TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Pietro Pascoli: I Deportati - pagine di vita vissuta (1960)

presentazione di Ferruccio Parri

Capitolo 6 - I lavori forzati nel campo di Hersbruck

I CAMPI DI LAVORO

 

Hersbruck è un'elegante cittadina situata in una ridente zona collinare, disseminata di ville e di frutteti, con ricche piantagioni di luppolo, chiamata localmente la «Svizzera della Franconia Centrale», a 32 chilometri ad est di Norimberga. Il campo di concentramento, di recente costruzione, si distende su una bassura fangosa alle porte della città ed ospita 5000 prigionieri civili di molte nazionalità: italiani, austriaci, francesi, belgi, olandesi, ungheresi, rumeni, spagnoli, russi, cechi, polacchi, jugoslavi, tedeschi ed ebrei, tutti adibiti ai lavori forzati nelle gallerie di Happurg, a Ponnesbrunn, sulla linea che conduce a Praga, e sui piazzali ferroviari della vicina Norimberga, tenuti continuamente sotto i bombardamenti aerei. Entro il campo, nei punti di maggiore passaggio, sono installate delle passerelle di legno per proteggerei dal fango e dagli acquitrini. Qui i baraccamenti non hanno la sistemazione razionale interna come abbiamo visto a Flossenbürg e come vedremo più innanzi a Dachau. Sono costituiti da un unico salone ad uso dormitorio con uno spiazzo libero in corrispondenza dell'ingresso per la distribuzione del rancio, cella di punizione, stanzino per il capo-blocco. Il campo è dotato del Revier e di tutti gli altri servizi come si è già visto a Flossenbürg, ad eccezione del magazzino viveri, i quali ci vengono forniti giornalmente da Norimberga. Il crematorio è fuori del campo, ai piedi delle gallerie di Happurg. Nei campi di lavoro viene somministrato un supplemento viveri: duecento grammi di pane e dieci grammi di margarina o di Wurst nelle 24 ore. Supplemento che non supplisce le calorie che l'organismo viene a consumare in più per effetto del lavoro quotidiano e del travaglio cui il prigioniero è soggetto entro il Lager. Il secondo atto del dramma è aperto.

 

UN COLLOQUIO MEMORABILE

 

Il blocco che ci ospita, blocco 2, emana ancora un odore pungente di idrato di calce: vi era stata nel campo, poco prima del nostro arrivo, una epidemia di tifo. Come auspicio non c'era male... Per cinque giorni fummo tenuti rinchiusi nel blocco in stato di contumacia: due giorni senza cibo e tutti i cinque giorni senza un sorso d'acqua. Un compagno volle da me mezza razione di pane per un pezzo di ghiaccio, sporco di carbone ed imbevuto di orina, che egli era riuscito a procurarsi balzando dalla finestra. In quei pochi giorni di sosta ottenni il permesso di parlare ai miei compagni. Dissi loro poche parole: «Gli Italiani nei Lager sono mal visti da tutti. Dobbiamo tenere un contegno esemplare per fare onore alla nostra Patria, per riabilitarla dinanzi al mondo. Nessuno rubi, nessuno mantenga un contegno rissoso o scorretto. Adeguiamoci alla disciplina del campo, ma adeguiamoci con dignità e con fermezza d'animo». In quello stesso giorno il Lagerälteste (capo del campo) entrato nel blocco mi fece chiamare fuori e mi interrogò a lungo sui motivi che avevano determinato la mia deportazione, con un tono insolitamente cortese. «Ho lottato per liberare la mia Patria» risposi «e per creare un mondo libero e migliore». «Una sigaretta?». «Grazie, non fumo». Alla fine del colloquio la solita domanda; la domanda che i tedeschi rivolgono per tentare di attirare un soggetto di qualche interesse nella loro rete per servirsene. «Che cosa volete fare in campo di concentramento?». «Desidero seguire la sorte dei miei compagni» risposi. «Allora vi dirò che in un mese qui sarete morto». «Non credo» replicai. «Ho ancora molte energie da consumare e la guerra finirà presto». Quell'uomo, astuto ed intelligente, aveva intraveduto alcuni elementi della mia individualità e del mio carattere; non aveva misurato invece il mio patrimonio ideale ed il mio fondo d'animo.

 

LO STOLLBAU

 

