Triangolo rosso

Una giovanissima impiegata sceglie la Resistenza - Partigiana nella terza brigata Gap dove incontra anche l’amore - Il “sogno” della montagna

“Sandra”, soldato  senza uniforme

 

di Ennio Elena

 

L’estate del ‘44 se ne andava lasciando una scia di giornate calde e insolitamente limpide per Milano, un mondo in guerra, una città oppressa. “Sandra” arrivò in largo Argentina qualche minuto prima delle cinque, ora fissata per un appuntamento. “Era nostra abitudine arrivare sempre un po’ in anticipo agli appuntamenti” ricorda “era una regola clandestina per stare più attenti, per evitare di cadere in eventuali imboscate. Anche se quella precauzione quel giorno non servì.” In largo Argentina arrivò, come in altri luoghi, non solo per quell’appuntamento di “lavoro” ma per un appuntamento che aveva fissato con se stessa, con la storia tormentata e gloriosa di quegli anni, per una precisa scelta di vita.

Una scelta di vita

“Sandra” è il nome di battaglia che Onorina Brambilla scelse per l’attività clandestina. Era una giovanissima impiegata in una piccola fabbrica metalmeccanica. Entrò in contatto con antifascisti prima del 25 luglio e successivamente fece parte dei Gruppi difesa della donna, quelli dai quali poi sorse la mitica Udi. Dei Gruppi era responsabile Vera Ciceri, un’antifascista che aveva scontato 8 anni di carcere. “Certo”, dice “era un’attività impegnativa e interessante, ma io volevo fare qualcosa di più, partecipare in maniera più diretta alla lotta di Liberazione. Il mio sogno era di andare in montagna. Forse per un’idea un po’romantica della montagna”. Invece le viene proposto di entrare a far parte della III brigata Gap, intitolata a Egidio Rubini, un gappista assassinato dai nazifascisti a Monza. Accetta, lascia il lavoro e diventa una militante della Resistenza a tempo pieno.

In brigata con ‘Visone’

Mentre si avvia all’appuntamento è fiduciosa che vada bene anche questa volta, come lo è andata tante altre volte da quando è gappista nella brigata comandata da ‘Visone’, il nuovo nome di battaglia che Giovanni Pesce ha assunto quando da Torino, dove era “bruciato”, si è trasferito a Milano. ‘Visone’ è il nome del suo paese di origine. Pesce, che sarà medaglia d’oro al valor militare, è di poco più anziano di “Sandra” e di altri giovani gappisti ma ha alle spalle l’esperienza della guerra di Spagna nella quale ha combattuto giovanissimo. “Sandra” partecipa all’attività della brigata, un po’ come staffetta (come vengono definite tutte le donne della Resistenza) ma anche quale protagonista di quelli che sono i compiti dei gappisti dalle azioni di sabotaggio all’eliminazione di spie. “Un’attività particolarmente pericolosa” ricorda Sara “perché eri sempre in mezzo a loro.” Un compito eroico al quale Pesce ha dedicato due libri, Senza tregua e Soldati senza uniforme, uno dei quali era “Sandra”.

Il “sanmarchino” galante

Andrà bene, pensa, come quella volta che capitò in mezzo ad un blocco, senza possibilità di fuga. Aveva parecchie pistole che doveva recapitare e, dice, “stavolta sono fregata pensai.” Mise il piede a terra, si avvicinò un “sanmarchino” che volle fortunatamente fare il galante e le disse: “Vai bella !”. “ Mi avviai mentre mi tremavano le gambe”. O quando ritirò a Vialba delle armi e con il pericoloso carico salì sul tram 33 che da lì arrivava fino all’attuale piazza della Repubblica che allora si chiamava largo Fiume. “Sistemai” ricorda “il pesante pacco sotto una delle panche di legno. Sedettero accanto a me due giovanotti con l’intento di farmi la corte. Io pensavo al modo in cui sarei riuscita a sganciarmi prima che arrivassimo al capolinea. Estrassi il pacco da sotto la panca e uno dei due disse ‘ Ma com’è pesante!’ È roba da mangiare che mi ha dato una mia parente” risposi. Poi finalmente, scendendo un po’ prima del capolinea, riuscii a liberarmi dei due corteggiatori che si erano offerti di portare il pacco, ignari del gravissimo rischio che avrebbero corso”.

