Triangolo rosso

Nel 1960 la Procura generale militare nascose migliaia di fascicoli contro i nazisti per ragioni di politica internazionale

Le stragi occultate

Scoperti per caso i documenti nell’armadio di un locale quasi inaccessibile di Palazzo Cesi a Roma. Il provvedimento fu preso con l’accordo del governo per evitare problemi di immagine alla Germania di Bonn, perno della Nato nel pieno della “guerra fredda”.

L’interesse fu politico. Non era opportuno che la Germania Federale, membro della Nato,nel momento del suo riarmo e nel pieno della “guerra fredda”, fosse coinvolta in vicende giudiziarie per le stragi di guerra in Italia che ne potessero indebolire l’immagine. Lo ha confermato Lutz Klinkhammer, collaboratore dell’Istituto storico germanico di Roma: “Non c’è dubbio: l’avvio di processi penali contro centinaia di criminali di guerra tedeschi negli anni ’50 e ’60 avrebbe sicuramente creato delle difficoltà per l’immagine internazionale della Germania nonché per la sua integrazione europea. Il problema si sarebbe aggravato, poi, per la mancata estradizione degli accusati, con una sfilata di processi in contumacia che avrebbe rafforzato nell’opinione pubblica l’immagine negativa della Germania”. Così il Procuratore generale militare presso il Tribunale supremo di Roma, dottor Enrico Santacroce, di nomina governativa, pensò bene di occultare circa 3000 fascicoli processuali sulle stragi naziste compiute fra il 1943 e il 1945, sottraendoli alla competenza dei Pubblici ministeri militari, unici titolari dell’azione penale. Ma se è il 14 gennaio 1960 che, con la formula dell’archiviazione “provvisoria”, inesistente nel sistema processuale del nostro Paese, il Procuratore generale militare si rese colpevole di un indebito trattenimento dei fascicoli, l’attività di rimozione di quelle tragiche pagine della storia d’Italia aveva radici più lontane. L’illegalità infatti, era iniziata nell’immediato dopoguerra, quando il Procuratore generale militare (che, occorre ricordare, non aveva e non ha poteri di indagine giudiziaria) dottor Umberto Borsari, in luogo di distribuire il materiale processuale alle Procure militari territoriali, lo aveva trattenuto presso di sé, come del resto avrebbe fatto dal 1954 il suo successore dottor Arrigo Mirabella. Lo scenario di questa storia, unica per gravità e per compromissioni fra i poteri dello Stato, è articolato e complesso: se 695 fascicoli iscritti nel Registro “Ruolo generale dei procedimenti contro i crimini di guerra tedeschi” di cui 415 già istruiti dalle autorità militari alleate o dalla polizia giudiziaria italiana nei confronti di militari tedeschi e italiani della Repubblica sociale italiana e 280 rubricati contro ignoti, dopo la loro scoperta, sono dal 1994 sui tavoli dei Procuratori militari competenti (la distribuzione terminò nel 1996), altri 1250-1300 fascicoli, tutti nei confronti di ignoti, vennero trasmessi fra il 1966 ed il 1968, il che implica che avvenne una selezione “pilotata”. Lo scopo era chiarissimo: tener nascosti i fascicoli con i responsabili già individuati e render disponibili quelli senza nome, irraggiungibili, svaniti nel nulla. Dei 415 fascicoli ora a disposizione dei vari Procuratori militari territoriali, 87 sono a Padova, 119 a Torino (qui si sono già conclusi con due ergastoli i processi per le quindici fucilazioni di piazzale Loreto e le stragi della Benedicta e del Turchino), 108 a Verona, 214 a La Spezia (competente anche per la Toscana), 129 a Roma, 32 a Napoli, 4 a Bari e 2 a Palermo. Occorre tener presente che esistono anche 2274 “notizie di reato”, di cui 260 reati non militari, inviati a suo tempo alla magistratura ordinaria e solo 20 nell’immediato dopoguerra trasmessi alle Procure militari competenti. Ma come è venuto alla luce questo colossale scandalo che ha di fatto impedito di veder processati negli anni ’50 centinaia e centinaia di criminali di guerra del Reich e di Mussolini? La risposta è che si è trattato di un caso e non di una scelta determinata e ciò alimenta più di una perplessità. Tutto ebbe inizio nel 1994 quando il Procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, Pubblico ministero nel processo contro il capitano Erich Priebke, ebbe la necessità di disporre di un documento della vicenda Kappler e delle Fosse Ardeatine. Dopo una serie di controlli a vuoto, avvenne la scoperta di un “archivio” in un luogo inaccessibile di Palazzo Cesi, sede degli uffici giudiziari militari d’appello e di legittimità, “sepolto” da quasi mezzo secolo. Il carteggio era suddiviso in fascicoli, a loro volta raccolti in faldoni. Inoltre era stato ritrovato un registro generale. “Si trattava - si legge nella relazione del Consiglio della magistratura militare del 23 marzo 1999, al termine di un’indagine conoscitiva decisa tre anni prima - di una delle stanze del pianterreno, ben distinte dunque rispetto alla Procura generale da sempre dislocata all’ultimo piano, adibite ad archivio, per niente abusivo, degli atti dei Tribunali di guerra soppressi e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Nel locale poi esisteva uno stanzino più interno, chiuso da un cancello di ferro con grata. E i fascicoli si trovavano