insegnava pure lui a Padova. Scienziato fra i più noti in Italia, era stato incarcerato dai fascisti, poi aveva partecipato alla Resistenza, iscritto al Pci. Ne era uscito dopo i fatti di Ungheria e anche per le insopportabili baggianate genetiche di Trofim Lysenko, elogiate da Stalin. Qualche anno dopo, al riguardo, aveva scritto: “Non me ne pento, ma nemmeno me ne glorio”. A Padova, già avanzato nell’età, prese posizione con fermezza contro la banda degli autonomi. Fu allora che lo incontrai e lo intervistai per l’Unità. Mi ricevette nella sua casa e mi offrì anche un bicchierino di una vodka speciale che gli aveva regalato il grande biologo Alexander Oparin nel corso di una sua visita nell’Unione Sovietica. Da allora mantenemmo buoni rapporti fino alla sua scomparsa. Seppi dei suoi scritti su Belfagor, la rivista di “varia umanità”, fondata da Luigi Russo, e gli chiesi se era possibile averli. Me li spedì con una affettuosa dedica e con gli auguri di buon 1996. Uno di questi scritti, pubblicato nel numero di maggio del 1995, si intitola “Un pezzetto di vecchia cronaca nera”. In quell’articolo Aloisi racconta di un suo soggiorno per studio nella Germania nazista nel 1937. In particolare riferisce di una “oceanica” manifestazione organizzata a Berlino per accogliere Benito Mussolini. Si tratta di una testimonianza, che riteniamo importante, per il notevole interesse che riveste, riproporre ai lettori.

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“Un pezzetto di vecchia cronaca nera”

 

di Massimo Aloisi

Era il settembre del 1937. Mi trovavo a Berlino-Dahlem perché frequentavo come ospite il famoso laboratorio scientifico di Otto Warburg. Questo premio Nobel era uno dei pochissimi ebrei che fino allora era potuto rimanere in patria, ma quella patria era tempestata per ogni dove da cartelli con su scritto: questo giardino, questo cinematografo, questo locale è vietato agli ebrei: senza contare i manifesti ovunque esposti in cui si raffiguravano loschi personaggi, definiti comunque Juden in atto di compiere i più efferati e scandalosi delitti. Quando il giovane Erwin Haas mi domandava in laboratorio come mi trovavo a Berlino, rispondevo che in generale andava bene, ma che mi soffocava la presenza di quei cartelli e che non potevo nemmeno immaginare come mi sarei sentito se fossi stato un giovane ebreo. Mi dava ragione, con serietà. E tuttavia, tornato in patria, nella mia patria, dovetti quasi subito dopo assistere all’innesco di una campagna razziale filonazista nonostante che illustri cattedratici si fossero già prima adoperati per una nostra sommessa campagna razziale mediterranea... Ma lasciamo stare: non è per questo che mi sono ora accinto a ricordare questo pezzetto di cronaca nera, anche se so che in politica tutto si tiene. Debbo innanzi tutto dire che nella mia vita, sempre senza intenzioni eroiche, ma spesso per una tendenza semplificatrice che poteva anche coincidere con la pigrizia, spesso anche per non cercare informazioni noiose, mi sono talora trovato temporaneamente fuori dalle regole del viver civile, anche se pronto a rimediarvi appena manifestatisi i relativi inconvenienti, perché convinto che comunque di regole si vive. Altra cosa è stata per me la persuasione teorico-pratica per una scelta morale e politica, che era quella di tutta la famiglia, nettamente antifascista. Già, perché, parlando del 1937 parlo appunto del periodo nazifascista in Europa. Ma quella noncuranza o leggerezza mi impedì, arrivato in Germania, di notificare alla polizia la mia presenza. Purtroppo non vi pensò, come sarebbe stato suo dovere, neppure la mia padrona di casa, Frau Herta M., poiché essa era allora molto depressa per l’abbandono del marito e per una relativa causa legale sulla quale addirittura voleva consigli da me, non riflettendo che una laurea in medicina, anche se fresca, non dava alcuna materia per consigli giuridici. Ma Frau Herta era una donna semplice. Il suo e il mio semplicismo, uniti insieme, conclusero il loro esser negativi e pericolosi in quel di Germania, solo alla fine del mio soggiorno, anzi, come si vedrà, durante il mio viaggio di ritorno, quando però tutto era ormai più o meno, e senza danno, avvenuto. Bastavano infatti talora in quel paese, come