Triangolo rosso

Dieci anni senza Primo Levi

Una presentazione scritta dall’autore nel 1965

Così nacque in me l'idea della "Tregua"

 

Nel 1965 la casa editrice Einaudi pubblicò il libro di Primo Levi “La tregua” nella collana “Letture per la scuola media”. Primo Levi curò personalmente questa nuova edizione del suo libro, scrivendo decine di note esplicative, per consentire ai ragazzi più giovani di comprendere il suo racconto. Nell'occasione egli scrisse anche una introduzione, nell'intento di spiegare ai suoi giovani lettori il contesto in cui il libro nacque. Una presentazione che ci piace di riprendere quasi per intero, data l'attualità del racconto di Primo, adesso che nelle sale di tutta Italia circola la versione cinematografica.

 

Sono nato a Torino, nel 1919, da una famiglia moderatamente agiata di ebrei piemontesi. Esistono molti modi diversi di essere ebrei: dalla piena osservanza delle regole religiose e delle tradizioni, fino alla indifferenza totale, ed alla accettazione del modo di pensare e di vivere della maggioranza. Per me, essere ebreo significava qualcosa di vago, non propriamente un problema: significava una tranquilla consapevolezza della antichissima storia del mio popolo, una sorta di incredulità benevola di fronte alla religione, una tendenza spiccata verso il mondo dei libri e delle discussioni astratte. Per tutto il resto, non mi sentivo diverso dai miei amici e condiscepoli cristiani, e mi sentivo a mio agio in loro compagnia. Da ragazzo, avevo desiderato di seguire varie vie: dai 12 ai 14 anni, di diventare un linguista, dai 14 ai 17 di essere astronomo. A 18 anni mi sono iscritto all'Università, nel corso per la laurea in chimica. Non avrei certo pensato di diventare uno scrittore, se non vi fossi stato condotto da una lunga catena di avvenimenti. Come è facile ricavare dal mio anno di nascita, sono cresciuto ed ho compiuto i miei studi in tempo fascista: non comprendevo appieno il senso oppressivo del fascismo, ma nutrivo una imprecisa irritazione e avversione contro gli aspetti più volgari e illogici della cosiddetta cultura fascista. Nel 1938 furono proclamate in Italia le leggi razziali. Non erano provvedimenti gravi come quelli che, in Germania, stavano avviluppando in una rete mortale la minoranza ebraica insieme con gli altri “nemici dello Stato”: tuttavia, separavano gli ebrei dal resto della popolazione, e riaccendevano nelle nostre memorie i ricordi tristi dei ghetti, spariti solo novant'anni prima. Seguirono leggi assurde, inique e vessatorie; i giornali, ogni giorno, erano pieni di menzogne e di offese. Era una inversione, un capovolgimento ridicolo e crudele della verità: gli ebrei non solo erano “da sempre” i nemici del popolo e dello Stato, ma i negatori della giustizia e della morale, i distruttori della scienza e dell'arte, i tarli che col loro lavorio occulto minano alle basi l'edificio sociale, i colpevoli del conflitto ormai imminente. Questa insistente campagna di calunnia ebbe tuttavia funzione di reattivo sulla coscienza degli italiani, addormentati da 15 anni di fascismo: valse a creare una ben netta linea di demarcazione fra chi credeva e obbediva e chi rifiutava fede e obbedienza, e ad aprire gli occhi a tutti (non solo agli ebrei) sulla vera natura del fascismo e del nazismo. Quando il fascismo cadde, nell'estate del 1943, provai gioia ed entusiasmo per quello che mi sembrava uno spontaneo atto di giustizia della storia, ma non ero preparato affatto al duro periodo di lotta che seguì, e che non poteva non seguire; mi sentivo indeciso, inesperto, e la prospettiva del combattimento mi spaventava. Salii ugualmente in montagna, e mi aggregai ad