qui, in un armadio di legno con le ante chiuse, rivolte verso una parete: quasi nei più profondi recessi del palazzo”. Come se fossero stati murati, tolti alla memoria e alla vista. Ma l’operazione di trasferimento avviata nel 1967, aveva avuto un altro risvolto, ancor più inquietante: negli uffici della Procura generale militare non era rimasta traccia fra i “carichi pendenti” dei fascicoli sui crimini di guerra, cosicché i successori di Santacroce non ebbero la possibilità di accorgersi di niente né di metter mano ai fascicoli nascosti. Una volta portato alla luce il materiale, per iniziativa congiunta dei Procuratori generali venne istituita una Commissione mista per compiere una ricognizione degli atti rinvenuti e individuare i provvedimenti da adottare. L’esito fu scontato: i fascicoli, dopo una lunghissima attesa, presero finalmente la direzione delle varie Procure competenti. Contenuto nell’ambito dell’Ufficio, lo scandalo divenne pubblico attraverso un articolo del settimanale “L’Espresso” nel marzo del 1996 e il successivo 15 aprile, quando il dottor Sergio Dini, Sostituto procuratore militare di Padova, segnalò al Consiglio della magistratura militare (equipollente al Consiglio superiore della Magistratura) l’arrivo a “pioggia”, dal novembre del 1994, di circa 60 fascicoli sulle stragi, fra cui “numerosi quelli in cui vi sono indicazioni nominative precise”. Era stato proprio Dini ad indicare il singolare provvedimento di “archiviazione provvisoria” adottato nel 1960, a denunciare il suo disagio “in ordine al significato e alla produttività” di inchieste giudiziarie relative ad episodi tanto lontani nel tempo ed infine a chiedere una indagine che facesse luce su quanto era accaduto. Il 7 maggio 1996 il Consiglio militare istituì una Commissione d’inchiesta con il compito di stabilire “le dimensioni, le cause e le modalità del fenomeno”. Un lavoro lungo e difficile che non solo ha permesso di ricostruire i vari aspetti della vicenda, ma che ha rivelato preoccupanti aspetti degenerativi all’interno dei più alti uffici della Procura generale militare (dal 1945 chiamata ad accogliere tutto il materiale relativo alle stragi tedesche) e del potere politico dell’epoca. Basti il fatto che decine di rapporti giudiziari degli Alleati nei confronti di ufficiali tedeschi, responsabili di crimini efferati (ad esempio la strage di Caiazzo sul Volturno dell’autunno del ’43), acclusi ai vari fascicoli, non siano mai stati tradotti e che richieste di estradizione sollecitate da alcuni Procuratori militari alle autorità di Governo siano cadute nel dimenticatoio per l’intervento puntuale (era l’ottobre 1956) dell’allora ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino. Era il nodo politico dell’inconfessabile cedimento, anche se l’esito della richiesta era scontato essendo in vigore fra Italia e Germania un trattato approvato nel 1942 in ragione del quale non era consentita alcuna estradizione verso il nostro Paese di cittadini tedeschi per reati politici. Scriveva il responsabile della Farnesina al proprio collega della Difesa sull’ipotizzata estradizione del criminale di guerra e sui non trascurabili interrogativi che una tale richiesta avrebbe potuto sollevare “sul comportamento del soldato tedesco”: “proprio in questo momento infatti tale governo (quello di Bonn) si vede costretto a compiere presso la propria opinione pubblica il massimo sforzo, allo scopo di vincere la resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle Forze armate di cui la Nato reclama con impazienza l’allestimento”. Detto e fatto. Il 29 ottobre a stretto giro di posta, il ministro della Difesa, il democristiano Paolo Emilio Taviani, accoglieva l’invito. La ragion di Stato aveva sepolto la legittima richiesta di giustizia. Durissime le conclusioni del Consiglio militare sull’intera vicenda: “Ne deriva che il trasferimento presso la Procura generale militare dei rapporti e denunce che vi erano arrivati, provenienti da tutta Italia (...) non è stata semplice conseguenza di decisioni non condivisibili o inopportune; bensì più particolarmente il frutto di un insieme di determinazioni radicalmente contrarie alla legge adottate da un organo privo di ogni competenza in materia che hanno sistematicamente sottratto gli atti al Pubblico ministero competente e perciò impedito qualsiasi iniziativa di indagine di esercizio dell’azione penale. E dunque la grave violazione della legalità, sia pure con conseguenze ormai irreparabili e di ampia portata sul funzionamento dell’intera giustizia militare nel secondo dopoguerra, non può essere attribuita agli uffici giudiziari militari o alle Procure militari in generale, bensì solamente alla Procura generale presso il Tribunale supremo militare, il solo Ufficio responsabile, senza possibilità di controllo da parte di altri organi giudiziari, dell’indebito trattenimento dei fascicoli sui crimini di guerra”. Un ultimo dato su cui riflettere: nel 1965, a vent’anni dalla fine della guerra, le sentenze (pronunciate) dai Tribunali militari per crimini di guerra erano soltanto 13. Gli imputati 25. Non tutti i processi erano stati istruiti sui documenti consegnati dalla Procura generale militare.

