Triangolo rosso

Un “principe” a Mauthausen

 

di Ennio Elena

 

Un secolo di storia

Mi sembra quasi irreale intervistare un secolo di storia. E di quale storia. Eppure Lodovico Barbiano di Belgiojoso, questo vecchio gentile signore, è al di là del tavolino sul quale ho posato il taccuino e una copia del suo libro Frammenti di una vita. C'è tanta Milano e tanta Italia nella sua lunga vita. E c'è il filo rosso della coerenza e dell'impegno alle spalle di Belgiojoso, come un lungo film che dalla Milano bene dei primi del Novecento ci porta all'inferno di Gusen, sottocampo di Mauthausen, dove, dice Belgiojoso, "era la vita, denudata e sincera, vera come la fame, vera come l'odio e l'amore per il vicino. I sentimenti, le passioni, gli odi, le voglie, i desideri e le paure più elementari - quelli di cui era nutrita la vita e che nella vita trovavano un altro nome, un'altra definizione - venivano alla luce, trovavano una totale, perfetta autenticità. Avevamo toccato il fondo - là dove molti erano destinati a rimanere - ma era un fondo di verità".

Architetto, mi ha molto colpito questa parte del suo libro di memorie. Si può trovare la verità in fondo all'abisso?

"Ho voluto dire che in queste circostanze drammatiche siamo noi stessi, senza mediazioni, senza schermi, senza convenzioni, senza ipocrisie. Noi stessi".

La sfida ai giganti

In fondo all'abisso si possono anche conservare la libertà, la dignità. Vestiti di stracci si possono sfidare i giganti, come lei scrive

Belgiojoso accenna di sì, col capo ed ha un sorriso pieno di orgoglio quando gli ricordo l'episodio del comandante del campo di Mauthausen che passa in rassegna i deportati: "Era un uomo piuttosto bello, abbronzato, con la camicia bruna a maniche corte ben stirata ed un frustino in mano, che volentieri mollava in faccia ai detenuti. Ero in prima fila e lui avanzava lentamente seguito dai suoi subalterni agghindati e odoranti di cuoio grasso, soffermandosi ogni tanto a scrutarci. Noi immobili, aspettavano col berretto in mano. Quando si avvicinò, con forza cominciai a pensare: 'Io sono libero, mentre tu sei schiavo. Tu non capisci quello che penso e io penso quello che voglio'. Canticchio dentro di me l'inno di Mameli, oppure Bandiera rossa; anzi per farti dispetto, la canto in tedesco: Die rothe Fahne... oppure canto l'Internazionale!" "Lui si fermò e mi guardò, probabilmente come guardava gli altri. lo mi sentivo - debbo dirlo - un leone e senza abbassare gli occhi ricambiai il suo sguardo: la prova di forza durò qualche attimo, poi lui riprese a camminare. Ero sudato per lo sforzo, ma dentro di me ero infantilmente felice. L’avevo affrontato". Nel salotto c'è una virtuale dissolvenza. Il tranquillo signore sparisce per lasciar posto al deportato che sfida con lo sguardo un feroce ufficiale delle SS: questa è la memoria che non si può violentare, addomesticare, stravolgere.

Si dice che chi non ha memoria non ha futuro. Ma veramente la memoria serve, ha un futuro?

"Sì, la memoria ha, deve avere un futuro perché è ricca di insegnamenti. Serve a ricordare quello che non doveva essere, che non dovrà mai più essere. La memoria può e deve avere un futuro se non solo la conserviamo ma la utilizziamo per rispondere alle domande che ci vengono rivolte, per raccontare, spiegare, propagandare".

Paura dell'incredulità

Ha mai avuto paura che gli avvenimenti che voi raccontate siano talmente terribili da sembrare incredibili?

