Triangolo rosso

Per il governo tedesco gli internati militari italiani non sono “schiavi di Hitler”

 

di Aldo Pavia

 

Con una decisione assolutamente scandalosa, il governo tedesco ha fatto proprio il parere del professore Tomuschat, cattedratico di diritto internazionalepresso l’Università Humboltd di Berlino e perito del ministero delle Finanze (!). Gli internati militari italiani in Germania non sono da considerarsi “schiavi di Hitler” “ma normali” “prigionieri di guerra”. Una decisione che non ci sorprende in quanto nel corso dell’incontro a Berlino con il suddetto professore, la delegazione italiana, guidata dal generale Max Giacomini, presidente nazionale dell’Anei, si aveva avuto modo di avvertire una atmosfera non certo positiva. A nulla, inoltre, è valsa la relazione – anche questa in punto di diritto internazionale – della professoressa Maria Rita Saulle, ordinario di questa materia all’Università La Sapienza di Roma. I numerosi e probanti documenti alla relazione allegati, nonché l’ampio apporto storico del professor Cajani. Lungi da noi mettere in dubbio la competenza del professore Tomuschat, almeno per quanto concerne il diritto. Ma per quanto riguarda la storia del Terzo Reich qualche dubbio ci pare più che legittimo. Personalmente devo dichiarare una notevole difficoltà a ragionare in termini di diritto su quanto i nazisti fecero in totale ed assoluto dispregio di un qualsiasi diritto umano, nazionale o internazionale, riconoscendo unico diritto per loro sacro quello del Fuhrer e del Reich millenario. Razzista, schiavista e criminale. Salvo appellarsi ai diritti della democrazia – da loro violata ed assassinata – quando furono portati sul banco degli imputati per rispondere dei loro infami crimini! Così dicendo il governo tedesco non solo esclude gli Imi dal poter accedere agli indennizzi previsti dalla legge dell’agosto 2000 ma – e ciò ci pare essere ancora più grave – viene di fatto a negare l’innegabile: la verità su quella che fu la vicenda dei militari italiani deportati in Germania, in Polonia, in Austria. Vicenda riconosciuta nella sua giusta luce da storici tedeschi tra i quali Gerhard Schreiber che, nella sua più recente opera, ha sottolineato anche quale fosse la prevenzione “razzista” nei confronti dei militari italiani. Alla vergogna di una simile decisione il governo tedesco ha ritenuto di aggiungere anche l’offesa. Dichiarandosi disponibile a prendere in considerazione casi di “singoli militari italiani internati che fossero stati sottoposti a condizioni particolarmente dure per ragioni razziali o, per qualsiasi altro motivo, fossero stati deportati in un campo di concentramento”. In questi casi, ciò potrebbe comportare il diritto a prestazioni di indennizzo ai sensi della legge sulla Fondazione memoria, responsabilità e futuro. Quale memoria e quale responsabilità lascio a voi giudicare, visto l’accaduto. Ma torniamo all’offesa. Quindi, bontà sua, il governo tedesco prende in considerazione che ci possa essere qualche caso di trattamento particolarmente duro. Allora, a questo qualche caso, generosamente, diamo un pugno di marchi! Una ingiuria per tutti i superstiti – e per gli assassinati – di Dora, di Dachau, di Mauthausen, dei tanti KZ in cui furono resi schiavi anche militari italiani. L’Aned deve rispondere al governo tedesco invitando i suoi componenti a rileggersi (o a leggere una volta per tutte) la storia dei KZ. Scopriranno, lor signori, che nei lager nazisti non si finiva solo per motivi razziali o per altri non meglio precisati. E che, ebrei a parte cui era riservato un trattamento del tutto particolare nell’efferatezza, i deportati italiani, militari compresi ed indipendentemente dal motivo “burocratico” dell’arresto venivano distinti da un triangolo rosso, il cui significato era inequivocabile. Che nei lager dell’annientamento e dello sterminio tutti erano solo numeri, “pezzi” (e non aggiungo altri termini cari ai nazisti) destinati alla morte. Per gas, per lavoro, per fame, per malattie. Senza possibilità di altro destino. Che non vi erano condizioni più o meno dure: nei KZ l’unica condizione – e per tutti – era quella della criminale legge del lager. Il terrore era la regola, il più persuasivo e praticato degli strumenti di diritto di coloro che, secondo Goebbels, sarebbero passati alla storia come i più grandi uomini di Stato di tutti i tempi. A meno che qualcuno oggi voglia negare la storia o tentare di annacquarla con sospetti indennizzi. Indennizzi, sia chiaro, e non risarcimenti. Perché nulla di quanto fu perpetrato nei KZ può essere risarcibile.

