Triangolo rosso

TESTIMONI DEL ’900 ITALO TIBALDI

Il contabile della memoria

Partigiano a 16 anni – Deportato a Mauthausen dove contrasse una grave malattia Da quasi mezzo secolo ha fatto di una puntuale e commossa ricostruzione della deportazione politica e razziale una ragione di vita

 

di Ennio Elena

 

Italo Tibaldi è nato a Pinerolo il 16 maggio 1927. Studente in un istituto tecnico, dopo l’8 settembre è salito in montagna col padre, ufficiale di carriera. Sceso a Torino per incontrare partigiani della II divisione alpina GL, il 9 gennaio del ‘44 è stato arrestato in seguito ad una delazione. Dopo essere stato rinchiuso all’albergo Nazionale, sede delle SS, e successivamente detenuto alle Nuove, è stato deportato a Mauthausen e in seguito nel sottocampo di Ebensee dove ha contratto una grave forma di tubercolosi. Rientrato in Italia, dopo un lungo periodo di cure ha lavorato al Comune di Torino e alla Regione Piemonte. Nel 1955 ha iniziato una puntuale e commossa ricostruzione della deportazione che ha presentato col titolo La geografia della deportazione italiana al convegno sul sistema concentrazionario e sulla deportazione svoltosi a Genova il 29-30 novembre, 1 dicembre dello scorso anno. Al tema della deportazione, e in particolare ai “trasporti” dei deportati, Tibaldi ha dedicato il volume Compagni di viaggio.

Il manifesto

Il 4 gennaio del 1944 apparve sui muri di Torino un manifesto redatto in italiano e in tedesco nel quale il comandante della piazza annunciava alla popolazione il trasferimento e la reclusione in uno “Straflager” di cinquanta detenuti. Molti erano stati arrestati dopo un attentato. Altri vennero aggiunti al gruppo per arrivare al previsto numero di cinquanta. È l’unico caso conosciuto di una deportazione annunciata, una misura intimidatoria nei confronti dei torinesi i quali così appresero che esistevano le deportazioni nei campi di sterminio. Il convoglio partì da Torino il 13 gennaio e arrivò a Mauthausen il giorno successivo. Del gruppo di deportati - 45 politici e 5 ebrei - faceva parte Italo Tibaldi, poco più che un ragazzo, arrestato pochi giorni prima.

Il viaggio

Ha scritto Primo Levi ne I sommersi e i salvati: “Quasi sempre all’inizio della sequenza del ricordo sta il treno che ha segnato la partenza verso l’ignoto; non solo per ragione cronologiche, ma anche per la crudeltà gratuita con cui venivano impiegati ad uno scopo inconsueto quegli (altrimenti innocui) convogli di comuni carri merci. Non c’è diario o racconto, fra i molti nostri in cui non compaia il treno, il vagone piombato, trasformato da veicolo commerciale in prigione ambulante o addirittura in strumento di morte.” “Trasporto” è un termine neutro dietro il quale si celano sofferenze, ansia per il futuro. Il viaggio è il prologo del campo, della detenzione in un luogo sconosciuto. Così descrive il suo Tibaldi: “ Carceri Nuove di Torino, 13 gennaio 1944, ore 3,30. La porta della cella n. 60 del II braccio viene aperta dalle SS e con Porcellana e Montrucchio vengo sospinto bruscamente nella rotonda del carcere dove molti altri già attendono. Veniamo contati più volte. Il numero previsto è finalmente raggiunto: siamo cinquanta, in attesa. “Poi, in autocarro, ci portano a Porta Nuova. Saliamo sul carro bestiame fermo ad un binario, consegnati a quattro militi della polizia di frontiera “Alpenjager”. Qualcuno urla di far partire subito questo strano vagone per sottrarre il suo carico agli sguardi dei viaggiatori del treno cui è agganciato. “Terminata la detenzione, comincia così la nostra deportazione: è il primo trasporto di deportati politici e razziali che parte da Torino e dal Piemonte diretto a un campo di sterminio. Nella notte passiamo da Bolzano e il mattino del 14 gennaio veniamo scaricati a Mauthausen. Massicciamente scortati attraversiamo il piccolo paese e raggiungiamo il lager sulla collina. Dopo un viaggio breve ma massacrante i miei compagni ed io siamo arrivati. A tutti e cinquanta viene assegnato un numero di matricola dal 42271 al 42320. Divento il 42307. Sono il più giovane del trasporto, ho appena 16 anni ma presto diventerò un ‘anziano’.”