del resto in Italia, pochi incontri, per trovarsi a dover scegliere in fretta un comportamento plausibile: come quando un giovane tecnico del laboratorio venne a salutarmi perché partiva per il servizio di leva; avevo letto sui giornali che proprio in quel tempo avevano aumentato da uno a due anni quel servizio (misura evidentemente intesa a preparare la pace, come tra poco si vedrà) e da buon italiano mi sentii in dovere di dolermi con lui che gli fosse capitata addosso siffatta inaspettata quasi sciagura. Ma non l’avrei dovuto dire: si irrigidì tutto sugli attenti, divenne rosso e paonazzo e da una bocca appena semovente mi sibilò: «Sono molto contento e orgoglioso di servire la mia patria e il mio Führer». M’inchinai di fronte al grande dilemma del tempo, quello di una gioventù che pur credeva a un miraggio, ma nefasto nella storia dell’umanità. Un bel giorno, mi pare proprio il 26 di settembre, sento in laboratorio che due giorni dopo sarebbe stata vacanza totale per un avvenimento politico di grande rilievo: la visita di Mussolini a Hitler. Siccome questo poteva anche significare chiusura degli uffici pubblici e dato che avevo estremo bisogno di riscuotere il consueto assegno mensile che mi veniva versato presso l’agenzia berlinese dell’American Express, decisi di utilizzare la mattina del 27 per andare a riscuotere il magro sussidio. L’agenzia si trovava nell’Unter den Linden poco oltre l’imbocco della Friedrich Strasse; erano circa le dodici e vi trovai una enorme folla assiepata in ambedue i marciapiedi, tenuta ferma in modo brutale da giovanotti della Hitlerjugend uniti braccia a braccia a catena e del tutto persuasi che gli uomini e le donne senza divisa sono un brulicame che è godevole schiacciare. In mezzo a loro e in mezzo a noi (ero rimasto sepolto anch’io nella folla all’uscita dall’agenzia dopo una procedura un po’ lunga per ragioni di cambio) si facevano strada anche dei fascisti italiani anch’essi in qualche divisa e che fidandosi dell’altrui ignoranza della loro lingua trovavano giocondo dire puttanate contro uno e contro tutti a piacer loro. Così capii – e mi fu confermato – che si era in attesa del passaggio di Hitler e di Mussolini testé arrivato, appunto alla Friedrich Bahnhof. Ed essi infatti passarono ben presto, in piedi l’uno e l’altro sulla stessa automobile tra il delirio di quella umanità la cui eccitabilità non era poi troppo fuor di esempio – tolte le memorie specifiche e puntuali – da quella già espressa e ancor oggi, mutatis mutandis possibile e ostensibile, da una parte dell’attuale umanità italiana... L’indomani, la mattina del 28, era una giornata splendida. I pini e gli scoiattoli di Dahlem non accettavano l’autunno incombente e nel mio cervello l’incontro dell’Unter den Linden era remoto e quasi cancellato. Ma Frau Herta, pur nella sua vacuità aveva di diritto un genoma tedesco e quando le feci notare la radiosità del mattino mi disse con la stessa seria persuasione con cui mi illustrava le sue ragioni contro il marito: «Certo, è sempre bel tempo quando parla il nostro Führer». Mi seccò tale risposta: non solo perché mi riportò alla natura di quella vacanza e alla considerazione che il mondo debba temere delle scelte dei meno intelligenti, ma anche per la sensazione che non ero più libero di godermi da solo quella giornata: non si può essere soli e liberi dentro un ciclone che trascina milioni di persone. Provai a passare dall’Istituto per rivedere le mie carte, ma era chiuso; al ritorno trovai una colonna rada e sparsa di persone e che aveva in testa qualcuno che agitava un turibolo allegramente sonoro; camminavano solerti lungo i viali di pini come per una consapevole scampagnata. Vidi anche un cartello dal quale si deduceva che quei cittadini berlinesi appartenevano alla gilda dei tappezzieri e compresi allora che era un segmento di quel variamente attrattivo convogliare gli umani curiosi e consenzienti alla manifestazione politica che si prevedeva per il pomeriggio. M’incuriosì quel passeggiare senza impegno e quella musica; la bella mattina rimaneva tale, ma ormai non era più senza nome né solo per me; ormai la corrente umana era stabilita a Berlino Centro come a Dahlem; non sapevo dove fosse il Campo di Maggio ove si sarebbe