Triangolo rosso

Una conversazione con Alessandro Natta

La Resistenza in grigioverde

Una testimonianza che nel 1954 non si ritenne opportuno pubblicare - I lager divennero scuole di democrazia per i seicentomila internati - Il rifiuto di massa al ritorno in Italia per collaborare con Mussolini

 

Alessandro Natta è nato ad Oneglia nel 1918 ed ha compiuto gli studi universitari alla Scuola Normale Superiore di Pisa dal 1936 al 1941. Lo stesso anno è stato chiamato alle armi e inviato nel 1942 nell’isola di Rodi dove dopo l’8 settembre viene fatto prigioniero dai tedeschi. Al ritorno in Italia si iscrive al Pci e viene eletto deputato per dieci legislature, dal ’48 al ’91. È stato anche presidente del gruppo comunista a Montecitorio. Ha fatto parte della direzione e della segreteria del partito ed è stato stretto collaboratore di Enrico Berlinguer al quale è succeduto nell’incarico di segretario generale dal 1984 al 1988. Ha diretto “Critica marxista” e “Rinascita”. Ha lasciato ogni attività politica nel momento in cui si è deciso di concludere l’esperienza storica del Pci.

 

di Ennio Elena

 

Davanti il mare increspato dalle raffiche della tramontana, sulla scrivania il bianco volume degli “Struzzi” di Einaudi, in copertina un particolare della “Leggenda dei diecimila martiri” del Pontormo. È il libro di Alessandro Natta: “L’altra resistenza - I militari italiani internati in Germania”. L’autore lo scrisse nel 1954 in vista del decimo anniversario della Liberazione. Ma gli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci, il partito del quale Natta era deputato, non ritenne di pubblicarlo. Sinceramente né Enzo Collotti nell’introduzione né l’autore nella premessa danno una spiegazione chiara, convincente di quel rifiuto, anche se quest’ultimo, secondo me con generosità, lo attribuisce al fatto che il suo lavoro non rientrava nei piani editoriali della casa editrice. Il volume è uscito nel 1996 e rappresenta un prezioso testo di quella scuola della memoria della quale ogni giorno di più si sente la mancanza, in un momento, nota Collotti, “di grande disorientamento politico e culturale in cui, anche da parte non sospetta, la voglia di dimenticare o quanto meno di attenuare i momenti conflittuali più ingombranti della nostra storia sembra prevalere sulla preoccupazione di preservare la memoria evitando equivoche confusioni.” I 600 mila soldati e ufficiali italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e condotti nei lager vennero definiti dai nazisti Imi, sigla che sta per Internati militari italiani, una denominazione inedita, non prigionieri di guerra ma “traditori” ai quali doveva essere riservato un particolare trattamento.

Morte e rinascita della patria

Dal settembre del ‘43 all’aprile del ‘45 dura l’odissea nei campi di concentramento durante la quale un Ulisse collettivo ritorna, tra sofferenze, speranze, timori, ansie, tenace volontà a ritrovare la patria, non quella che il fascismo aveva caricato di ridicoli e pericolosi orpelli, ma quella che nasce dalla consapevolezza che proprio l’8 settembre, dal fondo dell’abisso, il concetto di patria è risorto per acquisire la sua identità di comunità libera. “Si è trattato” dice Natta “di un grande processo di liberazione, di catarsi storica. L’8 settembre è morta ed è rinata la patria.”

L’intransigenza

Dico a Natta che il suo libro mi pare voglia essere la rivendicazione di una sofferta ma cosciente e orgogliosa intransigenza, il dovere di dire un “no” chiaro e deciso all’oppressione, alla violenza ed anche alle lusinghe. La risposta è in questo brano: “Si trattava non tanto di dimostrare a quanti erano in preda allo smarrimento e cadevano vittime di assurde speranze, l’impossibilità di un rientro in Italia; quanto bisognava convincere che non si poteva dare una qualsiasi adesione o riconoscimento ai fascisti, nemmeno nella speranza di rivedere le proprie case, nemmeno con l’impegno di affrontare più tardi in Italia la lotta. I fautori della resistenza immediata e intransigente si assunsero una grave responsabilità e ne sentirono, soprattutto in seguito, il peso ma non può esservi dubbio che il dovere in quel momento imponeva di dire di no, che ai fini della lotta generale importava molto di più un rifiuto immediato e reciso nei confronti del nazifascismo che non magari un successivo contributo diretto alla lotta.” Penso che un po’ di questa intransigenza servirebbe anche oggi. Ma come matura, si forma nei lager, fra uomini oppressi e abbandonati da tutti, questa nuova coscienza, questa “catarsi storica”?