una banda partigiana del movimento “Giustizia e Libertà”: una banda in formazione, ancora disarmata e molto povera; poche settimane dopo incappammo in un grosso rastrellamento della milizia fascista. Molti riuscirono a fuggire: io e pochi altri fummo catturati. Quando fui interrogato, ammisi di essere ebreo, perché speravo che i fascisti si limitassero a rinchiudermi in un campo di concentramento in Italia, o in una prigione; invece, nel febbraio 1944 fui consegnato nelle mani dei tedeschi. Trovarsi in potere dei tedeschi, in quegli anni, significava per qualsiasi ebreo un destino terribile. L'odio contro gli ebrei, latente da secoli in Germania e in tutta l'Europa orientale, aveva trovato in Hitler il suo profeta e banditore; e Hitler aveva trovato, in milioni di tedeschi, un esercito di collaboratori obbedienti e volonterosi. Già da anni gli ebrei erano stati espulsi dalla vita del paese, e costretti alla fame, alla reclusione in nuovi ghetti, al lavoro forzato per le industrie di guerra: ma intorno al 1943, in gran segreto, si era incominciato a tradurre in atto un programma inaudito, talmente orrendo che, anche nei documenti ufficiali, veniva indicato solo con sinistre allusioni: “trattamento appropriato”, “soluzione finale del problema ebraico”. Questo programma era semplice ed agghiacciante: tutti gli ebrei dovevano essere distrutti. Tutti, senza eccezione: anche i vecchi, i malati, i bambini; tutti i milioni di ebrei che, col succedersi delle invasioni in Europa, si trovavano ormai in mano ai nazisti: ebrei tedeschi, polacchi, francesi, olandesi, russi, italiani, ungheresi, greci, jugoslavi. Ma uccidere in silenzio milioni di persone, anche se inermi, non è impresa facile: e allora ecco mobilitata la celebre abilità tecnica e organizzativa tedesca. Si costruirono impianti speciali, nuove macchine mai concepite prima: vere fabbriche della morte, capaci di sterminare migliaia di creature umane in un'ora con gas tossici, come si fa coi topi nelle stive, e di incenerirne i cadaveri. Il più grande di questi centri di distruzione si chiamava Auschwitz: ad Auschwitz arrivavano ogni giorno tre, cinque, dieci treni carichi di prigionieri, da tutti gli angoli d'Europa; in poche ore dall'arrivo l'opera di sterminio era compiuta. Pochissimi si salvavano dalla fine immediata: solo gli uomini e le donne più giovani e più forti, che i tedeschi inviavano in campi di lavoro. Ma anche in questi campi la morte era sempre in agguato: la morte per fame o per freddo, o per le malattie provocate da fame, freddo e fatica; inoltre, tutti coloro che venivano giudicati non più abili al lavoro venivano immediatamente inviati ai centri di sterminio. I tedeschi mi deportarono proprio ad Auschwitz. Fui giudicato adatto ai lavori pesanti, e inviato al campo di lavoro di Buna-Monowitz: tutti i prigionieri di questo campo lavoravano in una enorme fabbrica di prodotti chimici. Ho vissuto a Buna un anno, durante il quale morirono i tre quarti dei miei compagni, immediatamente sostituiti da masse di nuovi prigionieri destinati a loro volta alla morte. Sono sopravvissuto grazie ad una combinazione di rare fortune: non mi sono mai ammalato, ho ricevuto cibo da un operaio italiano “libero”, negli ultimi mesi ho potuto far valere la mia qualità di chimico e lavorare in un laboratorio della sterminata fabbrica anziché in mezzo al fango e alla neve: inoltre, conoscevo un po' di tedesco, e mi sono sforzato di imparare questa lingua quanto meglio e più presto potevo, perché avevo compreso quanto essa fosse necessaria per orientarsi nel mondo complicato e spietato del campo di concentramento. Il centro di Auschwitz fu liberato dalle truppe