svolta la manifestazione politica; mi dissi che potevo seguirli quanto mi convenisse, pronto a venirne fuori a mio piacere per il pranzo. Così, sempre sull’onda del mio indipendente semplicismo, ma anche della mia curiosità, temporaneamente divenni anch’io tappezziere e mi infilai nella fila, che intanto si andava ingrossando (non saprei in verità dire quanti tappezzieri esistessero al tempo a Berlino o in quel settore di Berlino). Erano solo le dieci e mezzo e avevo tutto il tempo di dare prima o poi un colpo di coda e togliermi dalla gilda. Lungo il tragitto ogni tanto mi proponevo di abbandonare quei camerati allegri e festaioli, ma poi rimandavo sempre finché prevalse il proposito di vedere almeno in cosa consistesse quel famoso Campo di Maggio. Ci arrivammo che non era ancora – se ben ricordo – mezzogiorno. Il Campo era un ovale sterminato di cui a malapena si intravedevano i limiti distanti; la curva più vicina era sormontata da una vasta scalinata con una tribuna centrale, ancora vuota. V’era erba sotto i piedi e un cielo azzurro pallido sopra di noi. Non era caldo né freddo. Poche persone erano giunte fino allora all’appuntamento, noi compresi, dispersi a gruppetti in uno spazio enorme che lentamente ne inghiottiva sempre altri, ma passò molto tempo prima che si potesse parlare di una raccolta o di una folla. Molto tempo. Tanto che si poneva finalmente il problema di chiudere l’avventura e di uscire a trovare un luogo ove risolvere la giornata nutritiva e quella diversiva. Fu allora che mi accorsi come lungo l’asse maggiore dell’immenso ovale corresse una doppia fila di capre di legno, delimitanti quindi una specie di corridoio fra esse. A un certo momento, il sole era già alto, lungo quel corridoio comparvero giovani della Hitlerjugend (o di altra milizia giovanile, non ricordo) forniti di gavette militari vuote che distribuirono, a chi le volesse, dei presenti. Moltissimi vi andarono e mi avvicinai anch’io: evidentemente si preparava un pasto collettivo e gratuito. Infatti, poco dopo, quello stesso corridoio fu percorso da altri miliziani che trasportavano enormi recipienti su rotelle contenenti carne bollita e patate: tale rancio, assolutamente appetibile, venne distribuito nelle gavette di ognuno ed era più che sufficiente a calmare l’appetito dell’ora. Era comunque un invito a rimanere in attesa della manifestazione politica che – ormai si sapeva o, meglio, ne ero venuto anch’io a conoscenza – si doveva svolgere nel tardo pomeriggio. Ormai il Campo di Maggio era fitto di persone. Moltissime avevano mangiato ed erano sedute sull’erba. Parlavano, parlavano. Trovai due giovani con una strana uniforme tra il militare e il ginnastico che si accorsero che non ero tedesco e mi domandarono donde venissi. Erano ragazzi della premilitare. Seduti sull’erba cominciammo un lungo discorso anche perché il mio tedesco non consentiva sintesi preziose. Mi chiesero chi era Mussolini e dissero che erano sicuri che l’incontro con Hitler era voluto per assicurare il mondo sulla pace. Dissi che ne ero contento, ma che da noi si era sempre più sospettosi – era la natura del nostro popolo – e dunque c’era chi si domandava se sotto le dichiarazioni di pace non si nascondesse la preparazione alla guerra: che la guerra poteva essere un’attrazione per risolvere tanti problemi urgenti della Germania come dell’Italia. Mi seguivano con attenzione e finirono per convenire che talora le dichiarazioni dei politici possono essere fallaci e dirette ad un’ingannevole mobilitazione dei popoli. Più in là non arrivavano, almeno con me, né più in là avrei voluto portarli sull’onda del mio azzardato semplicismo. Erano certamente ragazzi operai e forse filtrava nelle loro teste qualche ricordo dei padri; li invitai qualche giorno dopo a una cenetta, ma non fu un’occasione propizia per continuare il discorso. Intanto si erano fatte le cinque del pomeriggio ed eravamo un po’ stanchi. Stanchi per l’uniformità dell’attesa, per il paesaggio che ormai non destava più meraviglia, stanchi di parlare o di parlottare, stanchi di ascoltare. Il cielo, così limpido e invitante la mattina, si era ricoperto e la giornata volgeva, nonostante le previsioni di Frau Herta, verso il banale o decisamente brutto. Ma la popolazione