8 settembre: “Il re è nudo”

In un giorno crolla il grottesco e tragico baraccone allestito in vent’anni dal fascismo sotto lo sguardo compiaciuto della monarchia: richiami alla grandezza romana con i reparti della milizia che si chiamano “legio”, composti in maggioranza da “tessere del pane”; l’impero che torna a sorgere “sui sacri colli”; “otto milioni di baionette”; “cuori gettati oltre l’ostacolo”. Tutto finito, e ingloriosamente. All’eroica anche se sfortunata resistenza a Roma, a Lero, a Cefalonia, in altre località della Grecia, fece da vergognoso contrappunto, ricorda Natta, “il tradimento di alcuni comandanti che già avevano scelto la causa e la bandiera tedesca, l’incapacità di decidere di altri paralizzati tra la paura di fronte al mito dell’invincibilità e della spietatezza tedesche ed il timore di cadere in mano al ‘bolscevismo’ dell’Unione Sovietica.” Toccato il fondo, bisognava tentare di risalire perché non soltanto era crollato un esercito, ma si era dissolto uno stato.

Dalla passione alla ragione

L’8 settembre, nota Natta, “fu, dunque, lo scoppio di una passione antitedesca più che la razionale volontà di un mutamento politico.” “La sera in cui il mio gruppo giunse a Muhlberg sull’Elba, dopo l’interminabile viaggio, il colonnello Imbriani” ricorda l’autore “mi pregò di fare una conferenza per ‘tenere su il morale’ dei compagni di prigionia. Nella fredda baracca del nostro primo lager dissi tutto ciò che ricordavo di Carlo Cattaneo, delle 5 giornate, del glorioso ‘48. Ascoltarono quasi tutti e in tutti vi fu interesse e commozione.” Iniziava il faticoso, contrastato cammino verso la ragione, la consapevolezza, “in modo da mutare in giudizio critico la ribellione sentimentale contro il fascismo ed in meditato fatto politico il nostro no.” Così i lager, in special modo quelli dove erano tenuti prigionieri gli ufficiali, dall’arrivo in Germania separati dai soldati, diventarono scuole di democrazia.

Come una lunga “moviola”

“C’erano inevitabilmente” dice Natta “i resistenti e gli aderenti fra gli internati.” E ognuno era arrivato con un suo bagaglio politico e culturale. Natta con il suo percorso antifascista, il vivo ricordo anche delle polemiche familiari tra sostenitori del socialista Giacinto Menotti Serrati e comunisti; altri che, invece, si proclamavano “apolitici” ritenendo che questo atteggiamento fosse “il rimedio migliore contro la terribile ‘scottatura’ del fascismo, quasi un rifugio dal rischio di altri errori e pericoli .” Le vicende personali e quella collettiva esaminate come in una lunga faticosa “moviola” alla ricerca di risposte alle domande: che cos’è stato il fascismo; perché la guerra e perché la guerra perduta, perché la lotta contro il fascismo “non solo responsabile della guerra sciagurata e della sconfitta, ma del fascismo come concezione politica generale, del fascismo, dice Natta, “che ha nel suo DNA la violenza e la guerra”; che ha trasformato l’ex socialista massimalista, direttore dell’ “Avanti!”, anticolonialista, antimilitarista Mussolini in un guerrafondaio che nella guerra di Spagna, insieme a Hitler fa le prove per la conquista dell’Europa. Il 27 maggio del ’40, nota nel suo Diario Galeazzo Ciano, genero del “duce” e ministro degli Esteri, “non è che egli vuole ottenere questo o quello: vuole la guerra. Se pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe.” E gli anticorpi, nell’immediato per respingere gli inviti ad aderire al fascismo di Salò e per il futuro per la formazione di una coscienza democratica, sono la discussione e lo studio “degli ‘immortali principi’, la Rivoluzione francese, lo stato liberale e democratico dell’800, la storia del nostro Risorgimento, ripercorsa al di fuori delle visioni oleografiche e delle deformazioni propagandistiche.” Tutto quello che rappresentava un atto di accusa contro il fascismo.

Pochi aderirono alla Rsi

“Immaginate” scrive Natta “quale impressione potesse fare in una massa di ufficiali che da mesi e mesi resistevano all’oppressione nei lager, che avevano identificato nel nazismo il nemico loro e del proprio Paese, l’apparizione di una delle solite grinte feroci in camicia nera che sotto lo sguardo scettico e indifferente del padrone tedesco sciorinava la serie degli appelli alla difesa della Patria, alla lotta contro i demo-plutocratici-giudaici-bolscevici alleati e concludeva inevitabilmente con l’offerta di una più grossa razione di pane e di margarina!” Certo ci furono le adesioni al fascismo di Salò ma il loro numero, per quanto non irrisorio, fu decisamente minoritario. Il “re nudo” aveva vestito i panni di una grottesca marionetta della quale i tedeschi tiravano i fili.

I tedeschi e i libri

Una domanda inevitabile a Natta: nel tuo libro scrivi che “forse non si ha un’idea del numero notevole di libri che gli internati, in particolare nei campi degli ufficiali, ebbero a disposizione e che costituirono la premessa indispensabile dell’attività culturale.”Ma i tedeschi lasciavano che circolassero liberamente, non li sequestravano? “I tedeschi”, risponde Natta, “sequestravano qualunque foglietto scritto a mano e naturalmente davano la caccia alle rudimentali radio che si potevano costruire. Ma ritenevano che ciò che era stato stampato, pubblicato, fosse lecito.”