"Sì, ho sempre avuto presente, parlando e scrivendo i miei ricordi, il rischio di non essere creduti, anche se nessuno ha mai manifestato apertamente la sua incredulità. Eppure l'ho fatto e occorre continuare a farlo. Come ho spiegato nell'introduzione a Frammenti di una vita ho esitato a lungo prima di scrivere, ma poi mi sono deciso perché è un patrimonio di ricordi che mi sembrava giusto far conoscere, perché si eviti di ricadere nella barbarie".

Ritiene che questa diffusione della memoria storica, la conoscenza di quegli anni tragici, cupi soprattutto da parte di chi li ha vissuti e sofferti in prima persona, sia particolarmente importante oggi quando sono in atto molti tentativi di falsificare quel periodo?

"Senz'altro. È particolarmente importante perché solo conoscendo la verità si impedisce di ricadere in quella tragedia".

Il fatto di essere un professionista le è stato di aiuto nella detenzione nel lager?

"La vita era durissima per tutti. lo non finii nella cava e fui invece mandato a lavorare alle officine Messerschmidt e Steyr dove, dopo un primo periodo ai forni della tempera, fui adibito alla rettifica di pezzi di fucili e di mitragliatrici, lavoro che per fortuna potevo fare stando seduto. Quando arrivai al campo mi qualificai come ingegnieur perché pensai chissà cosa capiscono questi se dico architetto e perciò alla fine di aprile mi mandarono con due tecnici polacchi a realizzare un, piccolo acquedotto per rifornire un campo in una località vicina".

Era come un dovere

Ha mai pensato, ricordando quei momenti terribili: ma ne valeva la pena?

"Mai. Ho sempre pensato che ne valeva la pena. Ho sentito quella scelta come un dovere."

Anche in momenti come questi che viviamo quando, cadute le ideologie sembrano essere caduti anche ideali, valori e ci si preoccupi solo di interessi?

"Anche adesso continuo a pensare che ne valeva la pena perché io ho fatto una scelta di vita".

Su quella scelta ha influito il ricordo, l'esempio di due suoi antenati come Cristina Belgiojoso Trivulzio e Federico Confalonieri, grandi figure del nostro Risorgimento?

"Senz'altro. Ricordo anche nel mio libro che in famiglia erano spesso citati ad esempio per il loro comportamento”.

Nessun rimpianto

Rivedendo il passato c'è qualcosa che rimpiange di non aver fatto?

"No, sono abbastanza soddisfatto. Posso aver fatto qualcosa male ma non ho rimpianti".

Tra le scelte che è soddisfatto di aver compiuto c'è senza dubbio quella di aver deciso di diventare architetto, professione nella quale ha fatto una prestigiosa carriera. Perché decise di fare l'architetto e non, ad esempio, il medico o l'avvocato?

"Perché sono un po' figlio d'arte dato che mio padre, Alberico era architetto e perché mi piaceva disegnare, occuparmi di case e anche di urbanistica, soprattutto come accadde dopo la guerra con i problemi riguardanti la ricostruzione che si ponevano a Milano pesantemente bombardata nell’agosto del ’43 e in tante altre città europee. Come ricordo nel mio libro di memorie la ricostruzione di Milano è avvenuta in modo sporadico e, malgrado gli sforzi degli amministratori e delle associazioni di tecnici, in assenza di un progetto omogeneo".

Il vento del rinnovamento

Nel 1932, subito dopo la laurea, lei e tre amici che con lei si erano laureati - Ernesto Nathan Rogers, Gian Luigi (Giangio) Banfi, Enrico Peressutti - avete dato vita allo studio professionale BB- PR destinato a diventare dopo la guerra uno dei protagonisti dell'architettura del '900. A quali concezioni ispiravate la vostra attività?

"Eravamo molto interessati, direi affascinati, da quel grande movimento moderno, di rinnovamento, di avanguardia che prende il nome dal Bauhaus, la scuola di architettura fondata nel 1919 a Weimar da Walter Gropius e che svolse una grande funzione non solo per ciò che riguarda l'architettura. Sentivamo che c'era qualcosa di nuovo, di importante in quel movimento che purtroppo nel 1933 venne soppresso da Hitler che lo considerava espressione di tendenze internazionalistiche nel campo dell'arte, in contrasto con la dottrina nazista".

