Triangolo rosso

Il ricordo di Liliana, arrestata a 17 anni

I fiori del lager, poi l’incubo del gas...

Tratta in inganno dai vasi alle finestre dei guardiani, pensò che il luogo fosse accogliente. Invece cominciarono subito violenze, torture, umiliazioni. E ogni giorno un incubo: la camera a gas.

 

Ma in che bel posto siamo arrivate”, ricorda così la prima impressione che ebbe del campo di Mauthausen Liliana Martini, ai tempi staffetta partigiana di diciassette anni arrestata dai tedeschi il 14 marzo 1944 per la sua partecipazione ad una rete di “passatori” che guidava verso la Svizzera prigionieri alleati evasi, ricercati per motivi razziali o politici, partigiani feriti e renitenti alla leva. Una spia era riuscita ad infiltrarsi ed aveva fatto arrestare dai tedeschi membri del gruppo e fiancheggiatori. Portata al carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia, tra le violenze aveva appreso di essere stata condannata a morte (senza processo) e ciò era motivo di dileggio da parte dei carcerieri. Trasferita al campo di transito di Bolzano verso la fine di luglio o i primi di agosto, iniziò un viaggio in treno con destinazione Austria. Fu appunto quando arrivò al campo e vide i fiori alle finestre delle baracche dove abitavano i guardiani e che sorgevano fuori del perimetro delle mura, che nella sua ingenuità giovanile comunicò quell’impressione alla sorella più matura di lei, quale rispose indicandole il portone: “Di lì non usciamo”. Subito dopo iniziarono le vessazioni e le umiliazioni. Fatte spogliare nude e lasciate a lungo con la faccia rivolta verso il cosiddetto “muro del pianto”, furono sottoposte a violenti getti d’acqua mentre, sbeffeggiandole, i guardiani allungavano le mani per toccarle, aumentando così la loro angoscia. Poi vestite di una tunica e calzati degli zoccoli furono portate - malgrado il bagno di prima - alle docce. Vennero nuovamente fatte spogliare e dopo aver ricevuto un pezzo di sapone, rinchiuse in una camera da cui pendevano degli “strani” spruzzatori, ma da cui non uscì né acqua né, fortunatamente, altro. Poco dopo la porta si riaprì: “Tutte fuori, rivestirsi”. Quando seppe che era stata in una camera a gas non capì cosa fosse successo, forse soltanto un macabro scherzo dei suoi torturatori. Una quindicina di giorni più tardi, con altre detenute venne mandata a Linz al campo 39, dove incontrò donne di tutta Europa, a lavorare al tornio per produrre parti di aereo. Per il bombardamento della fabbrica, il macchinario risparmiato dalle bombe fu trasportato vicino a Vienna. Qui, non arrivando più materiale da lavorare, venne impiegata con le altre in lavori lungo le strade. Ormai la sorveglianza era scarsa, per lo più affidata ad elementi della milizia locale, per cui le detenute si limitavano a spostare delle pietre da una parte all’altra ed a riportarle al posto di prima. Solo le SS di passaggio continuavano a tormentarle, chiamandole “Carogne, puttane” e minacciandole di morte. Una volta il deciso intervento di un soldato della Wermacht mise fine alle minacce. Riportate in fabbrica, assemblavano le piccole parti che costituivano la plancia di comando degli aerei, ma un nuovo bombardamento le indusse alla fuga. Chiesero un passaggio a dei soldati che demoralizzati si ritiravano dal fronte. Poi incontrarono dei soldati italiani fuggiti da un campo di prigionia e con essi su un camion, raggiunsero il 6 o 7 maggio il campo di Mauthausen, nel frattempo liberato. Gli americani lasciarono al gruppo il camion per raggiungere l’Italia e li fornirono di viveri, ma ad Innsbruck vennero fermati: nella zona era scoppiata un’epidemia di tifo petecchiale. Nuova, lunga sosta, poi finalmente verso la fine del mese poterono ripartire e raggiungere Padova. Questa la terribile esperienza di una ragazza di Zane che conobbe il carcere dove subì vessazioni fisiche e morali, poi il campo di sterminio dove conobbe il terrore, e le umiliazioni, la fame e l’incubo della camera a gas. Non che il seguito fosse meno scevro di pericoli: la morte era sempre in agguato, poteva venire dal cielo sotto forma di una bomba alleata o dall’incontro con un nazista fanatico. Eppure, forte della sua giovinezza, Liliana trovò la forza e la volontà di tornare e di raccontare.

P.R.

Da Triangolo Rosso, luglio 2000

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