Un felice errore

“Quando entrai a Mauthausen” ricorda Tibaldi “venni prima definito studente e successivamente manovale. Subito mi risentii di questa specie di retrocessione. In seguito fui lieto per quell’errore: come studente avrei avuto poche possibilità di sopravvivere; come manovale invece facevo parte della forza lavoro della quale i nazisti avevano un gran bisogno e sfruttavano brutalmente.” L’errore gli salvò subito la vita ma non la salute. Recentemente ho rivisto la trasmissione “I misteri del nazismo”. In una puntata si parla di Albert Speer, il grande architetto amico di Hitler, scampato alla forca di Norimberga, passato dalle coreografie delle grandi manifestazioni del regime a responsabile della produzione del Reich. Alcune sequenze hanno mostrato le gallerie nelle quali i forzati del Reich dovevano lavorare in condizioni facilmente immaginabili. “Scavavano le gallerie perché fino all’ultimo c’era chi sperava nell’arma segreta” ricorda Tibaldi. E l’efficientissimo architetto Speer, autore del cosiddetto “miracolo” che porta il suo nome, assolse brillantemente come sempre il suo compito, lasciandosi alle spalle una folla di morti e di malati. Come Tibaldi, affetto da tubercolosi polmonare bilaterale dalla quale, tornato libero, guarì dopo lunghe cure grazie ai non mai abbastanza ringraziati antibiotici.

Il deportato sindaco

Un problema che ricorre spesso nelle vicende degli ex deportati è quello del reinserimento nella vita di tutti i giorni. Per Tibaldi questo problema non c’è stato perché, lasciato il lavoro, è addirittura diventato sindaco del paese dove risiede, Vico Canavese, e presidente della Comunità Montana della Val Chiusella. “Credo di essere stato l’unico deportato - sindaco” commenta. Se si può riassumere in uno slogan il motivo principale che ha spinto Tibaldi a intraprendere la sua ricerca sulla deportazione italiana, penso che lo slogan sia questo: non liberarsi dal ricordo, che può diventare opprimente con il suo carico di dolore e condizionare l’esistenza, ma liberarsi col ricordo. Trasformare “io c’ero” in “noi c’eravamo”, fare della propria drammatica esperienza il tassello di un quadro molto più ampio e composito, l’affresco di una vicenda corale come è stata la deportazione politica e razziale italiana. E farlo, e questa mi sembra la caratteristica, non solo raccontando ma documentando.

La memoria e la storia

All’inizio di questo lungo, minuzioso lavoro da “contabile della memoria”, per trasformare la memoria in storia, c’è, ricorda Tibaldi, il “desiderio di incontrare i compagni del mio trasporto. Un desiderio che risale al momento in cui ero rientrato in Italia, nel giugno del 1945. Presto però mi ero reso conto che molti di loro non li avrei più rivisti perché molti, troppi, non erano tornati. La mia ricerca dei sopravvissuti è iniziata così con molta sofferenza e, quasi senza che lo volessi, si è ben presto allargata .” “Ma ricostruire i ‘trasporti’ ai campi di eliminazione nazisti” scrive Tibaldi nella Introduzione ai Compagni di viaggio “voleva anche dire rendere viva l’immagine di tutti compagni di quei viaggi maledetti. Significava documentare la prima ‘ stazione ’ sulla via dell’inferno, la prima selezione, il passaggio brutale dalla vita dell’uomo detenuto a quello dell’uomo matricola. Ed è forse per questo che il trasporto rappresenta per noi sopravvissuti uno dei peggiori ricordi della deportazione.” Aggiunge, esprimendo un desiderio umanamente comprensibile: “Tutti avremmo voluto dimenticare, per smettere di vivere con il passato, con quel passato di dolore e di orrore, ma se la scrittura può avere un effetto catartico, è pur vero che cerco di dimenticare subito quanto ho scritto.”

Si può dire che la ricerca rappresenta anche una sorta di liberazione dal ricordo, paradossalmente mentre lo rievoca.

“Sì, raccogliendo e ritrovando i nominativi ho cominciato a ricostruire, uno dopo l’altro, a volte partendo da esili tracce, i trasporti dall’Italia verso i campi di sterminio nazista. E anche la mia sofferenza si è in qualche misura ridotta. E così la mia ricerca, iniziata per ricongiungermi con i miei compagni di viaggio si è estesa a tutti i compagni di tutti i viaggi diretti ai KZ”.

Hai qualche rimpianto?

“Sì, è quello che in tutti questi anni di lavoro non sono ancora riuscito a trovare tutti i compagni di viaggio, sia quei pochi che sono sopravvissuti sia i molti, i troppi morti.”

È persino ovvio rilevare che si è trattato di un lavoro impegnativo, allargatosi al di là delle tue intenzioni.