A suo giudizio c'è stato di recente un importante movimento di rinnovamento culturale?

"Il '68 aveva buone intenzioni, si poneva apprezzabili obiettivi di rinnovamento. Ma... e a questo punto del discorso Belgiojoso agita una mano come per scacciare un pensiero molesto "... gli esami di gruppo, gli esami di gruppo".

In tema di architettura mi ha sempre incuriosito, e questa esigenza penso l'abbiamo provata in tanti, sapere com'è nata l'idea della Torre Velasca, di questo edificio, come dire?, un po' insolito e che rappresenta una delle realizzazioni più importanti del vostro studio.

"Si doveva ricostruire al posto di un intero isolato distrutto dai bombardamenti. Si potevano ricostruire case basse come quelle che c'erano in precedenza o realizzare un edificio in altezza: noi scegliemmo la seconda soluzione perché ci parve più suggestiva. Ritengo che la Torre Velasca sia una delle più significative opere del dopoguerra e che arricchisca il panorama cittadino".

La fatica di vivere

Nel suo Frammenti di una vita ha descritto le difficoltà incontrate per riprendere la vita normale, dopo il periodo trascorso nel campo di sterminio. La difficoltà maggiore era quella di convincersi a vivere mentre la grande maggioranza dei suoi compagni non era sopravvissuta. Scrive di aver anche pensato a togliersi la vita e ai modi di farlo.

Belgiojoso non smentisce, ovviamente, ma dallo sguardo si capisce che questo ricordo non è fra quelli più graditi, anche se testimonia di una grande sensibilità umana. Del resto ad una precedente domanda aveva detto che il ritorno alla normalità dopo quell'inferno aveva rappresentato uno choc. E c'era il ricordo lacerante di Gian Luigi (Giangio) Banfi, suo compagno nello studio e nel lager. Belgiojoso nel suo volume ricorda il loro ultimo incontro, nel blocco 30 dell'infermeria, dove Banfi era arrivato dopo che Aldo Carpi, il pittore autentico Buon Samaritano del campo di Gusen, era riuscito con un sotterfugio a trarlo dal blocco 31, dove c'era la "cameretta" della morte, e a farlo sistemare nella sua stessa cuccetta. "Giangio" è morto il 10 aprile meno di un mese prima dell'arrivo degli americani quando Belgiojoso era ritornato al lavoro.

Pensando al futuro

Ritiene sia possibile che l'umanità possa conoscere ancora gli orrori che lei e milioni di altri esseri umani avete sofferto, che ci possa essere un nuovo Olocausto?

La risposta è pronta e decisa: "No, ritengo che questo non sia possibile per molti motivi, perché troppe cose sono cambiate anche se penso che sia sempre presente il pericolo di dimenticare”.

Lei ha scritto: “Nel campo di Gusen ciascuno di noi aveva una speranza e più la vita si assottigliava più la speranza di ciascuno diventava importante. Ognuno si era abituato a vivere di speranza come qui uno vive della propria arte, della propria passione. Oggi che cos’è per lei la speranza?

“È il pensare positivo, ritenere che si possa vivere normalmente e che sia possibile ottenere un miglioramento generale dell’umanità”.

Sono diverse le definizioni date del Novecento: secondo uno scrittore, Golding, “è stato il più violento della storia dell’umanità”; per un autorevole storico inglese, Hobsbawm, è stato un “secolo breve” per l’accelerazione vorticosa degli eventi della storia; per un manager e uomo di cultura, Martinoli, un “secolo da non dimenticare”. Lei che lo attraversato praticamente tutto e da protagonista, come lo definisce?

“Concordo con la definizione di “breve” per la velocità con la quale sono avvenuti molti cambiamenti e, poiché ho detto che sperare significa pensare positivamente, getto uno sguardo di speranza sul futuro”.  