Nasce anche l’amore

Tu e Visone vi siete fidanzati in quel periodo tempestoso. La domanda è scontata ma inevitabile: com’è successo ?

La risposta è tacitiana: “ Ci siamo conosciuti e ci siamo piaciuti.” E quell’amore nato in mezzo ai pericoli, ai rischi, i fidanzati divisi per mesi da una diversa sorte, ha resistito e resiste e “Sandra” è diventata la signora Onorina Brambilla

Pesce.

L’appuntamento

L’appuntamento in quel caldo giorno di settembre in largo Argentina era con due persone: con un tale Arconati che era stato presentato a ‘Visone’ dal comando delle Brigate Garibaldi, che si diceva partigiano, che avrebbe dovuto, dice “Sandra”, “rifornirci di armi, di esplosivi, di munizioni”; l’altro incontro era fissato con un’altra staffetta “Narva” con la quale avremmo dovuto poi recarci ad un recapito, a Porta Romana, per ritirare delle armi. All’appuntamento avrebbe dovuto essere presente anche ‘Visone’ che non venne perché qualche giorno prima in un’azione a Città Studi un gappista, Romeo Conti, era stato ucciso ed un altro, Antonio Sironi, ferito e ricoverato al Policlinico. “Devo pensare a farlo fuggire” mi disse ‘Visone’e quindi vado all’ospedale. Tu di’ ad Arconati che fisseremo un nuovo incontro.”

Una sana diffidenza

“Devo dire che a ‘Visone’ quel personaggio non piaceva. Avevamo avuto con lui un precedente incontro a Porta Magenta nel quale era stato fissato l’appuntamento per quel 12 settembre. Non gli piaceva, anche perché faceva troppe domande, circostanza che giustamente desta sospetti durante la clandestinità. Lo disse a me e anche a Italo Busetto del Comando generale delle Brigate Garibaldi il quale lo rassicurò e gli disse: ‘Ma non sono mica tutti coraggiosi come te.’ Comunque ‘Visone’ non era per nulla convinto della buona fede di quell’individuo”. Una sana diffidenza perché colui che si presentava come Aldo Arconati, appartenente a questa nobile famiglia, si chiamava in realtà Giovanni Jannetti ed era uno spregevole provocatore (che pagò di persona la sua ignobile attività) ed il cui obiettivo quel giorno era naturalmente la cattura di ‘Visone’.

La trappola

“Mi pareva che tutto fosse normale. Arrivando vidi subito “Narva” ferma davanti ad un negozio di oreficeria, a pochi metri dall’ingresso del cinema. Mi avvicinai e l’avvertii: ‘Aspettami, dopo andiamo insieme a Porta Romana’. Poi vidi Arconati, era fermo davanti al portone di una casa, dopo il cinema. Alto, stempiato, biondiccio, sembrava guardarsi intorno con apprensione, ma questo lo dico adesso, allora non ci badai. Lo osservai meglio per essere certa di riconoscerlo: l’avevo visto una sola volta e per pochi minuti, avrei potuto sbagliarmi. Poi mi decisi, mi avvicinai e pronunciai la parola d’ordine: ‘Mi manda Visone. Pensai, se sbaglio, se non è lui mi scuserò con questo signore. Ma era proprio lui, e nel momento in cui pronunciai la parola d’ordine mi afferrò per un braccio: ‘Attenta siamo circondati!’ disse… Mi trascinò per qualche passo, poi mi lasciò di colpo e si allontanò velocemente. Non riuscii neppure a vedere da che parte fosse andato perché una mano mi si posò violentemente sulla spalla. Mi voltai, due uomini mi circondavano e vidi altri due dietro di loro, sguardi freddi, minacciosi. Erano due poliziotti fascisti al servizio delle SS che seppi poi chiamarsi Rossi e Cermenati. Guardai oltre le loro spalle per vedere Narva ma non c’era più, evidentemente avevano notato quando mi ero avvicinata a lei e l’avevano arrestata.”