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L’armadio degli scheletri

Ibio Paolucci

 

Nel nostro ordinamento l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio, non è un optional. Ma negli anni della guerra fredda questo obbligo, evidentemente, non era considerato tale da taluni centri istituzionali, per esempio dalla Procura generale militare. Nella relazione approvata dal Consiglio della magistratura militare in data 23 marzo 1999 si afferma, testualmente, che “il trattenimento presso la Procura generale militare dei rapporti e denunce che vi erano arrivati provenienti da tutta Italia non è stata semplice conseguenza di decisioni non condivisibili o inopportune, bensì più particolarmente il frutto di un insieme di determinazioni radicalmente contrarie alla legge adottate da un organo privo di ogni competenza in materia, che hanno sistematicamente sottratto gli atti al Pubblico ministero competente e perciò impedito qualsiasi iniziativa di indagine di esercizio dell’azione penale”. Chiaro? I rapporti e le denunce riguardavano “crimini di guerra anche di rilevante gravità”, risalenti al periodo 1943-45, commessi da militari germanici o anche da militi fascisti della Guardia nazionale repubblicana. Tutti gli atti, anziché essere trasmessi alle procure competenti, furono congelati in un armadio, le cui ante vennero rivolte verso il muro. Il motivo? Semplicissimo: la Germania di Bonn era entrata a far parte della Nato e di conseguenza era meglio non disturbarla con procedimenti scomodi, poco importa se la legge veniva calpestata, con l’ovvio avallo dei governi del tempo. Chiarissime le responsabilità politiche. Replicando ad una richiesta di estradizione avanzata da un procuratore militare, il ministro degli Esteri con nota del 10 ottobre 1956 diretta al ministro della Difesa, nell’esporre gli argomenti contrari all’iniziativa si soffermava sui non trascurabili “interrogativi che potrebbe far sorgere da parte del governo di Bonn una nostra iniziativa che venisse ad alimentare la polemica sul comportamento del soldato tedesco”, proprio in un momento in cui “quel governo compie il massimo sforzo per superare la resistenza che incontra nella pubblica opinione la ricostruzione di quelle forze armate, di cui la Nato reclama con impazienza l’allestimento.” La scoperta di questo armadio pieno di scheletri, come del resto quella della “Gladio”, è avvenuta dopo la caduta del muro di Berlino, a guerra fredda conclusa. Qual è la morale di questa vicenda? Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato? Forse, ma, per favore, non scordiamoci il passato.

 

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La condanna all’ergastolo emessa dal Tribunale militare di Torino

La lunga marcia di sangue del boia della Benedicta

 

Siegfried Engel, ex comandante delle SS di Genova, ha 90 anni e vive ad Amburgo - Fu responsabile tra il 1944 e il 1945 anche degli eccidi del Turchino, di Portofino e di Cravasco - Le vittime furono 246.

