Triangolo rosso

UN LIBRO RICORDA LA FIGURA DEL CAPO DELL’UFFICIO ANAGRAFE DI VARESE NEGLI ANNI DELLE LEGGI RAZZIALI

Le nostre storie

L’arresto, la deportazione, la morte a Dachau di Calogero Marrone, un eroe dimenticato

 

“Un eroe dimenticato” è il titolo di un libro scritto da Franco Giannantoni e Ibio Paolucci, il primo ricercatore storico e autore di numerose opere sulla Resistenza, il secondo giornalista politico e giudiziario dell’Unità e critico d’arte e teatrale; entrambi sono redattori del Triangolo Rosso. Nel libro - di cui pubblichiamo alcuni stralci del primo capitolo - si racconta la storia di Calogero Marrone, capo dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese, assassinato a Dachau per aver aiutato gli ebrei e gli antifascisti durante l’occupazione tedesca. Calogero Marrone veniva dal sud, dalla provincia di Agrigento e si era trasferito a Varese, con la moglie e i quattro figli. Diventato capo dell’ufficio anagrafe del Comune, durante l’occupazione nazista rilascia centinaia e centinaia di documenti d’identità falsi soprattutto ad ebrei, ma anche ad antifascisti, salvando, a prezzo della propria, la loro vita. Tradito da un delatore, Calogero Marrone, viene arrestato dai tedeschi e consegnato alle SS. Torturato, rinchiuso in diverse carceri, viene quindi deportato nel campo di sterminio di Dachau, ultima tappa di un viaggio senza ritorno.

di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci

 

Via Sempione è una strada di Varese un tempo periferica e oggi senza soluzione di continuità con il centro storico. Durante la guerra si chiamava via Mario Chiesa, in memoria del prefetto della città scomparso in un incidente aereo e, in un piccolo edificio al numero 14 di proprietà del Comune, abitava al secondo e ultimo piano la famiglia di Calogero Marrone, responsabile dell’ufficio anagrafe comunale. Qui due ufficiali tedeschi, uno dei quali parlava l’italiano, si presentarono alle cinque del pomeriggio del 7 gennaio del 1944, per prelevare il capo famiglia, accusato di avere favorito alcuni ebrei, consegnando loro documenti falsi. I militari che facevano parte della Va sezione della Grenzwache, un corpo speciale di polizia della scuola di Innsbruck, suonarono alla porta dell’unico appartamento del secondo piano e quando la signora Giuseppina,moglie di Calogero Marrone, aprì, chiesero con tono aspro e minaccioso dove fosse il marito. Lui era nella stanza accanto e comparve non appena udito il suo nome. Invitato a seguirli, il signor Calogero chiese di prendere una borsa dove aveva ficcato due camicie e un rasoio per la barba, segno che quella “visita” non era per lui inaspettata. Poi disse alla moglie e al figlio sedicenne Domenico, che giaceva a letto per un brutto mal di gola, di stare tranquilli, che tutto si sarebbe risolto positivamente, sperabilmente nella stessa giornata.

L’aiuto agli ebrei e il tradimento

Non c’era spazio per sperare in una soluzione né a breve né a lunga scadenza. Tre giorni prima, infatti, a quella medesima porta aveva suonato il canonico della Basilica di San Vittore don Luigi Locatelli, che, prima ancora di salutare, aveva sollecitato l’amico Calogero a sparire da Varese, senza perdere troppo tempo se non voleva finire nelle mani dei nazisti. Da fonte certa il sacerdote aveva saputo che Marrone era nel loro mirino e che una decisione sarebbe stata imminente. L’informazione l’aveva avuta da gente del Comune, dove, fino a qualche giorno prima, Calogero Marrone lavorava in un settore di estrema delicatezza. Dall’ufficio anagrafe, un paio di locali situati lungo il porticato di sinistra di Palazzo Estense, di comodo accesso per i cittadini, Marrone era stato sospeso cautelativamente dal primo giorno del ‘44 da Domenico Castelletti, ultimo sindaco della città nel ‘24 per libere elezioni e poi podestà, senza incidenti di percorso sino al ‘43, “per l’accertamento delle eventuali responsabilità sull’irregolare rilascio di carte d’identità”. L’allarme di don Locatelli, dunque, era ben motivato e avrebbe dovuto essere preso sul serio. Ma Calogero Marrone, dopo un primo lungo colloquio con il sacerdote e un secondo con la moglie, che l’aveva sollecitato a rifugiarsi in Svizzera, aveva deciso di restare nella sua casa, intanto perché aveva dato la parola d’onore al podestà fascista che non avrebbe abbandonato Varese restando a sua disposizione per le indagini e non voleva mancare a quell’impegno. Ma soprattutto intendeva rimanere per non esporre i familiari a una inevitabile rappresaglia, in caso di fuga. A provocare la cattura di Marrone era stata una spia, sfortunatamente rimasta anonima e dunque impunita.