Nelle mani del nemico

“Ero confusa, sbalordita, non coordinavo bene i miei pensieri, tutto si era svolto in pochi minuti. L’unico dato certo è che l’appuntamento con Arconti era una trappola alla quale ‘Visone’ era per caso sfuggito ma nella quale noi eravamo cadute in pieno. Stavolta non era andata bene. Poi mi ripresi un po’ e vidi molti uomini che si muovevano attorno, sembravano pacifici borghesi a passeggio. Mi fecero entrare in un bar e sedere ad un tavolino: non cessavano di chiedermi dov’era ‘Visone’ e a che ora sarebbe arrivato. Insistevano e allora risposi: Non so chi cercate, non so chi è ‘Visone’, io aspettavo un amico, non so se si chiama così. Probabilmente anche l’Arconati era ancora fuori del bar pronto ad indicare ‘Visone’ ai poliziotti e a consegnarlo nelle loro mani. Ero tranquilla perché sapevo che lui non sarebbe venuto. Rimanemmo a lungo nel bar, quando mi portarono fuori era buio. In via Monteverdi mi fecero salire su un’auto dove trovai ‘Narva’ seduta sul sedile posteriore. Come investigatori non erano granché, visto che invece di separarci ci lasciavano assieme. Ma queste sono considerazioni che si fanno dopo. In quel momento alle domande chi fossimo, che cosa facevamo in largo Argentina risposi prontamente io che dovevamo andare alla piscina Cozzi e naturalmente ‘Narva’ confermò. Dissi che lei non conosceva questo ‘Visone” che io avevo conosciuto al cinema un signore che mi aveva fatto la corte, ci eravamo rivisti un’altra volta e mi aveva chiesto di fare un’ambasciata per suo conto ad una persona che avrei incontrato davanti al cinema Argentina. Ho seri dubbi che abbiano creduto a questa storiella.”

“Saprò resistere?”

“Dal momento in cui entrai nella ‘Casa del Balilla’ di Monza, un attivo centro di repressione antipartigiana, dove mi avevano portato, un pensiero mi dominò: non dovevo parlare, non dovevo rivelare nulla. Addosso non mi avevano trovato niente di compromettente ma sapevo come i nazisti e i fascisti trattavano i partigiani, i patrioti che arrestavano. Egidio Rubini, combattente antifascista in Spagna, al quale era intitolata la mia brigata, era morto sotto le torture proprio nella prigione di Monza. Mi alzai dalla panca sulla quale ero seduta, come per voler esaminare meglio la stanza dove ero stata rinchiusa. Dalla parte della strada o del cortile c’era una vetrata con grandi finestroni chiusi. Se proprio non ce la faccio a resistere, pensai mi butto da uno di questi finestroni, qui sono al terzo piano, è sufficiente per morire sul colpo. Ma in quella stanza non sarei rimasta per molto. Entrò uno di quelli che mi avevano arrestata il quale, di fronte alla cocciutaggine con la quale sostenevo la mia versione, alla fine mi disse.‘ Se non parli sono costretto a passarti nelle mani dei tedeschi, il comandante delle SS è di là che aspetta il mio rapporto’. Non parlai e quindi concluse: ‘ Peggio per te, nelle loro mani parlerai..’”

La tortura di Werning

“E arrivai così al cospetto di Werning, questo famigerato ufficiale che comandava le SS tedesche e italiane alla ‘Casa del balilla’ di Monza. Il benvenuto me lo diede con un tremendo ceffone che mi colpì in pieno viso e mi scaraventò dalla parte opposta della stanza perché in quel momento non avevo paura ma sentivo un odio profondo ed alla sua frase: “Sappiamo tutto, ma vogliamo che ce lo dica tu’ risposi con parecchia incoscienza: Se lo sapete perché me lo chiedete? Poi cominciai a sperimentare che cosa significava la frase:‘Con loro parlerai..’ Arrivò un ucraino traditore del proprio paese, era il loro ‘picchiatore e si mise subito all’opera. Mi fece sdraiare a pancia in giù sulla scrivania, si sistemò tra le mani il ‘gatto a nove code’ e cominciò a picchiarmi con forza, sotto lo sguardo freddo di Werning e davanti alla segretaria che assisteva tranquillamente seduta alla macchina da scrivere. Non saprei dire quanto durò ‘l’interrogatorio’ mentre l’ufficiale insisteva nel chiedermi ‘ Dov’è ‘Visone’ ?’. Tra una frustata e l’altra piovevano pugni e schiaffi. Ad un tratto mi ritrovai sotto la scrivania senza sapere come vi fossi finita. Ricordo la tentazione che provai quando mi trovai con la bocca vicino al braccio del torturatore, la tentazione di morderlo. Resistetti all’impulso perché forse avevo il desiderio ma non la forza. Ero dolorante, semisvenuta, credo di aver molto gridato. Poi probabilmente erano stanchi anche i miei aguzzini perché se ne andarono. Uno di quelli che mi avevano arrestato, mi fece alzare, mi prese per un braccio e assieme ad altri mi accompagnò al carcere di Monza. Ero febbricitante, dolorante, non potevo neppure camminare, tutto mi girava attorno, mi svegliavo di soprassalto, facevo strani sogni… Ritornò come temevo Werning qualche volta, qualche schiaffo ma non fui picchiata così duramente come la prima volta.”