 

Siegfried Engel, 90 anni, ex tenente colonnello delle SS ed ex comandante dell’Aussenkommando (AZ) di Genova, il cervello della repressione antipartigiana, è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale militare di Torino. Era accusato di “reato continuato di violenza in concorso con omicidio in danno di cittadini italiani” compiuto fra il 1944 ed il 1945. Le vittime, tutte fucilate, fra la Benedicta, il Turchino, Portofino e Cravasco, furono 246. La sentenza, che ha accolto le richieste del Pubblico ministero, è stata emessa il 15 novembre scorso. Il processo, uno dei primi ad essere celebrato, dopo la scoperta di migliaia di fascicoli inevasi alla Procura generale militare di Roma, era iniziato il 26 maggio. Gli elementi per processare il criminale di guerra erano già esistenti sin dal 1946-1948, quando la Prefettura di Genova aveva inviato una serie di documentati rapporti alle varie autorità centrali fra cui la Procura militare di Roma ed il Ministero degli Interni. In uno di questi, il 13 giugno 1946, erano stati segnalati i numerosi casi di saccheggi, violenza, sevizie, deportazioni, omicidi, furti, rapine, persecuzioni razziali compiuti nel territorio ligure, segnalando come la maggiore responsabilità fosse da attribuire al Comando delle SS di Genova, con sede nella Casa dello studente. Erano stati indicati i nomi dei presunti colpevoli fra cui Siegfried Engel, comandante appunto dell’AK di Genova “in mano - precisava il comunicato - agli Alleati”. Ma una volta giunto alla Procura generale militare, l’intero rapporto sulle stragi in Liguria era stato bloccato per la dolosa determinazione della stessa Procura generale militare di non procedere contro i criminali nazisti attraverso l’occultamento di centinaia di fascicoli processuali. Mezzo secolo dopo, il 28 gennaio 1995, l’inchiesta si era riaperta con l’iscrizione del nome di alcuni ufficiali nazisti, fra cui Engel, nel registro della Procura militare di Torino per le stragi del Turchino e della Benedicta, ma il 6 ottobre, otto mesi dopo, era giunta la richiesta del giudice dell’archiviazione con una formula puramente rituale. Sembrava tutto finito quando l’arrivo a Torino del Procuratore militare Pier Paolo Rivello diede rinnovato impulso all’indagine con nuovi accertamenti. Il 10 ottobre 1996, sulla base dell’identificazione da parte dei carabinieri dell’esistenza in vita di Engel e del tenente SS Otto Kaess (che morirà a Colonia il 24 settembre 1998, prima dell’avvio al processo), la Procura militare riaprì l’inchiesta che portò al rinvio a giudizio dell’8 ottobre 1998. Il tenente colonnello Engel che vive ad Amburgo-Lokstedt, è stato giudicato in contumacia. Dunque dopo Priebke, colpevole di aver preso parte all’eccidio delle Fosse Ardeatine, e dopo Theodor Saevecke, il massacratore di piazzale Loreto, entrambi condannati al massimo della pena, è stato il turno di questo feroce capo nazista, terrore di Genova al tempo dell’occupazione tedesca. Sentenze che, se da un punto di vista giudiziario hanno poca rilevanza dato il tempo trascorso, servono a chiudere dal punto di vista storico alcune fra le più orrende pagine degli anni dell’ultima guerra e a ridare, come ha ricordato Leonardo Paggi, docente di storia contemporanea all’Università di Modena, “volti e nomi ai massacratori perché la storia non si può scrivere solo con le testimonianze delle vittime”. L’istruttoria condotta dal giudice Benedetto Manlio Roberti è riuscita, grazie alla consulenza storica del professor Carlo Gentile, una ricca documentazione proveniente dal Bundesarchiv di Friburgo e di Berlino, una serie di testimonianze (compreso l’interrogatorio reso da Otto Kaess il 9 giugno del ’97 per rogatoria in Germania) a ricostruire le efferate stragi compiute in Liguria ed in Piemonte dai militari tedeschi. Si è trattato di un’operazione lunga e difficile da cui è uscito a tutto tondo il ruolo del tenente colonnello Engel, comandante di prima linea, alla guida diretta dei rastrellamenti tanto da guadagnarsi la Croce al merito di prima classe con spade ed una motivazione che non lascia dubbi sulle sue responsabilità: “Quando egli iniziò il suo comando, le Alpi liguri facevano parte di un’area in cui le bande erano estremamente attive. Engel ha saputo, attraverso un’esemplare collaborazione con i comandi delle forze armate, mobilitare assai bene le scarse forze a disposizione nella sua zona di competenza, per combattere le bande. Considerata la scarsità di truppe, egli ha saputo raggiungere risultati eccellenti. Con un lavoro minuzioso ed instancabile ha messo in piedi un servizio di spionaggio contro i banditi, ha organizzato gruppi di azione contro le bande e ne ha diretto e coordinato l’impiego con successo”. La prima medaglia, Engel se la guadagnò con il tremendo rastrellamento della Benedicta (dal nome di un antico romitorio) a cavallo dell’Appennino ligurepiemontese fra la Val Stura e la Val Lemme, condotto fra il 6 e l’11 aprile 1944. Fu un’azione decisa a tavolino dai Comandi germanici, che in quel modo volevano garantirsi la sicurezza del controllo delle vie di comunicazione stradali e ferroviarie tra la riviera ligure e la pianura padana e la tranquillità operativa per lunghi mesi. I partigiani, nei rapporti inviati ai tedeschi da parte della IV Legione della Gnr di Alessandria, erano stati sopravvalutati: in realtà la III Brigata “Garibaldi” Liguria e la