Triangolo rosso

L’Autorità giudiziaria di Dortmund sta indagando sui criminali nazisti

La Germania riapre il caso. Sarà fatta giustizia per Cefalonia

 

di Alfio Caruso

 

Adesso che perfino la magistratura tedesca ha deciso di riaprire il caso Cefalonia, riusciranno gli straordinari ragazzi della divisione Acqui ad ottenere giustizia anche in casa propria? A Norimberga, nell’unico processo finora effettuato contro i responsabili della strage, il generale Telford Taylor, responsabile dell’accusa, disse al generale Lanz, responsabile dell’operazione: “Signor Lanz io trovo il suo comportamento vile, disonorevole e non conforme alla verità. Questa strage deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi (il riferimento è alla fucilazione di 129 ufficiali alla casetta rossa il 24 settembre, nda) è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato. Questi uomini, infatti, indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra. Erano guidati da capi responsabili che, nel respingere l’attacco, obbedivano a ordini del maresciallo Badoglio loro comandante in campo militare e capo politico debitamente accreditato dalla loro nazione. Essi erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, considerazione umana e trattamento cavalleresco”. I giovani procuratori di Dortmund, che stanno indagando su decine di loro connazionali appartenenti alla 1a divisione da montagna Edelweiss e alla 104 divisione Cacciatori delle Alpi, sostengono che alla fine dell’inchiesta sarà provata l’accusa di delitto contro l’umanità per la quale si sono mossi. Alla procura militare di Roma, invece, nessuno ha ancora pensato di tirar fuori dall’armadio delle vergogne gli incartamenti della vecchia indagine, aperta nel ’56 e archiviata nel ’60, contro i trenta ufficiali della Wehrmacht colpevoli di aver passato per le armi cinquemila soldati italiani.

Taviani e Martino, la “ragione di Stato”

In quegli anni di scarsa grazia fu l’intervento di due ministri, il democristiano Taviani, responsabile della Difesa, e il liberale Martino, responsabile degli Esteri, a suggerire che non fosse opportuno mettere in cattiva luce i cittadini di un importante partner qual era la Germania Ovest. In un’intervista concessa pochi mesi prima di morire, Taviani spiegò che a muovere lui e Martino erano state considerazioni di realpolitik: non volevano, cioè, creare difficoltà alla Germania che aveva appena ricostituito l'esercito, che stava entrando nell’alleanza atlantica e assieme alla quale l’Italia era sul punto di fondare il Mec, il papà dell’Europa Unita. Tutto plausibile, tranne il motivo che forse più del buon nome della Germania consigliò a Taviani tanta cautela. I battaglioni dell’Edelweiss erano composti da truppa e graduati austriaci e da ufficiali tedeschi. Tra gli austriaci diversi erano stati cittadini italiani fino al trattato del 1939, allorché a quelli di lingua tedesca fu consentito di optare se restare sudditi di Roma o se diventarlo del Terzo Reich. Ma quanti avevano scelto la Germania, dopo la guerra tornarono a essere cittadini italiani in una terra attraversata da forti contrapposizioni etniche. Il riconoscimento delle legittime garanzie da attribuire alla minoranza austriaca impegnò la DC in una trattativa lunga e spigolosa. Già nel ’56 Taviani sapeva che nella controparte militavano alcuni di coloro che avevano trucidato i soldati della Acqui a Troianata, a Frankata, nel vallone di Santa Barbara, alla ‘casetta rossa’, a Dilinata, al ponte Kimonico. Di conseguenza per non incarognire il clima, per non scaraventare nelle pesti la DC serviva che il martirio della divisione venisse allontanato dalla coscienza del Paese e dimenticato. Nel luglio del 2001 il settimanale sudtirolese FF ha pubblicato una lunghissima intervista con Adolf Prunster, un meranese che militò nell’Edelweiss. Pur attento a limitare le proprie responsabilità, Prunster ha ammesso che a Cefalonia i reparti del maggiore Klebe, detto il macellaio, ebbero mano libera nel far pagare agli italiani quello che gli ufficiali della Wehrmacht avevano definito un tradimento e per l’appunto verrat (tradimento) fu denominata la riconquista dell’isola. Prunster ha altresì spiegato che in una situazione identica alla sua si sono trovati in molti, ma che nessuno ha mai avuto fastidi per quanto avvenuto sull’isola. L’ex soldato le ha definite cose non belle legate alle tristi necessità della guerra.