sovietiche nel gennaio 1945, ma la nostra speranza in un rapido ritorno in Italia doveva andare delusa. Per ragioni non chiare, forse soltanto come conseguenza dell'estremo disordine che la guerra aveva lasciato dietro di sé in tutta Europa, e in Russia in specie, il nostro rimpatrio ebbe luogo solo nell'ottobre, e si svolse lungo un itinerario lunghissimo, imprevedibile e assurdo, attraverso la Polonia, l'Ucraina, la Russia Bianca, la Romania, l'Ungheria e l'Austria. Rientrato in Italia, dovetti affrettarmi a trovare un lavoro, per mantenere me e la mia famiglia: ma la non comune esperienza che mi era toccata in sorte, il mondo infernale di Auschwitz, la miracolosa salvazione, le parole e i volti dei compagni scomparsi o sopravvissuti, la libertà ritrovata, l'estenuante e straordinario viaggio di ritorno, tutto questo mi premeva dentro imperiosamente. Avevo bisogno di raccontare queste cose: mi sembrava importante che esse non rimanessero a giacere dentro di me, come un incubo, ma fossero conosciute, non solo dai miei amici ma da tutti, dal pubblico più vasto possibile. Appena potei incominciai a scrivere, con furia e insieme con metodo, quasi ossessionato dal timore che anche uno solo dei miei ricordi potesse andare dimenticato. Così è nato il mio primo libro, Se questo è un uomo, che descrive l'anno di prigionia ad Auschwitz: l'ho scritto senza sforzo e senza problemi, con soddisfazione e sollievo profondi, e con l'impressione che quelle cose “si scrivessero da sole”, trovassero in qualche modo una via diretta dalla mia memoria alla carta. Se questo è un uomo ebbe successo, ma non tale da farmi sentire “scrittore” a pieno titolo. Avevo detto quanto dovevo dire, avevo ripreso la mia professione di chimico, non provavo più quel bisogno, quella necessità di raccontare, che mi avevano costretto a prendere la penna in mano. Tuttavia, questa esperienza nuova, così estranea al mondo del mio lavoro quotidiano, l'esperienza dello scrivere, del creare dal nulla, del cercare e trovare la parola giusta, del fabbricare un periodo equilibrato ed espressivo, era stata per me troppo intensa e felice perché non desiderassi ritentare la prova. Avevo ancora molte cose da narrare: non più cose tremende, fatali e necessarie, ma avventure allegre e tristi, paesi sterminati e strani, imprese furfantesche dei miei innumerevoli compagni di viaggio, il vortice multicolore e affascinante dell'Europa del dopoguerra, ubriaca di libertà e insieme inquieta nel terrore di una nuova guerra. Sono questi gli argomenti di La tregua, il libro del lungo viaggio di ritorno. Credo si distingua agevolmente che esso è stato scritto da un uomo diverso: non solo più vecchio di 15 anni, ma più pacato e tranquillo, più attento alla tessitura della frase, più consapevole: insomma, più scrittore in tutti i sensi buoni e meno buoni del termine. Eppure, scrittore non riesco a considerarmi, neppure oggi: sono soddisfatto di questa mia condizione duplice, e conscio dei suoi vantaggi. Essa mi permette di scrivere solo quando lo desidero, e non mi obbliga a scrivere per vivere; sotto un altro aspetto, il mio mestiere quotidiano mi ha insegnato (e continua ad insegnarmi) molte cose di cui ogni scrittore ha bisogno. Mi ha educato alla concretezza e alla precisione, all'abitudine di “pesare” ogni parola con lo scrupolo di chi esegue un'analisi quantitativa; soprattutto, mi ha abituato a quello stato d'animo che suole chiamarsi obiettività: vale a dire, al riconoscimento della dignità intrinseca non solo delle persone, ma anche delle cose, alla loro verità, che occorre riconoscere e non distorcere, se non si vuole cadere nel generico, nel vuoto e nel falso.