Brigata autonoma “Alessandria” contavano su circa 800 unità, di cui solo la metà era dotata di vecchi fucili modello ’91, e su un’organizzazione molto precaria. Molti erano ragazzi, non preparati, sfuggiti ai reclutamenti della Rsi, convogliati in una zona ristretta (il che era stato un errore) nella speranza di un rapido addestramento militare e di un altrettanto rapido arrivo degli anglo-americani. Non era mancata purtroppo anche una sottovalutazione del nemico da parte partigiana. L’attacco decisivo da parte di unità tedesche, Gnr e bersaglieri italiani, iniziò all’alba del 6 aprile dopo l’accerchiamento del fondovalle. I partigiani furono presi di sorpresa, ci fu un parziale ripiegamento sulla Benedicta mentre altri gruppi si apprestarono a resistere. Non mancarono degli sbandamenti. Il 7 aprile il massacro:i tedeschi calarono sulla Benedicta dove, a gruppi di cinque, ragazzi inermi furono sterminati dai bersaglieri agli ordini di un ufficiale di Engel. Settantacinque i caduti. I corpi vennero gettati in una fossa comune che alla fine della giornata fu riempita di un centinaio di cadaveri, uccisi dopo la cattura il 7 aprile. Altri gruppi di sbandati vennero sorpresi nelle zone vicine e trucidati immediatamente: tredici a Villa Bagnara, sedici a Voltaggio, quattordici a Passo Mezzano. Il bilancio finale fu di 145-147 vittime. Altissimo il numero dei deportati (anche contadini e civili della zona), circa 400 nei campi di Mauthausen e di Gusen. Il rastrellamento aveva cancellato tutto il lavoro che sino all’aprile del ’44 il Cln di Ovada, di Novi Ligure (sede dell’Armata di Graziani), di Acqui Terme, il Cln ed i partiti antifascisti, avevano condotto per costituire e potenziare la III Brigata Liguria e la Brigata autonoma “Alessandria”. La seconda accusa mossa contro Engel riguardava il massacro di cinquantanove prigionieri (undici rimasti senza identità) prelevati dalla Casa dello studente e dal carcere di Marassi di Genova e fucilati il 19 maggio 1944 in località Fontanafredda presso il passo del Turchino. Quarantadue erano antifascisti provenienti anche da altre province, diciassette erano giovani rastrellati il mese precedente alla Benedicta. Le fucilazioni erano state la risposta che Engel aveva dato al movimento gappista genovese, reo di aver fatto esplodere il 14 maggio una bomba al cinema Odeon che aveva provocato la morte di cinque militari tedeschi ed il ferimento di quindici. Una risposta, seppur di proporzioni più ridotte, in linea con il modello delle Ardeatine (anche se il rapporto tra tedeschi uccisi e vittime della rappresaglia superò il rapporto di uno a dieci adottato da Kappler) affidata alle SS e realizzata con modalità particolarmente crudeli. Infatti le vittime furono costrette a salire su assi protese su una grande fossa scavata il giorno precedente da un gruppo di ebrei detenuti nel carcere di Genova, per poi essere abbattute in gruppi di sei, legate due a due, dai mitra delle SS e di soldati della Kriegsmarine. Gli esecutori tentarono di cancellare le tracce dell’eccidio segnalando in un comunicato del 20 maggio che era avvenuto il 18 e non il 19, una falsità che, aggravata dalla impossibilità di avere notizie dalla Casa dello studente e dal carcere di Genova, impedì a lungo ai familiari di conoscere la notizia del massacro. Un delitto premeditato e crudele al di fuori dello stesso concetto di rappresaglia, in qualche caso ammesso dal diritto internazionale. L’eccidio di Portofino nella notte tra il 2 ed il 3 dicembre 1944 era il terzo episodio contestato ad Engel, che aveva autorizzato il prelevamento dalla Sezione IV del carcere di Marassi di 22 detenuti politici per l’esecuzione. Un rito terribile: gli sventurati furono fucilati sulla spiaggia dell’Olivetta, poi, legati l’uno all’altro con del filo di ferro, vennero caricati su delle barche e gettati in mare con pesanti pietre come zavorra. Il Castello di San Giorgio sopra Portofino era diventato sede di un luogo di torture inflitte dal tenente Ernst Reimers. Una succursale della Casa dello studente di Genova, più appartata, dunque adatta per le violenze contro i detenuti. Le ragioni dell’eccidio di Portofino, a lungo segreto, non furono mai chiare. Qualcuno sostiene, e forse a ragione, che si sia trattato di una rappresaglia per l’eliminazione di alcune spie da parte del Comando generale delle Brigate “Garibaldi” il 30 novembre. Il tenente colonnello Engel doveva rispondere anche della fucilazione, avvenuta il 23 marzo 1945, di diciassette detenuti nella IV Sezione del carcere di Marassi nei pressi del cimitero di Cravasco. Le esecuzioni avrebbero dovuto essere venti, ma due prigionieri riuscirono a fuggire durante il trasporto ed un altro, Arrigo Diodati (“Franco”), 19 anni, pur ferito alla gola, era finito sotto il corpo di un compagno colpito a morte, riuscendo a salvarsi. Anche in questo caso si era trattato di una brutale rappresaglia organizzata dall’AK di Engel a seguito di un’imboscata dei partigiani della Brigata “Balilla” nella quale, il 22 marzo, a Campomorone di Genova, era caduta una pattuglia di militari tedeschi. Nello scontro a fuoco le vittime tedesche erano state otto. Engel non aveva perso tempo: dalla sezione SS di Marassi vennero prelevati i morituri, la mattanza fu affidata a marinai tedeschi al comando di un ufficiale, con la partecipazione di sottufficiali SS e di un italiano collaborazionista.