lì raccolta cresceva ancora e ormai, almeno nel settore che fronteggiava per largo spazio la scalinata e la tribuna eravamo una folla. Tutti però sapevano e ormai lo sapevo anch’io, che la manifestazione politica era insolitamente preordinata per oltre le cinque e mezzo e fino alle sette della sera: la stranezza dell’orario era, come vedremo, legata al tipo di decorazione col quale la Germania hitleriana stava per accogliere e impressionare l’ospite italiano che veniva da un paese ricco di monumenti sontuosi e forse solo di questi. Intanto il cielo si copriva sempre più di nubi poco tranquille e molti si domandavano se tanta preparazione e buona volontà di comparire non stessero per essere beffate. A un certo momento si capì che stava per iniziare la manifestazione: sotto un cielo sempre più scuro cominciò a sfilare, sul bordo supremo della scalinata, una serie numericamente immensa di grandi bandiere alternate, una tedesca con una italiana, portate da uomini che poi rimanevano dritti e immobili a sostenerle. La durata di questa sfilata fu lunghissima, data l’estensione della circonferenza da occupare, e durante tutto il tempo il popolo che ormai fitto occupava il terreno del Campo teneva il braccio teso in avanti nel saluto hitleriano; in breve tempo molti non ce la facevano e sorreggevano il braccio destro con la mano sinistra o viceversa, i vecchi tremavano nel prolungarsi dello sforzo e quello che comunque voleva essere un atto di omaggio si traduceva in un masochistico giuoco di sudditanza; era pressoché finito il parlottare e c’era solo un diffuso brulichio di voci e di sospiri. Intanto cominciavano a riempirsi le gradinate di fronte a noi, destinate agli invitati. Seppi poi da un collega italiano, che pure lavorava in quel tempo a Berlino e che regolarmente si era fatto vivo presentandosi, come si doveva, alla polizia, che tutti gli italiani di un minimo di rilievo allora presenti a Berlino erano stati invitati, come dire, sollecitati a recarsi alla manifestazione. Riempita che fu la gradinata cominciarono a venire le autorità. Si riconobbe Goebbels dalla statura e Goering dall’impermeabile trasparente sopra l’ostensione delle tante medaglie. Venne subito anche Hitler e subito anche Mussolini. Questi si dava un gran daffare cercando di favorire il passaggio e la collocazione dei nuovi arrivati sbracciandosi come un esperto regolatore del traffico. Mi par di ricordare che v’erano anche delle musiche solenni. Ma a un tratto Hitler, che era già salito sul podio e appena vi sporgeva con la parte superiore del busto fece, immobile per tutto il resto del corpo, un gesto semicircolare col braccio: tutt’uno col gesto cessò la musica, cessò il brusio, ogni rumore svanì e il cielo, che era diventato ancor più nero e minaccioso, incombeva ora su un improvviso silenzio di vita. Viveva solo una voce, ora, e per il silenzio sembrava unica nel mondo, ed era quella aspra e concitata e sgradevole dell’uomo che era riuscito a farsi venerare da milioni di tedeschi per l’interesse nascosto di pochi, tedeschi e anche non tedeschi. Era orgogliosa, quella voce, di mostrare al collega e più antiquato maestro italiano cosa significasse avere al suo piede, con un fischio, in un giorno, tre milioni di persone (drei Millionen Personen sind hier mit uns, come disse, poiché al milione dentro il Campo si dovevano aggiungere altri due milioni in attesa delle fatidiche parole fuori del campo, tutto all’intorno); disse anche che lui e tutti i tedeschi volevano la pace nonostante la caparbietà di altre nazioni nemiche della nuova Germania. Naturalmente parlò subito dopo anche Mussolini. E la scena cambiò; non tanto per il cielo che si addensava sempre più, quanto per il contrappunto alla tragedia: come in un’opera lirica classica ai vaticini terrifici del sommo sacerdote subentrano le note speranzose di chi umanamente vuole accomodare tutto, il Duce in un tedesco buono ma più semplice e con un gestire che era un linguaggio a sé stante largamente indipendente dal contenuto del dire, e tuttavia studiato appositamente per entrare nelle simpatie nordiche, fece egregiamente la sua parte di contrappeso; come Hitler studiava i suoi silenzi per entrare nel cervello della gente, l’amico del momento fece