Primo Levi

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Uno scritto indirizzato ai visitatori del “Memorial” italiano nel Lager di Auschwitz

"Non tutti gli italiani furono fascisti. Lo testimoniamo noi italiani morti qui"

 

La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo, non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle Camere di Lavoro nell'Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto. È vecchia sapienza, e già così aveva ammonito Enrico Heine, ebreo e tedesco: chi brucia libri finisce col bruciare uomini; la violenza è un seme che non si estingue. È triste ma doveroso rammentarlo, agli altri ed a noi stessi: il primo esperimento europeo di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia è nato in Italia. È il fascismo, scatenato dalla crisi del primo dopoguerra, dal mito della "vittoria mutilata", ed alimentato da antiche miserie e colpe; e dal fascismo nasce un delirio che si estenderà, il culto dell'uomo provvidenziale, l'entusiasmo organizzato ed imposto, ogni decisione affidata all'arbitrio di un solo. Ma non tutti gli italiani sono stati fascisti: lo testimoniamo noi, gli italiani che sono morti qui. Accanto al fascismo, altro filo mai interrotto, è nato in Italia, prima che altrove, l'antifascismo. Insieme con noi testimoniano tutti coloro che contro il fascismo hanno sofferto, i martiri operai di Torino del 1923, i carcerati, i confinati; gli esuli, ed i nostri fratelli di tutte le fedi politiche che sono morti per resistere al fascismo restaurato dall'invasore nazionalsocialista. E testimoniano insieme a noi altri italiani ancora, quelli che sono caduti su tutti i fronti della II Guerra Mondiale, combattendo malvolentieri e disperatamente contro un nemico che non era il loro nemico, ed accorgendosi troppo tardi dell'inganno. Sono anche loro vittime del fascismo: vittime inconsapevoli. Noi non siamo stati inconsapevoli. Alcuni fra noi erano partigiani e combattenti politici; sono stati catturati e deportati negli ultimi mesi di guerra, e sono morti qui, mentre il Terzo Reich crollava, straziati dal pensiero della liberazione così vicina. La maggior parte fra noi erano ebrei: ebrei provenienti da tutte le città italiane, ed anche ebrei stranieri; polacchi, ungheresi, jugoslavi, cechi, tedeschi, che nell'Italia fascista costretta all'antisemitismo dalle leggi di Mussolini, avevano incontrato la benevolenza e la civile ospitalità del popolo italiano. Erano ricchi e poveri, uomini e donne, sani e malati. C'erano bambini fra noi, molti, e c'erano vecchi alle soglie della morte, ma tutti siamo stati caricati come merci sui vagoni e la nostra sorte, la sorte di chi varcava i cancelli di Auschwitz, è stata la stessa per tutti. Non era mai successo, neppure nei secoli più oscuri che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi: che si mandassero a morte i bambini e i moribondi. Noi, figli cristiani ed ebrei (ma non amiamo queste distinzioni) di un paese che è stato civile, e che civile è ritornato dopo la notte del fascismo, qui lo testimoniamo. In questo luogo, dove noi innocenti siamo stati uccisi, si è toccato il fondo delle barbarie. Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgono di ammonimento: fa che il frutto orrendo dell'odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme, né domani né mai.

Primo Levi

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Il trauma del ritorno nei ricordi di Felice Malgaroli, ex deportato a Mauthausen

La mia “Tregua” durata decenni

La tregua: di questo bellissimo film sentiamo commenti e opinioni contrastanti giacché esperti storici e appassionati alla fiction vedono da ottiche diverse l'immagine di quel passato.

 