Ma nessuno di loro si fece illusioni

Che si trattasse di una delazione, tuttavia, non c’erano dubbi. L’accusa era proprio quella di avere rilasciato documenti d’identità contraffatti a due ebrei di Milano, i cui nomi, ovviamente falsi, indicati nei documenti, erano Pietro Del Giudice e Natalina Rosati. La coppia era stata presentata a Marrone da Alfredo Brusa Pasquè, un esponente socialista del Cln varesino, costretto ad un certo momento, quando le probabilità d’essere sorpreso dai nazifascisti erano diventate altissime, a riparare in Svizzera, nella cui abitazione di piazza XX Settembre, frequentata da Marrone, si riunivano con regolarità elementi dell’antifascismo. Quali fossero i loro nomi veri dei due ebrei non è stato possibile accertare. Comunque Marrone aveva fornito fino a quel momento documenti falsi a parecchi ebrei, non solamente a quei due, e anche a non ebrei.

Il fallimento di un progetto partigiano

Arrestato dai tedeschi, sottratto sin dalle prime battute alla giurisdizione fascista che non si occuperà mai del suo “caso”, Calogero Marrone venne portato nel carcere giudiziario dei Miogni che si trovava poco lontano dalla sua abitazione, tanto è vero - come racconta il figlio Domenico, che risiede tuttora a Varese - “che dalla terrazza di via Mario Chiesa, i familiari potevano vedere il loro congiunto, durante l’ora d’aria”. Per gli interrogatori il detenuto veniva tradotto poco distante, a circa un chilometro, nella “villa Concordia” di proprietà Zanoletti, in via Solferino 6, sede del comando tedesco della Guardia di frontiera. In quel carcere Marrone rimase fino al 26 gennaio 1944. La decisione di trasferire improvvisamente il detenuto da Varese a Como aveva avuto ragioni molto serie. Era infatti trapelata la notizia che un nucleo partigiano della 121a brigata d’assalto Garibaldi “Gastone Sozzi” avesse allo studio da qualche giorno un piano per tentare di liberare Calogero Marrone non appena la vettura germanica che lo trasferiva ogni mattina dal carcere giudiziario dei Miogni alla sede del comando tedesco per gli interrogatori, fosse apparsa nella sede stradale. Il progetto partigiano, dopo alcune discussioni, era rientrato ma i timori che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa al prezioso imputato, l’uomo che conosceva tutti i segreti per aiutare gli ebrei, avevano consigliato il commissario Werner Knop, responsabile della zona di frontiera, un cane mastino gettato sui confini a braccare coloro che in quelle giornate guardavano alla Svizzera come ad un miraggio, a dover spostare Calogero Marrone, già duramente provato dalla detenzione, nella vicina Como.

Dal carcere di Como a San Vittore a Milano

A Como, nel carcere di San Donnino, Marrone rimase fino a giugno. La successiva tappa fu a San Vittore, a Milano, nel VI° raggio, quello dei politici, direttamente controllato dai nazisti che per interrogarlo lo trasferivano ogni giorno all’Hotel Regina, sede del Comando SS. Qui restò fino al 23 settembre e, fra le altre cose, svolse pure la funzione di bibliotecario. Nel suo libro di memorie padre Giannantonio Agosti ricorda: “Io fui destinato alla biblioteca col compito di tenere in ordine i libri e ripararli quando occorresse e distribuirli a chi li desiderava, portandoli io stesso ai detenuti isolati degli altri raggi. (…). Vi trovai già addetti tre autentiche personalità: il generale Zambon, aiutante di campo del principe ereditario, il generale Robolotti, comandante dei bersaglieri e l’avvocato Frezzati. In seguito vennero sostituiti dal colonnello Rossi, addetto alla famiglia reale, dal colonnello Ratti, attualmente generale comandante di divisione, e dal signor Marrone, impiegato del Comune di Varese”. Dopo San Vittore, Marrone fu portato nel lager di Bolzano-Gries, dove restò quasi certamente sino al 5 ottobre. Poi l’ultima tappa, il campo di sterminio di Dachau, dove morì presumibilmente il 15 febbraio del ‘45 di tifo petecchiale.