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Il perdono tedesco e il governo fantasma

(f.g.)

 

Alla cerimonia per il 57° dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944 nel quale caddero sotto il furore bestiale dei nazifascisti 560 persone di cui oltre 100 bambini, gente innocente, senz’armi, tranquilla, estranea alla lotta partigiana, c’erano tutti meno il governo italiano, quello di Berlusconi, di Fini, di Bossi. Quel governo era al mare. Neppure uno straccio di sottosegretario. Proprio nessuno. A titolo personale era presente il premio Nobel Rita Levi Montalcini, fresca senatrice a vita. C’erano anche la Regione Toscana con il proprio gonfalone, delegazioni di decine di Comuni di tutt’Italia e di Province, di istituzioni pubbliche, di associazione private, i rappresentanti dei familiari delle vittime, le bandiere e i medaglieri delle organizzazioni partigiane e antifasciste. Un degno spettacolo impreziosito per la prima volta (questo sì un fatto straordinario), dalla presenza del rappresentante ufficiale del governo tedesco, con giornalisti tedeschi beninteso al seguito. La stampa nazionale italiana e la Tv italiana assenti. Davanti all’ossario dove sono registrati i nomi di 391 caduti (quelli identificati), l’incaricato d’affari dell’ambasciata della Germania a Roma Gerd Pluckebaum ha chiesto pubblicamente perdono per quella strage, dovuta, come ricordava un enorme striscione, “al sonno della ragione”. Il diplomatico tedesco avrebbe certamente voluto stringere la mano, per suggellare lo straordinario pur se tardivo gesto, a qualche autorità romana, ma non è stato possibile. Peccato, anzi vergogna. Ancor più intollerabile, se si ricorda, come ha fatto su l’Unità del 21 agosto scorso, con giusta indignazione, Franco Giustolisi, che proprio ai governi italiani dei primi anni ‘50, è da attribuire la responsabilità d’aver occultato nell’ “armadio della vergogna” di Palazzo Cesi di Roma, per superiori esigenze di politica (ragion di Stato) qualcosa come 2274 fascicoli processuali contro i responsabili delle centinaia di eccidi fascisti e nazisti (Cefalonia e Sant’Anna di Stazzema compresi) di cui 695 con i nomi e i cognomi dei vari responsabili. “Il nostro Stato, l’Italia a Sant’Anna di Stazzema non c’era - ha scritto Giustolisi – nessuno è venuto a chiedere perdono per questi 57 anni di silenzio, di tentativo di oblio. Nazisti e fascisti seppellirono i morti, non per pietà, bensì per non lasciare tracce. Noi, figli della patria della giustizia, le seppellimmo, la verità e la giustizia. E lo facemmo in modo mirabile cercando di eliminare ogni traccia”. Parole come macigni rese se si vuole ancora più insopportabili da Rita Levi Montalcini che ha ricordato come sia importante educare i giovani alla storia. Ma quale storia? Questa, con l’aria che tira oggi nel Paese, sembra destinata a essere sepolta.

Da Triangolo Rosso, ottobre 2001

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