Alla "Prima" al Teatro Regio, in una zona d'angolo riservata, era presente un modesto gruppo di ex deportati, dimenticati dai media e dal pubblico hanno tuttavia apprezzato il giusto omaggio riservato al gran mondo del cinema. Si sa che così vanno le cose del nostro tempo dove è diventato costume che le cose valide siano solo quelle dette da chi è citato dalla critica o dalla televisione. Quindi nulla di strano se in quella serata i media non hanno fatto caso alla presenza dei protagonisti di altre "Tregue", ciascuno con la propria nell'animo e alcuni col dubbio di non averla ancora conclusa. Infatti La tregua è (tra le altre cose) anche una riflessione sull'uscita dal Lager, e ogni sopravvissuto ne è uscito (all'inizio) solo fisicamente, e ha subìto la propria “Tregua” per anni prima di poter uscire da quella esperienza anche con la mente. Ricordo il 1945 quando anch'io appena tornato camminavo in città e rivedevo le volte che, in Lager, avevamo immaginato di farlo insieme per ubriacarci di speranza, quando tornare nel mondo dei vivi era ormai solo caparbia illusione e non più voglia di vivere, che lo sfinimento ci offriva settimane lunghe come anni, e il sopravvivere era un residuo di istinto primordiale. Da qualche parte del nostro sacco umano sorgeva un muto grido di sopravvivenza, non tanto dissimile da quello dei selezionati che ridotti a piccole colonne di scheletri denudati venivano avviati al crematorio. Essi non piangevano, né elevavano nenie mistiche o citazioni citabili, ma esibivano solo braccia cadenti e teste curve di rassegnazione da cui, a volte, usciva uno sguardo indefinibile; un'ultima scintilla di vita chiedeva: "Perché?" A questo pensavo mentre andavo per le strade di Torino, ma non le sentivo mie, non ne traevo beneficio giacché nei miei occhi c'era ancora e sopra ogni cosa quel "Perché?". Rivedevo quando oltre i reticolati era apparso un Deus liberatore; un tank americano seguito da una pattuglia di ragazzi yankee che, storditi dall'orrore tagliavano il reticolato. Poi il primo cibo, il buttare gli stracci, il saccheggio del magazzino militare per indossare abiti e utili stivali. Il nazismo è sconfitto e nella prima notte di libertà credo di elaborare un pensiero: la guerra è finita e giacché siamo liberi e uguali mi fermo a dormire tra i russi, respirare la loro aria forse mi lascerà un segno di quanto fossero reali i racconti paterni sulla Russia libera, un vago ricordo della Resistenza che dovrebbe, con questo passo, aiutarmi a capire come sarà il domani. Nella notte alcuni di quei compagni mi svegliano e si fanno consegnare panni e stivali. Sono compagni di Lager, li conosco e cerco di protestare: "Ma la guerra non è finita? E tu Yoris eri partigiano in Italia, come mai ora...?". Col gergo di Lager farfuglia su qualcosa di un domani incerto e simile a un'altra guerra che continua; nello sguardo è ancora l'amico di ieri, poi compassionevole per la mia ignoranza scrolla la testa, volta le spalle e sparisce. Di questa esperienza nulla racconto, giacché se il fascismo è stato un errore fatale ora vogliamo pensare sia vero l'opposto, un'altra "idea" densa di promessa e di continue spiegazioni tra cui diluisco anche quel brutto ricordo. Non potrei fare altro; delle realtà della vita non comprendo nulla, sono ancora un pezzo di Lager attorno le cui ossa s'è formata la carne, ma il cervello pare acqua; vedo attorno a me gente che ha idee e conosce dettagli di lotte e successi rivoluzionari di altri popoli, sparsi in altri luoghi e in altri spazi di tempo, ciascuno trae conclusioni e nel quotidiano si avvia al futuro con certezza, ma per me è solo un brusio di gente saputa. Mi pare di essere il solo a non saper cosa fare, il Lager ha cancellato anche i valori delle cose buone e semplici; una tendina stirata, il ricevere un fiore o il camminare tra la gente libera non mi rende libero, del tavolo apparecchiato non conta la cura festosa ma solo il cibo, e gli altri non sanno, non capiscono e non vogliono sapere. Amano ascoltare fatti cruenti per provare emozioni, ma non possono immaginare cosa sia stato aver visto uccidere e torturare con indifferenza, e ora l'indifferenza loro mi ferisce, ma non posso spiegare perché non esiste ancora un linguaggio per dire Lager. Intuisco appena che non potrò cominciare a vivere se non riesco a uscire dal Lager raccontandolo, ma ogni mattino rimuovo gli incubi notturni, ho altro da fare. In officina svolgo un lavoro duro di forno e maglio, otto ore di fragore e vuoto. A sera la cena e poi in tram alla scuola serale. Anni immerso in questa nebbia; officina e pasti, trigonometria e legge di Ohm, e misure elettriche e cose astruse che ricostruiscono i piani di memoria in quel liquido cerebrale che a poco a poco si addensa. Sono passati cinque anni, ho finalmente un diploma in mano, uno strumento per alzare la testa in un mondo sconosciuto. D'ora innanzi comincerò ad uscire dal Lager, forse. Ecco questo è stato l'inizio della mia "Tregua", simile a quella di alcuni altri ex deportati lavoratori. In seguito ho fatto carriera, ho lavorato all'estero, imparato idiomi e quindi ampliato lo sguardo sul mondo, ma qui dentro è rimasto un oscuro pezzo di Lager, e in questa occasione, oggi 1997, sostengo che "La mia Tregua" è durata decenni. Se è terminata non posso saperlo. Neanche per Primo Levi possiamo saperlo; alla fine del film il protagonista si siede e comincia a scrivere, ma è solo fiction.

Felice Malgaroli

Felice Malgaroli, deportato a Mauthausen, matr. It. 115577. Vive a Torino, ha scritto Domani Chissà, Racconto storico 1938-1952 (prefazione di Norberto Bobbio) Edizioni L'Arciere, e Transeuntes, Italiani Emigranti a vita, Edizioni L'Arciere.

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Come direbbe Primo: “Osservate e meditate”

Il film di Rosi visto con gli occhi di un ex deportato

Inutile ostinarsi a valutare il grado di fedeltà della pellicola al testo da cui è tratta: bisogna concedere al regista qualche licenza poetica. Bravo l’attore protagonista, efficace l’ambientazione nell’Europa devastata dalla guerra.