L’isolamento

“Durò due mesi la carcerazione, in isolamento. Soli compagni i pensieri, i ricordi, i ricordi di quel mondo al quale ero stata strappata in largo Argentina. Pensavo alla mia famiglia, ai compagni che continuavano la lotta, chissà se sapevano dov’ero. A mia madre che seppi impiegò quaranta giorni per ritrovarmi, dopo aver percorso tutta la città, visitando ogni carcere, ogni ospedale, ogni caserma, tutte le sedi fasciste, persino l’obitorio. Poi un bel giorno mi incontrò. Io stavo meglio, le ferite si rimarginavano, ripresi a mangiare, mi passavano qualche libro giallo da leggere. Mi reggevo abbastanza bene sulle gambe. Ma era la solitudine, fuori dal mondo.” Passava lentamente il tempo ma passava. E “Sandra”, anche se non lo dice, in quei lunghi colloqui con se stessa deve aver pensato con orgoglio di aver risposto “sì” alla domanda che l’assillava dal momento dell’arresto: “Saprò resistere?” “A metà novembre mi trasferirono nel carcere di San Vittore. Ero in una cella del famigerato “quinto raggio”, quello destinato ai prigionieri politici e agli ebrei. La parte femminile del “raggio” era stata lasciata alle suore, dirette dalla coraggiosa suor Enrichetta, che cercavano in tutti i modi aiutarci. Avevano ottenuto di lasciare aperte di giorno le nostre celle e a me, che arrivavo dopo due mesi di segregazione questa situazione parve persino bella.” Due giorni a San Vittore poi il 12 novembre partenza per il lager di Bolzano. “Fu un viaggio dominato dall’incertezza: andremo a lavorare in Germania, oppure ci portano a Bolzano, o chissà dove? “Bolzano non fu teatro degli orrori dei campi di sterminio in Germania, Austria, Polonia, perché doveva essere solo un posto di transito.”

Meno peggio che Mauthausen o Auschwitz…

“Indubbiamente. Ma anche lì non solo cibo scarso, specie per chi non lavorava come i prigionieri ritenuti pericolosi chiusi nel “blocco E”, calci, randellate, colpi di frustino toccavano per i più futili motivi, a volte anche senza alcun motivo.“C’erano bastonature feroci nella palazzina del comando e nelle celle dove due giovani ucraini di origine tedesca, Otto Zain e Michael Seifert, passati ai nazisti, massacrarono almeno una ventina di deportati. E a Pasqua del ‘45 venne picchiato fino ad ucciderlo un ragazzo veneto sorpreso a rubare qualcosa da mangiare. Noi dovemmo assistere all’atroce spettacolo, per vedere un ‘esempio’.” Michael Seifert, detto “Misha”, oggi quasi ottantenne, vive in Canada, a Vancouver, come un tranquillo e pio pensionato. In Italia è stato condannato ad una lunga fila di ergastoli per gli orrendi crimini commessi nel campo di Bolzano, tra i quali l’uccisione del ragazzo in quella “Pasqua di sangue.” “Molto pesava naturalmente l’angoscia per il futuro. Eravamo nelle mani delle SS, che cosa ci sarebbe toccato? Avremmo subito la stessa sorte delle migliaia di prigionieri che vedevamo partire, sicuramente per i campi di sterminio dei quali non si conoscevano tutti gli orrori ma che si intuivano come un mondo terribile.” “Quando arrivai a Gries, la località appena fuori Bolzano dove c’era il campo di concentramento, e vidi mura e reticolati, le sentinelle armate sulle piazzole di guardia ebbi la sensazione di precipitare in un mondo dove nessuno avrebbe mai saputo più nulla di te.”