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Un nazista perfetto

(f.g.)

 

Chi era Siegfried Engel, il boia della Benedicta e del Turchino, di Portofino e di Crevasco, il torturatore della Casa dello studente, l’aguzzino della IV Sezione del carcere di Marassi, da cui venivano prelevati i patrioti antifascisti per le fucilazioni, condannato all’ergastolo nello scorso mese di novembre dal Tribunale militare di Torino, che vive tranquillamente, come se nulla fosse successo, nei pressi di Amburgo? Nato a Warnau sull’Havel, in Sassonia-Anhalt, il 31 gennaio 1909 da una famiglia di insegnanti, dopo gli studi medi si iscrisse all’Università di Kiel dove seguì gli studi storici. A quel punto la svolta che avrebbe segnato la sua vita. Nel 1932 infatti entrò nel Partito nazionalsocialista (tessera n. 1.305.576). Componente fino al luglio 1934 delle famigerate SA, unità di repressione, dal 1936 entrò a far parte delle SS (tessera n. 272.593). Nominato ufficiale il 12 settembre 1937, Engel fu inquadrato nel Servizio di sicurezza. Tenente nel 1937, capitano nel 1939, maggiore nel 1941, successivamente tenente colonnello. Secondo una relazione del professor Carlo Gentile, consulente tecnico della Procura militare di Torino, Engel era “uomo dal carattere forte, capace di imporsi, saldo dal punto di vista ideologico, un nazionalsocialista perfetto”. Dopo aver assunto dal gennaio 1944 la direzione dell’Aussenkommando di Genova, si dedicò in un primo momento alla repressione degli scioperi e poi, sempre più intensamente, alla lotta antipartigiana, costituendo reparti autonomi e “controbande”, gruppi di SS e di repubblichini di Salò che agivano sul territorio direttamente controllato dalla Resistenza cercando di ottenere informazioni, attaccando elementi isolati e piccoli Comandi di distaccamenti. Secondo una relazione del ’44 dell’ufficio di Genova, il tenente colonnello Siegfried Engel poté contare in quel periodo su oltre 250 effettivi (120 tedeschi e 130 fascisti italiani) con autocarri ed un certo numero di blindati. Oltre ai grandi rastrellamenti e ai vari eccidi contestati dalla magistratura militare e che rappresentano la base giudiziaria del processo terminato a Torino con la condanna all’ergastolo, Engel condusse di sua iniziativa un notevole numero di piccole azioni contro i cosiddetti “banditi”: l’8 ottobre nell’ambito della “operazione Milano”, il 21 agosto la “bonifica” della strada Voghera-Piacenza, il 21 novembre il conflitto a fuoco presso Isola del Cantone. “Con un lavoro minuzioso ed instancabile - si legge nella proposta del conferimento all’alto ufficiale nazista della Croce al merito di guerra di prima classe con spade - ha messo in piedi un servizio di spionaggio contro i banditi, ha organizzato gruppi di azione contro le bande e ne ha diretto e coordinato l’impiego con successo”.