Cancellato l’episodio dalla magistratura militare

Assieme alla cattiva coscienza della democrazia cristiana a tenere seppellito l’episodio più nobile dell’esercito italiano nel secondo conflitto mondiale hanno contribuito pure taluni settori del Partito comunista. Al vecchio PCI costava ammettere che la resistenza nacque a Cefalonia ad opera soprattutto di ufficiali monarchici. Una resistenza lontana da qualsiasi ideologia politica, una resistenza cementata soltanto dal nome dell’Italia, sebbene a volte si caricasse e si andasse a morire gridando “viva il Re”, “avanti Savoia”. Con i tanti stanchi del fascismo s’immolarono anche alcuni comunisti e alcuni fascisti e questa mescolanza forse puzzava negli anni della caldissima guerra fredda che spaccò in due il Paese. D’altronde chi avrebbe avuto il massimo interesse a propagandare una vicenda così esemplare da cinquantotto anni preferisce tacere. Ci riferiamo all’esercito che della memoria di quegli eroi non si è mai curato. In una conferenza tenuta all’Accademia militare di Modena ci è capitato di dover raccontare e spiegare ai futuri generali chi fossero quei loro lontani colleghi e coetanei, che preferirono l’onore alla vita. Lo strano silenzio tenuto dall’esercito ha una spiegazione nella versione edulcorata fornita per decenni. Non è assolutamente vero che la divisione fu compatta sin dal primo giorno nell’opporsi al tedesco. Accadde esattamente il contrario: soprattutto gli ufficiali di carriera all’inizio si volevano arrendere. Furono quattro ufficiali provenienti dalle arti e dai mestieri a intuire che a Cefalonia era in gioco molto di più del destino di 11.700 militari. Fu attorno a questo piccolissimo nucleo che ora dopo ora si formò e s’ingrossò il partito del no. Per una settimana a Cefalonia saltarono regole e disciplina, si visse in un clima di quasi anarchia. Gandin tentò più volte di arrendersi, e non lo spingeva la codardia bensì il desiderio di salvare la vita ai suoi ‘figli di mamma’. Non lo fece per paura di essere deposto, perché non controllava la divisione e non sapeva se i più avrebbero ubbidito o disubbidito. Soltanto dopo il referendum tra il 13 e il 14 settembre, quando il 90 per cento degli italiani decise di non cedere le armi ai tedeschi, la Acqui si ricompose, Gandin tornò a essere l’amato comandante che era stato fino al settembre.

Tra le truppe si ingrossò il partito dei “no” alla resa

Anche la concessione delle medaglie ha seguito la via della storia ufficiale: molti maestri, ragionieri, impiegati comunali, contadini, operai ne sono stati misteriosamente privati. Ci sono eroi che non vengono ricordati neppure nelle citazioni. In tal modo si è creata una sproporzione fra gli ufficiali del quartier generale, dei comandi e i poveracci che sfidarono gli Stukas e i Maser con le baionette e le bombe a mano perché, magari, c’era fretta di conquistare un incrocio. Purtroppo la titubanza delle Forze armate nel trasformare Cefalonia in un monumento della memoria è proseguita anche in questi mesi di grande fervore attorno alla Acqui. Il bel romanzo di de Bernières e il brutto film di Maddsen hanno dato notorietà internazionale alla strage. Gli italiani hanno finalmente scoperto di cosa furono capaci quei ragazzi (l’età media dei 9400 morti è di 24 anni) e c’è stata una corsa a riappropriarsene. Abbiamo partecipato a decine d’incontri segnati dalle lacrime di tanti partigiani scattati idealmente sull’attenti nel ricordo di quei loro compagni.

Una petizione per chiedere il riconoscimento

L’unica voce che continua a mancare è quella dell’Esercito. Come continua a mancare da parte del governo di Berlino l’accettazione della verità. Per difendere il buon nome della Wehrmacht, colpevole di quella che il Sunday Times ha definito la peggiore strage di militari di tutta la guerra, la Germania ancora oggi sostiene che a Cefalonia furono uccisi un generale e quattro ufficiali: in pratica sono stati tolti i tre zeri al numero delle vittime, da 5000 a 5. Per un anno ha girato lungo la penisola una petizione nella quale veniva richiesto l’intervento di Ciampi, di Berlusconi, del Parlamento per ottenere dalle autorità tedesche il riconoscimento della strage e le scuse ai parenti delle vittime. Dopo sessant’anni crediamo che i ragazzi della Acqui se lo meritino.

Da Triangolo Rosso, marzo 2002

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