“Sì, perché quasi senza rendermene conto mi sono trovato coinvolto in un impegno che si è via via ampliato. Non sono uno storico, sono diventato un ricercatore ‘autodidatta’ che partendo da una formazione prettamente tecnica ha cercato di comporre un mosaico umano, che non ha più smesso di raccogliere dati, di prestare attenzione a tutto quanto veniva conosciuto, raccolto, pubblicato, instaurando con gli amici che man mano rintracciavo un dialogo continuo, intenso, vivo.” Se in Compagni di viaggio i dati sono inseriti in un discorso disteso, alternati a riflessioni, considerazioni, le pagine della relazione presentata al convegno di Genova, come Quaderno della Fondazione Memoria della Deportazione, colpiscono perché la forza dell’argomentazione è affidata soprattutto ai numeri, ai grafici, alle tabelle. L’eloquenza delle cifre, come si usa dire. Ricostruzione nominativa di 288 trasporti, 40 mila numeri di matricola, rapporto trasporti-deportati, questi ultimi divisi per regione, ecc: Un’autentica Geografia della Deportazione Italiana, come dice il titolo della relazione. Una drammatica contabilità che nei suoi grafici colorati, nei suoi prospetti riassume decine di migliaia di drammi, che non consente “ma” e “però”, minimizzazioni, indifferenza, oblio.

Lavoro da solitario

Tibaldi dice di aver lavorato da solitario “in modo molto semplice, artigianale, armato di matita e di gomma, di forbici e di colla, raccogliendo e ricopiando elenchi da altri elenchi, da libri, da lettere, confrontando fonti diverse, integrandole tra loro e organizzando i dati e le notizie che man mano rintracciavo.” Dice anche di non aver mai usato il computer, un po’ perché quando ha iniziato la ricerca non esistevano i mezzi di cui si dispone oggi ma anche perché, e questa motivazione dimostra chiaramente il suo comprensibile coinvolgimento emotivo, “poi più avanti, lo percepivo come uno strumento troppo freddo, asettico per assemblare il materiale che mi veniva offerto da quelli di cui scrivo, di cui parlo e che sono i miei compagni di deportazione

Viaggio nel passato

Di questo faticoso e commosso viaggio nella memoria, Tibaldi ha pubblicato i primi risultati delle sue ricerche su Triangolo Rosso nel 1983 e la sua ricerca si è affiancata a quelle di altri enti, organizzazioni, ex deportati per cui, come nota Daniele Jalla nella prefazione a Compagni di viaggio, se è vero che Tibaldi ha lavorato da solitario non si è trovato isolato anche perché al centro di una vasta rete che egli stesso aveva contribuito a creare. La ricerca ha avuto anche l’obiettivo di cercare di stabilire le dimensioni quantitative della deportazione politica e razziale dall’Italia, di fronte a contrastanti cifre sui deportati, e per farlo a Tibaldi è sembrato, ed è stata una scelta giusta, puntare soprattutto sui trasporti, arrivando alle cifre elencate nella relazione. Un lavoro che continua quello di Tibaldi che, dice, ora sta occupandosi del campo di sterminio di Flossemburg. Un lavoro che, ribadisce, “non nasce dall’ossessione del ricordo ma dall’urgente pressione di un’esigenza morale, tanto più necessaria in quanto c’è il rischio di un’attenuazione generale della coscienza di quello che ha rappresentato per decine di migliaia di uomini e di donne la deportazione nei campi di sterminio e di eliminazione.”

Perché questa distinzione tra “sterminio” ed “eliminazione”?

“Perché lo sterminio è rappresentato dal fatto che venivano mandati a morte subito i vecchi, i malati, i bambini, tutti quelli che non potevano essere sfruttati; l’eliminazione si attuava successivamente nei campi con le inumane condizioni imposte ai deportati, la morte provocata dal freddo, dalla fame, dallo sfruttamento bestiale, dalle violenze”.

Quarantamila matricole di deportati individuate nella tua ricerca, quarantamila vite di donne e di uomini, quarantamila momenti di una storia tragica nella quale c’è la sofferenza ma c’è anche la difesa della dignità. Di questa tua lunga esplorazione nella deportazione, c’è qualcosa, qualcuno che ricordi più frequentemente?

“I compagni del mio trasporto, naturalmente, anche perché, come ho detto, è da lì che è partita l’idea della mia ricerca.”

Se dovessi fare un bilancio di questo tuo lavoro, dei risultati ottenuti, ti sentiresti soddisfatto ?

“Un gruppo dei tanti ragazzi che vengono in visita ai campi di sterminio ha innalzato uno striscione con la scritta: “ Io non c’ero, ma lo so”. Mi sembra il premio più bello per la mia fatica.”

Da Triangolo Rosso, dicembre 2002

sommario