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Depositata la motivazione dell’ergastolo a Theo Saevecke

Piazzale Loreto: il massacro fu premeditato

Evitata la prescrizione del reato - Demolita l’ipotesi della rappresaglia perché nell’attentato dell’8 agosto 1944 in viale Abruzzi a Milano non ci furono vittime tedesche.

 

Quella di piazzale Loreto fu una strage premeditata e crudele. Ma non solo. Fu studiata nel laboratorio della morte dell’Hotel Regina, sede delle SS, in ogni particolare, affidando ai militi della “Muti” e della “Gnr” il compito di sterminare le innocenti vittime e di lasciarle poi sul selciato in segno di feroce ammonimento. Il capitano Theo Saevecke, responsabile della Sipo-Sd, la polizia e servizio di sicurezza delle SS di Milano, fu il responsabile della fucilazione dei 15 antifascisti di piazzale Loreto il 10 agosto 1944. Prese personalmente la decisione di prelevare i prigionieri dal carcere di San Vittore, in pieno accordo con l’apparato nazista dell’Hotel Regina e del generale Tensfeld di Monza, responsabile delle SS del Nord Italia. La strage aveva rappresentato la feroce risposta ai martellanti attacchi dei Gap (i Gruppi d’azione patriottica) a Milano e in provincia, ultimo dei quali l’attentato dell’8 agosto ad un autocarro tedesco in viale Abruzzi, che provocò la morte di nove civili italiani e numerosi feriti. Ma di questo episodio, la medaglia d’oro della Resistenza, Giovanni Pesce, a quel tempo comandante del terzo Gap “Rubini”, ha negato sempre la paternità. Fu dunque una strage spietata, freddamente voluta, programmata e non una rappresaglia, perché in contrasto con ogni regola militare. La condanna all’ergastolo emessa il 9 giugno 1999 dal Tribunale militare di Torino, accogliendo le richieste del Procuratore militare Pier Paolo Rivello, trova il suo fondamento giuridico anche in un altro fondamentale elemento: i giudici militari, nelle motivazioni della sentenza redatta dal presidente Stanislao Saeli e depositate in cancelleria il 9 luglio scorso, hanno ritenuto subvalenti le riconosciute attenuanti rispetto alle aggravanti della premeditazione e della crudeltà, facendo scattare la imprescrittibilità del reato. Nel testo, di una quindicina di pagine, i giudici hanno illustrato il percorso compiuto per giungere alla sentenza.

La competenza giudiziaria:

le SS, secondo la Corte di Cassazione, facevano parte delle Forze armate del Reich, dunque erano pienamente assoggettabili alla giurisdizione penale militare. Saevecke apparteneva senza dubbio al corpo delle SS, come hanno dimostrato documenti e fotografie.

La responsabilità:

deriva da decine di testimonianze e da vari rapporti interni alle SS, primo fra tutti una relazione proveniente dall’archivio federale di Berlino in cui si fa espresso riferimento alla strage. Nel documento si legge fra l’altro: “Nel periodo compreso fra il 21 luglio ed il 10 agosto i Gap hanno compiuto molti attentati (...). In risposta, il 10 agosto quindici detenuti della Polizia di sicurezza sono stati pubblicamente fucilati in una piazza di Milano. A fine intimidatorio i cadaveri sono stati lasciati sulla piazza per un giorno”.

La decisione:

fu assunta dal capitano Saevecke, una “deità” nel carcere di San Vittore, secondo la definizione del giornalista Indro Montanelli, che riuscì ad evadere in modo rocambolesco dalla prigione milanese pare con la collaborazione dello stesso Saevecke. Altri autorevoli testimoni, fra cui Elena Morgante, segretaria dell’ufficiale nazista, hanno affermato che fu il capitano SS a pianificare il delitto: “Io personalmente presentai questa lista al Saevecke e gli chiesi di ridurla ulteriormente a quindici nominativi, cosa che egli fece”.

Qualificazione del reato:

fu “violenza con omicidio in danno di cittadini italiani” del codice penale militare e non fu rappresaglia perché non vi fu lesione di un diritto o interesse dello Stato, non ci fu proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta, furono violati i più elementari valori umani. Nessun tedesco cadde in viale Abruzzi per cui “non avrebbe potuto neppure essere invocato il bando di Kesselring”. Non ci fu neppure da parte germanica un’inchiesta per risalire ai colpevoli.