tutto quello che i milioni di astanti volevano che facesse: essere l’italiano tipo che col cuore in mano giura fedeltà. La marea prima immota della gente cominciava ad ondeggiare seguendo il discorso, perché non era più quello del Führer da ingoiare come un bastone; si azzardava anche qualche commento o sorriso, si aspettava il Duce al varco. E quando egli disse che l’Europa era pur di fronte al tragico dilemma della guerra o della pace, ma che anch’egli aveva sposato la causa della pace «Krieg oder Priede? ebbene noi abbiamo già scelto: Friede!») venne fuori un uragano di applausi e di voci quale il Campo di Maggio forse non aveva prima sentito. Ma l’uragano stava per venire anche dal cielo. Era ormai sera e cominciava a piovigginare. I tedeschi avevano contato molto su un effetto finale coreografico che voleva dire unione dell’arte con la tecnica, del Nord col Sud del sacro con l’umano. Avevano posto regolarmente e tutto all’intorno del vasto Campo di Maggio una serie di potenti riflettori (Scheinweifern) che, accesi, inviavano ciascuno un potente fascio di luce ottimamente visibile specie nella poca nebbia serale; ma erano disposti ed inclinati verso l’alto così che l’insieme dei fasci si incontrava in un punto alto dell’atmosfera dal quale poi appositamente divaricava, attenuandosi. Ci si trovava dunque dentro una specie di gabbia a spigoli luminosi e quasi appena curvati, con un grande effetto visibile certamente ammirevole. Quando venne, come venne e abbondante, la pioggia brillava verticale framezzo ai piegati fasci di luce. Ma per essere fino in fondo cortesi i tedeschi vollero fornire agli italiani anche uno spettacolo più a loro paesano e consueto: i fuochi d’artificio; forse anche per mettere a confronto la filosofica geometria statica dei riflettori tedeschi con l’esuberante e più meridionale e imprevedibile fiorire dei fuochi italiani. Tanto più imprevedibile, allora, nell’esecuzione, in quanto ostinatamente attuata sotto una pioggia ormai senza scampo. Ma i tedeschi che si avviavano verso le uscite, ogni qualvolta sentivano uno sparo alzavano la testa al cielo, e se un qualche sparpaglio di stelle tuttavia si rendeva visibile lo salutavano come bambini gridando ogni volta ach! e la pioggia riempiva loro la bocca. Molti particolari della manifestazione che non erano apprezzabili dai comuni cittadini entro il recinto del Campo di Maggio furono poi ben visti ed analizzati nei giorni successivi nei documentari filmati offerti da apposite piccole sale giornalistiche o annessi agli spettacoli cinematografici. I numerosi primi piani del Duce con tutte le sue accattivanti mimetiche e calcolate smorfie facevano cordialmente e sonoramente ridere, ma senza disprezzo. In laboratorio, nella sala delle bilance, mentre ognuno pesava i propri ingredienti di lavoro si scambiavano commenti ilari ma convinti: fu lì che udii F. Kubowitz riconoscere allegramente che il tedesco di Mussolini non era male, ma si vedeva che l’uomo, col suo agitarsi, non era abituato ai microfoni (intendeva che secondo lui la tecnologia radiofonica non era ancora penetrata in Italia). Come dicevo all’inizio, l’epilogo più personalmente fastidioso, e dovuto al mio ingenuo semplicismo, avvenne al confine, nel viaggio di ritorno. Allora dal passaporto capirono che ero stato tre mesi in Germania irregistrato ospite. Fecero sgombrare tutto lo scompartimento, mi fecero spogliare fin quasi alla nudità e scandagliarono ogni piega di vestito, ogni fondo di calzino, ogni foglio di quaderno, ogni pagina di vocabolario. Guardarono con qualche sospetto un bel regolo calcolatore che m’ero comprato in Germania, di quelli usati nel laboratorio del grande Warburg, e cominciarono ad abbaiare domande in modo così concitato da non potervi trovare una risposta adeguata, quale un vero spione avrebbe semmai potuto preparare; volevano notizie sul mio lavoro, a cosa servisse e perché proprio a Dahlem; ma avevano anche fretta, il treno doveva ripartire, forse alla fine dovettero concludere che ero uno scemo qualsiasi, di quelli che, come dicono o dicevano in quel di Empoli, vicino Firenze, non han cervello per campare un’ora.

Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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