 

Il film di Rosi inizia con la mirabile scena di quattro giovani soldati a cavallo: descritta da Primo Levi all’inizio de La tregua. In una sola immagine Rosi deve rendere ed a mio avviso rende perfettamente l’articolata pensosa descrizione di Primo. La neve grigia ed il cielo grigio concorrono a formare l’atmosfera. Confesserò che ho cercato un manifesto che riproducesse questo eccezionale fotogramma, ma invano, per appenderlo come un quadro alle mie pareti. E la scena anch’essa all’inizio del rovesciamento sul mucchio della “cosa” Somogyi pur sobriamente trattata e non insistita, solleva nell’ex deportato un’onda sconvolgente di ricordi. Andando avanti non mi soffermerò su singole scene salvo eccezioni. La prima eccezione è il tripudio di gioia per la vittoria, la fine della guerra, e la celebrazione del Victory day con uno spettacolo modesto, travolgente e raffinato. Dalla scena dei giovani a cavallo – 27 gennaio - alla fine della guerra - 9 maggio, data dell’armistizio - sono passati tanti giorni di straziante attesa. Sono passati tre mesi degli otto lunghissimi che separano Primo dal ritorno in Patria. Apriamo una parentesi per vedere che cosa è veramente successo il 27 gennaio 1945. Si parla comunemente di liberazione di Auschwitz, ma la liberazione è limitata ai relativamente pochi prigionieri che non sono stati trascinati dalle SS nelle marce della morte dirette verso i Lager più lontani dal fronte russo. Anche a Mauthausen arrivarono gli evacuati da Auschwitz che non sono morti per strada e la loro liberazione si protrae fino al 5 maggio. Sui salvati del 27 gennaio non grava l’incubo del Lager, ma l’infelicità della lontananza dalla famiglia, dalla casa, dal proprio paese. La tregua ci descrive e il film rappresenta viaggi assurdi, immotivati che hanno mete contraddittorie prima di inoltrarsi nella giusta direzione. Il via vai delle gigantesche locomotive con la stella rossa, lungi dal generare sentimenti euforici, danno tuttavia un segnale di speranza e di pace. Soprattutto ricordando lo snodarsi dei treni bestiame, carichi di vittime designate, diretti con il loro carico di dolore verso i campi di eliminazione, le camere a gas, l’annientamento per mezzo del lavoro. Chi ha viaggiato in uno di quei treni non può non subire uno sconvolgimento. Ecco perché il film di Rosi non è stato per me un semplice spettacolo. L’attore Turturro, il protagonista del film che impersona Primo, con la sua aria meditativa, attonita, apparentemente distaccata, sembra filtrare gli avvenimenti per ricavarne l’essenza e poter un giorno scrivere: come l’autore della Tregua ha certamente fatto. I puristi, che hanno visto con altro spirito, sottolineano alcune divergenze tra film e testo di Levi per il rilievo della figura di Galina o l’accentuazione delle buffonerie di Cesare. A parte il discusso inginocchiamento del prigioniero tedesco davanti alla stella gialla di Primo: ispirato, dice Rosi, all’inginocchiamento del cancelliere Schmit a Varsavia al monumento dove sorgeva il Ghetto. Dopo tanti sinceri elogi, una mia critica: il finale a Torino che mi è sembrato di taglio troppo patetico e sentimentale: non avrei peraltro saputo suggerire nulla di diverso. A parte il fatto che la trasposizione in film di un testo e per di più di un testo divenuto ormai classico difficilmente può soddisfare le più raffinate esigenze, bisogna ben concedere al regista qualche “licenza poetica”. Mi soffermo su di un altro aspetto del film, l’ambientazione in una Europa orientale devastata dalla guerra che riportandoci in quei tempi lontanissimi-vicinissimi ci documenta sui disastri della guerra. Per parte mia ricordo una Monaco ridotta a un cumulo di macerie e la luce del sole al tramonto filtrata attraverso le ferite dei muri perimetrali delle case. Nel valutare gli avvenimenti contemporanei che di giorno in giorno si susseguono e nel darne un giudizio, nell’immaginare un intervento, non si può non tenere presenti il clima, i sentimenti, gli accadimenti, le ideologie di quei tempi “maledetti” e gloriosi. Rileggete la Tregua, andate a vedere il film e, parafrasando Primo Levi, osservate e meditate.

B.V.

Da Triangolo Rosso, aprile 1997

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