Modalità organizzative:

Saevecke definì le modalità dell’eccidio, gli esecutori, il luogo, il numero dei fucilandi fra l’8 ed il 9 agosto. Inoltre diede ordine a due sottufficiali SS, Heininger e Jarsko, di controllare gli uomini della “Muti” e della “Gnr” mentre si recavano con il loro carico umano da San Vittore a piazzale Loreto e di riferire se l’esecuzione fosse avvenuta.

La pena:

detto della prevalenza delle aggravanti sulle attenuanti generiche (aver liberato Parri e aiutato Montanelli, aver mostrato “sensibilità” in alcune occasioni di fronte alle pressioni del cardinale di Milano, non essersi mai sottratto ai suoi giudici in altri processi), l’ergastolo poggia la sua legittimità sulla non prescrizione del reato. Una prescrizione improponibile dal momento che, sia la memoria storica che l’allarme sociale prodotto dalla strage, vivono tuttora nella coscienza popolare. Scrive il presidente Saeli: “Tutti i testimoni che sono sfilati davanti al Collegio hanno dimostrato, con l’emozione delle voci, con le lacrime e con ogni altro segno di partecipazione, di aver impresso indelebile nella memoria quanto hanno visto ed udito. La vivacità dei ricordi, ben più nitidi di quelli riguardanti fatti recentissimi ma di poco o nullo allarme sociale, ha permesso al Collegio di allontanare da sé il pericolo - gravissimo in un giudice imparziale - di considerarsi “giudice della storia”. La mole di documenti probatori, la “freschezza” delle dichiarazioni testimoniali, la passione profusa dalle parti processuali nel sostenere il proprio ruolo hanno fatto dimenticare che si trattava di fatti accaduti più di mezzo secolo fa…

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La denuncia dell’allora sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Paolo Albano

L’eccidio di Caiazzo: scomparso il dossier, vinse l’insabbiamento

da “Repubblica” del 7 novembre 1999

 

Ho letto su “Repubblica” l’interessante reportage sulla strage nazista di Sant’Anna di Stazzema e sulla scoperta delle verità, a suo tempo volutamente nascoste, su quel terribile fatto di sangue. Vorrei intervenire sull’argomento segnalando la palese analogia

che il detto caso presenta con quello dell’eccidio di Caiazzo del 13 ottobre 1943, richiamato nello stesso articolo e parimenti coperto per lunghi anni dello stesso doloso silenzio (esso segna storicamente l’inizio della ferocia nazista in danno di civili italiani, in quanto consumato su donne, vecchi e bambini caiatini ad appena un mese dalla firma dell’armistizio dell’8 settembre ’43). Quando ero sostituto procuratore della Repubblica a Santa Maria Capua Vetere ebbi a condurre, nei primi anni Novanta, le indagini sulla strage, riaprendo il caso 50 anni dopo il fatto, grazie al ritrovamento negli Stati Uniti di un dossier - prima coperto dal segreto militare - da parte del cittadino italo-americano Joseph Agnone. Nel corso dell’istruttoria rimasi oltremodo sorpreso dalla mancanza di ogni e qualsiasi precedente giudiziario relativo al massacro, che inopinatamente per la giustizia italiana era come se non si fosse mai verificato. Durante il processo, poi, ebbi modo di rinvenire la prova documentale della volontà politica, nell’immediato dopoguerra, di insabbiamento del caso. Dal carteggio, infatti, del maggio ’46, di William Stoneman, consigliere speciale del segretario delle Nazioni Unite, con il direttore del Dipartimento della guerra di Washington è emerso che una commissione militare d’inchiesta degli alleati aveva indagato sulla strage, identificando due degli autori nel tenente Wolfgang Emden e nel caporale Kurt Schuster - e che tutti gli atti erano stati trasmessi alle autorità italiane. Con lettera del 15/12/46 il colonnello Tom Barrat comunicava che il “caso 188” (quello di Caiazzo) era stato definito con la seguente motivazione: “Trasmesso al governo italiano il 7 luglio 1946, in conformità della dichiarazione del 1943, perché tutte le vittime erano italiane”. È un dato storico che il dossier, ufficialmente trasmesso, scomparve poi nel nulla e il silenzio scese sullo spaventoso eccidio. Pur processati a Santa Maria C.V. e condannati all’ergastolo nel 1994, Emden e Schuster rimangono liberi nel loro Paese. È giusto che si sappia.

Da Triangolo Rosso, gennaio 2000

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