Il passaggio a Bolzano-Gries anticamera della Germania

Marrone viene trasferito a Bolzano-Gries, nel Blocco D, Polizeiliches Durchgangslager. Dal nuovo luogo di detenzione scrive il 23 settembre: “Ed eccomi alla nuova residenza sempre in ottima salute e morale alto. Trovami in un campo di concentramento di prigionieri politici ove non manca l’aria dei monti respirando a pieni polmoni (..) C’è il problema degli indumenti di lana, ma pazienza, saprò adattarmi (..) Tutto mi basta e so assuefarmi ad ogni sorta di lavoro. Tornerò con i calli che sono onore per l’uomo. A noi ci è dato scrivere due volte al mese e possiamo ricevere senza limitazioni. Scrivetemi quindi per illudermi di avervi più vicini”. La realtà, invece, sarà del tutto diversa. Lui scriverà ancora sei lettere durante la sua permanenza a Bolzano, ma non riceverà neppure una riga dai suoi cari, che, naturalmente, di lettere gliene scrissero parecchie. L’ultima lettera da Bolzano è del 5 ottobre. “Miei amati, oggi si doveva proseguire la Via Crucis ma è stata sospesa la partenza a causa di forte pillolamento proprio a poca distanza da noi”. Poi in cima alla lettera, prima di chiuderla scrive: “Ore 12 siamo sempre in attesa di partire”. E ancora l’angoscia di non avere ricevuto nulla dai suoi congiunti: “Mi duole non poco non avere vostre notizie e sa Dio quando potrò averne poiché quella non sarà residenza fissa dovendo ancora proseguire. Proprio una Via Crucis. Speriamo di non arrivare al Golgota e passare alla resurrezione”. Poi, di seguito, parole di conforto: “Sono stato fortemente raffreddato, ma oggi mi sento un po’ bene. Non impressionatevi. Vi raccomando di farvi sempre forza e coraggio nella fiducia di riabbracciarci al più presto. Ma…..”. Proprio non ce la fa ad essere sereno e ottimista. Quel ma, seguito da cinque puntini, è indicativo di uno stato d’animo lacerante. E ancora, rivolgendosi alla moglie: “Il pacco, che certamente avrai spedito, sarà ritirato da un mio amico che rimane al campo, per ridarmelo - se possibile - alla fine”. Colme di disperazione le ultime note: “Vorrei trattenermi con voi, miei cari, a lungo, ma è meglio sospendere nella tema di rammollirmi il cuore. Come sento il bisogno di un vostro conforto! Ma pazienza. Coraggio e fortezza da ambo le parti”. Non spedisce la lettera, la tiene con sé ancora un po’. C’è un’aggiunta, difatti, in cui dice che “ieri” aveva preavvisato che sarebbe partito per Merano: “Beh! è stata sospesa la partenza, ma non è escluso che si partirà, essendo questo un campo di transito”. Torna ancora sul tema degli indumenti di lana, rilevandone l’inutilità, giacché anche se arrivassero i tedeschi non si sarebbero certo occupati di inoltrarli. Epperò la preoccupazione è forte e, dunque, “purtroppo debbo parlarne poiché qui comincia a fare freddo non poco. I monti oggi sono coperti di neve ed il frescolino ci carezza. Ed allora tentiamo e nel pericolo di smarrimento metti roba vecchia e rattoppata. Per la spedizione cerca, anzi per guadagnare tempo, spedisci da Milano. Consigliati con don Bicchierai, parroco del carcere”. Infine, dopo altre considerazioni, le ultime parole: “La mia salute - ripeto - è ottima e lo spirito alto, sempre pronto a sopportare qualsiasi disagio. Bacioni forti forti e ardenti. Calogero”. Non ci saranno più parole. La successiva stazione della Via Crucis non sarà Merano. È Dachau, l’orrendo campo di sterminio. Da Bolzano-Gries Calogero Marrone parte con 518 compagni di viaggio, su un treno interminabile, proprio quel 5 ottobre, quasi certamente nel pomeriggio, una volta terminato il bombardamento. Il “transport” per la ferrea burocrazia del Terzo Reich è il n. 90. Raggiunge l’inferno il 9 ottobre 1944. Quattro giorni accatastati sui vagoni-bestiame in attesa della “soluzione finale” che arriverà per stenti, malattie, violenze, esecuzioni sommarie. Di quel viaggio torneranno in trenta e Calogero Marrone non sarà fra questi.

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Il ricordo di Maris

 

Il senatore Gianfranco Maris, attuale presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) rammenta benissimo di essere stato da lui per ottenere una carta d’identità falsa.