Per voi donne naturalmente i disagi e le sofferenze erano maggiori.

“Senz’altro. Noi donne, a Bolzano come nei campi di sterminio eravamo trattate come gli uomini, senza alcuna differenza. Per i nazisti l’identità femminile era del tutto irrilevante, non c’era alcuna differenza né per il trattamento né per il lavoro. A Bolzano eravamo circa 500 detenute e fu una fortuna che non finissimo come migliaia di altre donne a Ravensbruck, da dove poche sono tornate. Con noi c’era anche Margherita, la prima moglie di Montanelli che era stata presa in ostaggio dopo l’arresto del marito e venne poi rilasciata.

La “Tigre”

Particolarmente crudele era la nostra guardia nazista che per questa sua sadica ferocia avevamo soprannominato la “Tigre”. Nei giorni di controllo dei pidocchi se ce li trovava addosso erano bastonate e qualche volta si rischiava di finire in cella. Eppure sapeva che non avevamo un’adeguata possibilità di lavarci, di cambiarci, ammucchiate nei letti a castello.”

I bigodini

“Mi ricordo che una volta, riuscita a venire in possesso di una pagina di giornale, ne arrotolai con una specie di bigodini i capelli.” In questa operazione, che “Sandra” ricorda con semplicità, c’è il tentativo di una giovane donna oppressa, angariata di difendere la propria femminilità, la propria personalità, un modo per opporsi a quello che era l’obiettivo dei nazisti: annullare la personalità dei prigionieri.” In maniera ancora più pesante per le donne.

La sartoria

“Su consiglio di Ottavio Rapetti, membro del comitato del Pci del campo, andai a lavorare in quella che con molta immaginazione si poteva definire una sartoria. ‘Se hai un lavoro’ mi disse ‘è più facile che eviti di essere deportata in Germania’. Era una specie di buco con una stufa a legna dove rammendavamo le nostre divise di prigionieri. Non era certo un lavoro interessante, ma l’importante era che rendeva meno probabile il mio invio in un campo di sterminio.”

Le “prigioniere-colf”

“La mia situazione migliorò quando, assieme ad altre prigioniere, venni inviata a fare le pulizie in un palazzo dove aveva sede un comando della Wehrmacht. Migliorò perché intanto si usciva dal campo, perché si mangiava là, e meglio. Inoltre i soldati ci davano delle pagnotte che noi portavamo al campo. I soldati non erano molto giovani e non avevano la crudeltà della ‘Tigre. Uno di loro mi fece la corte e mi propose addirittura di fuggire insieme. Poi lui scappò, ovviamente da solo. Successivamente dal campo non uscì più nessuno: ci avvicinavamo alla fine.

La prima tessera comunista

“Fummo liberati il 30 aprile del ‘45. Quello stesso giorno i tedeschi, con pignoleria burocratica, ci consegnarono un documento che certifica il nostro soggiorno nel campo. Il ricordo più caro di quel duro periodo è la tessera del Partito comunista, la prima, che ricevetti dall’organizzazione interna del partito, una tessera di piccolo formato, rossa, che conservo gelosamente.” “Nei numerosi incontri con i ragazzi delle scuole di vario ordine, al di là delle emozioni che mi procurano, ho sempre una preoccupazione: spiegare perché è avvenuto quello che racconto, per evitare che queste vicende rassomiglino ad una specie di avventure di Rambo. Dico loro: la libertà è un grande bene e per voi è qualcosa di naturale, di normale, come deve essere. Tutto quello che vi dico io, che vi diranno altri combattenti della Resistenza e prigionieri nei campi nazisti, che leggerete, è il caro prezzo che i popoli hanno dovuto pagare per riavere la libertà che era stata brutalmente soppressa, perché essa tornasse ad essere un fatto normale della nostra vita. Noi, voi, tutti dobbiamo far sì che in futuro non ci siano altre persone che debbano raccontare ad altri giovani gli orrori di una nuova barbarie.”

Da Triangolo Rosso, marzo 2002

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