Lodovico Barbiano di Belgiojoso

 

Nasce a Milano il I' dicembre 1909. Il padre Alberico era architetto, la madre, Margherita Confalonieri, pittrice. Trascorre un'infanzia, un'adolescenza e una prima parte della gioventù, in mezzo agli agi. Nel 1932 si laurea in architettura insieme a Ernesto Nathan Rogers, Gian Luigi (Giangio) Banfi ed Enrico (Aurel) Peressutti con i quali costituisce lo studio BBPR. Nel 1934 sposa Carolina Cicogna Manzoni, matrimonio dal quale nascono quattro figli: Margherita, Maria Luisa, che diventerà architetto, Alberico, che farà la stessa scelta, e Giovanni, medico. Nel dicembre del 1942 Belgiojoso e gli altri architetti dello studio prendono contatti con esponenti del Partito d'Azione.  Dopo l'8 settembre Rogers, come molti altri ebrei, espatria in Svizzera mentre si fa più intensa l'attività clandestina dei tre amici rimasti. Partecipano alla redazione ed alla diffusione di "Italia libera”, giornale del Partito d'Azione, e collaborano con le prime formazioni partigiane, in particolare con quelle operanti nella zona di Lecco. Il 21 marzo 1944 Belgiojoso viene arrestato insieme a Banfi. Incarcerato a San Vittore, viene poi internato nel campo di Fossoli e successivamente, insieme a Banfi deportato nel campo di sterminio di Mauthausen-Gusen. Viene liberato il 4 maggio 1945 dalle truppe americane. Ritornato a Milano, svolge un'intensa attività professionale con importanti progetti in Italia, fra i quali quello della Torre Velasca a Milano, e all'estero. Belgiojoso, tra l'altro, è membro della Royal Society of Arts di Londra e dell'American Institute of Architets.


Il “principe”

 

"Da qualche giorno avevo notato che dei giovani russi, estranei alla mia Halle, vi entravano guardinghi, alla spicciolata. A un gesto di un loro compatriota mi passavano vicino, mi osservavano, mi toccavano con un dito la spalla, mentre qualcuno ridacchiava: poi uscivano in silenzio. Avevo scorto anche dei curiosi armeggi fra un italiano e uno dei russi della Halle, dei passaggi furtivi, dei piccoli scambi, dei cenni misteriosi. Un giorno affrontai il russo e gli chiesi il perché di quello strano andirivieni e di quelle allusioni che sembravano riguardarmi. Scoppiò in una risata: 'Tuo compaesano ha detto miei camerati tu sei principe. Miei camerati non hanno mai visto principe perché in Sowietunion tutti i principi sono Kaputt. Così, miei camerati fanno regali tuo compaesano per toccare principe vivo. lo ho un piccola parte 'Brutti porci, tu e il mio compaesano! Almeno date anche a me una piccola parte!' Con una risata ancor più rumorosa cavò di tasca una patata bruciacchiata: così mi prestai (e come avrei potuto non farlo?) a questo spettacolo da baraccone. Poi cessarono per l'intervento del Zivilmeister, ostile a quell'andirivieni". "Dopo tanto digiuno l'aver divorato tutto quanto gli americani avevano distribuito aveva provocato a moltissimi di noi, me compreso, dolori di stomaco e diarrea. Malgrado le cure, ci furono parecchi morti. "Andai a farmi ricoverare in un piccolo ospedale presso Wels. Poi, ritornato a Gunskirchen, Schwindt, il medico del paese, mi ospitò a casa sua, dove già era alloggiato Manlio Magini, che avevo conosciuto prigioniero nella scuola. Con Magini facemmo amicizia e con lui e la famiglia del medico conversavamo a lungo sugli avvenimenti recenti e sul possibile futuro; facevamo passeggiate anche con Traúdl. Si sparse la voce che fossi un principe: un pomeriggio, la sorella del dottor Schwindt, che era maestra di scuola, mi venne incontro con un gruppo di ragazzine che recitarono in mio onore la poesia Il povero principe prigioniero e mi diedero un gran mazzo di fiori."