Era intestata – ricorda Maris- a tale Gianfranco Lanati, di professione rappresentante di commercio, nato a Caserta nel 1916. Marrone mi aveva invecchiato di cinque anni ma quel documento mi fu molto utile per potermi muovere da un luogo all’altro fino alla mia cattura, che avvenne non molto tempo dopo, verso la fine di gennaio del 1944. Io, quando cadde il fascismo, ero un giovane ufficiale sul fronte jugoslavo. Dopo l’8 settembre gettai la divisa e feci ritorno in Italia, dove mi unii alle formazioni partigiane. Il nome di Marrone me lo fece nell’ottobre o nel novembre ‘43 il compagno Salvatore Di Benedetto, allora dirigente del Pci a Milano e futuro parlamentare della Repubblica. Ma il tramite, quello che mi presentò a Marrone, fu Alfonso Montuoro, siciliano della zona di Agrigento (come Di Benedetto e come il capo dell’ufficio anagrafe di Varese), funzionario di una compagnia assicurativa di Milano, sfollato a Varese. Fu lui che mi accompagnò in Comune e che mi fece incontrare con Marrone. Il contatto, però, fu fuggevole, durò pochi minuti, per cui il mio ricordo è molto vago. Se ben rammento lui dette incarico ad uno dei suoi collaboratori di fornirmi la carta d’identità, passandogli un biglietto dove erano indicate le mie false generalità. Di Benedetto, invece, l’avevo conosciuto molto prima, quando avevo 17 anni. Lui, uscito dal confino di Ventotene, passato nella clandestinità, era venuto a Milano. Io allora avevo per compagno di banco, al liceo, Pietro Gaffà, col quale c’era già stato uno scambio di confidenze antifasciste. Fu lui che mi presentò a suo fratello, reduce anch’esso dal confino di Ventotene. Fu quest’ultimo a farmi conoscere Di Benedetto. Con loro mi incontrai parecchie volte. L’intenzione, evidentemente, era quella di reclutarmi ed io, peraltro, non chiedevo di meglio. Infine divenne tutto chiaro e io seppi che tutti e due erano del Pci. In quegli anni conobbi diversi altri comunisti. Uno di questi era Vittorio Bardini, che poi, dopo la Liberazione, divenne uno dei massimi dirigenti del Partito, membro della Direzione e segretario regionale in Toscana”.

 

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Il ricordo di Cavalieri

 

Un’altra testimonianza dell’opera generosa svolta da Marrone.

Io - dice l’avvocato Giorgio Cavalieri – ero un ebreo misto, nato nel 1921, figlio di Edgardo Cavalieri, e avevo un fratello, Aldo, del 1924. Eravamo tutti di Varese. Mia madre era ariana. Poco dopo l’8 settembre, per la precisione il 17 settembre, andammo a Ponte Tresa e da lì, passando il torrente Tresa, ci rifugiammo in Svizzera, dove restammo fino al termine della guerra. Con noi c’era anche un tale Jarach, nostro parente. Calogero Marrone lo conobbi nel 1940. Lui, fra l’altro, era arrivato a Varese nel ‘31, su suggerimento di un suo parente, il cavalier Trovato, che l’aveva informato del concorso bandito dal Comune. Quando lo conobbi era appena iniziata l’estate e io da un anno ero iscritto all’Università di Milano. Fui chiamato in Municipio per preparare con altri studenti, sotto la direzione di Marrone, degli elenchi di persone che poi seppi che erano di soldati al fronte. Quegli elenchi servivano per far loro avere dei pacchi-dono. Ritrovai Marrone nel ‘43. Lo ricordo come un uomo buonissimo, generoso. Posso testimoniare che nel settembre del ‘43 alcuni miei parenti, ricercati come ebrei, già compresi nelle liste fornite dal podestà ai tedeschi, riuscirono a lasciare Varese e a raggiungere l’abitato di Mondonico sopra Ganna, dove vissero tranquilli sino alla Liberazione. Si trattava dei miei cugini Laura e Ferruccio Pizzo di 17 e di 23 anni, della loro madre e mia zia Emilia Cavalieri di 50 anni, nonché di mia nonna Paola Carpi Cavalieri di 76 anni. Tutti loro vissero senza che nessuno li disturbasse, avendo documenti falsi ma sicuri, forniti da Marrone. Non fosse stato così l’arrivo di quattro estranei in un piccolo paese di cento abitanti sarebbe stato sicuramente notato. Ho anche memoria di un altro ebreo polacco, tale Szia Amsterdam, commerciante di pellicce, che sopravvisse a Valle Olona, alle porte di Varese, con la moglie, grazie ai documenti certamente falsi”. 

Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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