Diversa persecuzione, stesso odio

Nel capitolo delle atrocità naziste, scrive Natta, “le pagine di Auschwitz e di Buchenwal fanno impallidire le nostre, di Fullen e di Wietzendorf. Altri avevano impresso a fuoco sulla carne un numero: per noi bastava la cartella segnaletica del delinquente. La fame fu comune e atroce, ma abbiamo ancora vergogna della nostra fame pensando al crematorio di Birkenau. Rifiutammo di lavorare e non ci uccisero. Ci promossero solo da internati a prigionieri politici. Quando i tedeschi decisero di usare contro di noi la rappresaglia feroce era ormai troppo tardi. I nostri morti non li contammo a milioni, solo a decine di migliaia. Morirono ancora ‘uomini’. Sappiamo dunque quale fu il nostro posto nel sistema dei lager. Ma nel corso della vicenda, poiché i campi erano mondi senza finestre, dalla persuasione di essere giunti all’estremo del sacrificio scaturì per ognuno un odio estremo. Se l’intensità della persecuzione non fu uguale, uguale fu il sentimento di esecrazione e di condanna dei nazisti.”

“Una crudele saggezza”

Così Natta definisce in questa conversazione l’atteggiamento del governo Parri verso i reduci perché evitò ogni contrapposizione tra coloro che erano stati prigionieri in Germania e quelli che lo erano stati nei campi di concentramento degli Alleati, tra chi aveva detto “no” ai tedeschi e chi aveva detto “no” agli angloamericani, tra i reduci e i partigiani. Si realizzò così un generale appiattimento. E non ci fu il fenomeno del “reducismo”. Nota Collotti che “si deve in misura sostanziale all’esempio ed al comportamento della massa degli ex internati se i reduci della seconda guerra mondiale non hanno rappresentato, nel nostro dopoguerra, un freno nel processo di affermazione della democrazia, ma al contrario una componente di sostegno contro ogni nostalgia fascista.”

Perché bisogna ricordare

“Bisogna ricordare”, dice Natta, “perché ci sono stati silenzi stesi su pagine di vergogna dei vertici politici e militari.” “Perché 600 mila soldati e ufficiali furono traditi e abbandonati a se stessi eppure trovarono la forza di rifiutare l’adesione al fascismo ed al nazismo. Perché ci fu silenzio sui 17 generali e sulle decine di migliaia di soldati e di ufficiali italiani morti nei lager tedeschi.” “Bisogna ricordare perché ci furono riconoscimenti tardivi e anche silenzi da parte delle vittime, per un comprensibile desiderio di rimozione, per il timore di non essere ascoltati e creduti.” “Bisogna ricordare perché con l’altra Resistenza avevamo voluto lottare per i medesimi valori per i quali combattevano nelle città e sui monti i partigiani e i patrioti italiani. Perché tra i reticolati tedeschi eravamo diventati uomini liberi.”

La memoria ed il futuro

Chi non ha memoria non ha futuro si dice. Ma come la memoria, il passato può aiutare a intravedere il futuro ? Natta è preoccupato. “Siamo alle prese con cambiamenti epocali, c’è stata una rottura del precedente equilibrio, siamo di fronte ad un grande disordine. In Kosovo l’Osce ha fallito e c’è stata una guerra senza che nessun organismo internazionale abbia dato la sua approvazione. C’è un forte disequilibrio, nessuno stato si può considerare pari agli Usa. Siamo alla faticosa ricerca di un nuovo equilibrio. Come si realizzerà? Nei campi di concentramento abbiamo scoperto l’Europa, ci siamo battuti per la giustizia sociale, per l’affermazione di ragioni ideali e politiche, per una scala di valori che sono stati inseriti nella nostra Costituzione.”

Valori, ideali, giustizia sociale

Sono parole che evocano la figura di Filippo Buonarroti, il rivoluzionario toscano, robespierriano, comunista, con la cui opera si cimentò Natta negli studi alla Normale di Pisa e che proprio qui, a Oneglia, esercitò nel 1794 per conto della Rivoluzione la funzione prima di amministratore e poi di commissario nazionale dei territori occupati e che fece della cittadina ligure il maggior centro del giacobinismo italiano. “Libertà politica e libertà dal bisogno” dice Natta, una verità antica, che è bene ripetere perché spesso dimenticata. Aggiunge: “Anche in Italia viviamo un periodo di transizione, sono a rischio alcuni principi. L’articolo 1 della Costituzione afferma che ‘l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.’ Sul lavoro o sul mercato? L’articolo 3 dice che ‘tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ...” Come viene garantito questo diritto?” Nella voce affaticata di Natta c’è la stessa volontà con la quale nei lager invitava a dire no al fascismo e non solo per condannare un regime nefasto ma anche perché l’Italia fosse realmente una Repubblica democratica, di uguali, e non soltanto, e formalmente, davanti alla legge. Perché di quella tragica esperienza non restasse solo un ricordo, per quanto severamente ammonitore. La volontà unita al pessimismo dell’intelligenza che ha consentito di sopravvivere nei campi di concentramento e che permette di non rinunciare alla fiducia in un mondo migliore.

Da Triangolo Rosso, gennaio 2000

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