(Dal volume Frammenti di una vita di Lodovico Barbiano di Belgioioso).


Non mi avrete

Ho fame, non mi date da mangiare, 

ho sete, non mi date da bere,  

ho freddo, non mi date da vestire,

ho sonno non mi lasciate dormire!  

Sono stanco, mi fate lavorare,

sono sfinito, mi fate trascinare  

un compagno morto per i piedi,

con le caviglie gonfie e la testa

che sobbalza sulla terra  

con gli occhi spalancati...  

Ma ho potuto pensare una casa

in cima a uno scoglio sul mare  

proporzionata come un tempio antico 

Sono felice: non mi avrete. 

Mauthausen-Gusen, maggio 1945


Una pelle di salame

 

"Coi due polacchi mi avvicinai al gruppetto delle SS, che si era riunito: i due uomini e la donna, conversando in piedi, cominciavano a mangiare pane e fette di salame. Uno dei tre militi SS, tolta la pelle da una fetta di salame, la gettò dietro le spalle e la mandò a cadere fra me e il geometra polacco. Impossibile chinarsi senza lasciare la posizione di attenti: spostando il piede sinistro, tentati di accaparrarmi la pelle, mettendovi sopra il mio zoccolo, ma incontrai lo zoccolo destro del polacco che aveva iniziato la stessa manovra. Di fronte alla possibilità di mangiare quel pezzo di pelle, la fame, da astratta com'era, si era fatta precisa, concreta e divorante; lo stomaco pareva dilaniarmi; la pelle di salame era a terra fra i due zoccoli, che premevano l'uno contro l'altro per prevalere. il polacco e io ci guardavamo di traverso, senza perdere la posizione di attenti: certamente il nostro sguardo sarebbe stato di odio reciproco, se tutte le nostre possibilità di odio non si fossero già fissate, irrevocabilmente, sulle tre SS. A un tratto la donna ripeté l'operazione del camerata e sbucciò la propria fetta di salame: la sottile striscia di pelle gettata da quella disgraziata venne a cadere alla mia destra, a un passo. Smisi subito di spingere verso il polacco, che schiacciò subito la prima pelle con lo zoccolo, e coprii col piede la nuova fettuccia. Ora la sentivo tutta mia sotto il piede e lo stomaco reagiva con nuovi crampi di fame. I tre delle SS erano lenti, metodici nel mangiare. Restarono lì un pezzo. Finalmente, il terzo si mosse, gettò a terra la propria striscia di pelle e si allontanò seguito dagli altri due. Fulmineamente io e i due polacchi ci buttammo sulle tre striscioline, che furono il nostro unico pasto per la giornata".

(Dal volume Frammenti di una vita di Lodovico Barbiano di Belgiojoso).


Per un solo morto

 

“... un giorno, dopo essere tornato a Milano, mentre passavo con Enrico Peressutti in corso Buenos Aires ho visto davanti a noi un uomo di mezza età che, sceso dal marciapiede, stava avanzando rapidamente per attraversare la strada senza accorgersi del tram che veniva dal centro. Il tram lo ha investito in pieno e il poveretto è morto sul colpo tra le grida dei passanti. Ho assistito alla scena senza avere la minima apprensione per la morte del pover'uomo. Ricordo di aver detto ad Aurel. "Ma come, tanto stupore per un solo morto!" Aurel mi ha guardato esterrefatto e in seguito gli ho chiesto scusa."


Un pezzetto di pane

 

"Ricordo che un giorno mentre stavo percorrendo via Montenapoleone chiacchierando con Ernesto Rogers, ho scorto per terra, sul marciapiede, un pezzetto di pane. Inconsciamente mi sono buttato a raccoglierlo per metterlo in tasca. Ernesto ha subito capito e mi ha stretto il braccio senza parlare".  

Da Triangolo Rosso, a cura dell'ANED di Milano, n. 3 dicembre 2000, per gentile concessione

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