A otto chilometri da Hersbruck, sopra il centro abitato di Happurg, che si raggiunge con una tradotta giornaliera, i tedeschi scavano le viscere di una montagna per installarvi officine e apprestamenti militari al riparo dalle incursioni aeree. Lo Stollbau. Entro quelle gallerie centinaia di squadre di prigionieri civili lavoravano a turni continuati sorvegliati da capi squadra e da militari delle SS, accompagnati da cani poliziotti tenuti a guinzaglio. La formidabile macchina bellica tedesca non conosce soste. Entro quelle gallerie stridono le perforatrici elettriche e brillano le mine, si caricano carrelli e nastri trasportatori, si montano gli armamenti. L'aria è irrespirabile, inquinata di anidride carbonica e pregna di pulviscolo di arenaria. Il rumore dei carrelli, dei nastri volanti, degli ordigni meccanici, dei picconi e dei badili si confonde con le grida selvagge dei capisquadra e coi boati delle mine. Sui piazzali esterni decine di squadre sono adibite al trasporto dei materiali, che viene fatto a spalla su per la china del monte per erti pendii senza sentieri battuti, tra il gelo e la neve, tra le piogge scroscianti e sotto la tormenta del nevischio. lo fui comandato col generale Morra, col colonnello Dessy, Antonio Turchetti ed altri a quest’ultimo lavoro. Le ore effettive di lavoro giornaliero, sul sito, erano otto, ma diventavano spesso sedici ed anche ventiquattro consecutive, senza cibo e senza un attimo di sosta, allorché la tradotta che trasportava le squadre per il cambio veniva bloccata dai bombardamenti aerei. Prima giornata. «Vier Mann!». Quattro uomini. Sull'orlo di un dirupo sono accatastate enormi piastre di ferro per decauville incollate l'una sull'altra a cagione della bassa temperatura. «Portatele in galleria!». La squadra non è dotata né di un piccone né di una leva. Tutto deve essere fatto con le mani rattrappite dal gelo. «Los! Los!». Ci mettiamo di buona voglia ma la prima piastra non si muove. Facciamo un altro sforzo simultaneo, ma inutilmente. Allora un maresciallo delle SS, che teneva un cane lupo al guinzaglio, un uomo tarchiato dal viso angoloso, si avventa come una jena inferocita sul nostro gruppo ed incomincia a menare colpi di frusta brutali sulle nostre teste mentre il cane ci addenta i polpacci. Fu il battesimo, questo, del lavoro forzato in Germania. Sotto quelle nerbate i nostri muscoli si contraggono, il sistema nervoso si eccita. I quattro uomini raccolgono disperatamente le loro energie in uno spasimo supremo e la prima piastra si solleva ed imbocca la galleria. Secondo giorno. In quattro siamo comandati a trasportare a spalla una pesante stufa di ferro per un percorso di nove chilometri su strada provinciale sotto una tempesta di neve. La squadra è accompagnata da un giovane finnico che indossa la divisa tedesca, fucile in spalla e verga in mano: un ceffo biondo, esile, col ciuffo dei capelli tirato sugli occhi. Questo giovinastro sarà il nostro martirio per un mese. Ogni duecento metri di cammino un minuto di sosta col carico sulle spalle, indi si riprende la marcia sotto la bufera che infuria. Un compagno scivola sulla neve ed il pesante ordigno ci cade al suolo. Allora il biondo finnico smorza un sorriso sarcastico, alza la verga e ci batte furiosamente col volto che irradia fuoco e fiamme. Dopo tre ore di marcia la stufa è collocata al suo posto. Sarebbero bastati due uomini con un carretto a mano per compiere quel servizio con maggior agio e con più speditezza, ma nei campi di sterminio le cose funzionavano così: tutto obbediva ad un piano per la nostra sistematica eliminazione. Poi venne la prova delle bombole di ossigeno. Morrà, Dessy, Turchetti, ricordate? Due uomini, due uomini affamati, sono comandati a portare a spalla una grossa bombola di ossigeno dal centro abitato fin dentro le gallerie su per la china del monte e su per interminabili scarpate formate con materiale di riporto che scivola sotto i piedi, senza una pista, senza un sentiero. Una lunga fila di uomini accoppiati trascinano le bombole su per l'erta senza fine, tre passi avanti e due indietro, sotto il comando del finnico che mena la verga ed urla come un cane arrabbiato. Giunti al piano della decauville la bombola è ripresa a spalla e portata entro le gallerie attraverso infiniti ostacoli senza un minuto di sosta. Liberati dal pesante fardello giù di nuovo a valle per caricarsi di un'altra bombola senza un attimo di respiro. La pioggia cade a scrosci, ulula il vento e turbina la bufera ma il prigioniero politico non conosce soste e non conosce ripari. L'indomani egli indosserà gli stessi abiti unti laceri inzuppati di acqua, e così di seguito per un'intera settimana, per un mese, per due mesi, finché la morte amica non verrà a liberarlo per cedere il suo posto ad un altro. Il prigioniero che viene colto dai bisogni corporali o dalla dissenteria è piantonato a vista da un militare armato. Ma anche in quell'inferno bianco, dove l'uomo si scatena sull'uomo con la furia di uno sciacallo, vi è, come si è veduto fin qui, qualche anima generosa che ti impedisce di cadere nella disperazione, che ti salva dal freddo e sconsolante scetticismo. Un capo squadra civile ci conduce spesso, di nascosto, in fondo alle gallerie per farci riposare; un soldato di Berlino, prussiano puro sangue, ci rivolge spesso la parola, ci dà qualche notizia sommaria sull'andamento della guerra, non alza mai la voce od il calcio del fucile. Non so se queste rare creature fossero mosse da principi politici o da sentimenti religiosi, ma debbo credere che quel loro contegno generoso fosse determinato, soprattutto, da un nobile impulso del cuore. Il campo di concentramento mi ha insegnato a giudicare gli uomini per quelli che sono, e non per quelli che si mostrano, o per le idee che professano. Ogni turno di lavoro decine di prigionieri si afflosciano al suolo. Essi cadono entro le gallerie, sui piazzali esterni, entro le tradotte o lungo le marce. Questi poveri esseri sono raccolti dai loro compagni e portati a spalla o su una lettiga di fortuna in una baracca. Poi... nessuno li vede più. In un sol mese di lavoro allo Stollbau oltre la metà dei miei compagni erano morti. Un solo episodio, che compendia tutto il martirio patito dai deportati in questo campo di lavoro, sarà sufficiente per documentare, se mai ci fosse bisogno, dinanzi al tribunale della Storia, la brutalità nazista, esercitata contro uomini inermi, indifesi, che avevano diritto alla vita e al rispetto della loro personalità, in omaggio al Codice della umanità, per tradizione storica e per le Convenzioni internazionali in atto. Un mattino, salendo verso le gallerie, un prigioniero della mia colonna, già ridotto ad uno scheletro, si affloscia al suolo. Il maresciallo delle SS che comanda la colonna in marcia si avventa su quel disgraziato e lo colpisce accanitamente con gli stivaloni sul ventre sulla testa sui fianchi per farlo alzare e per indurlo al lavoro. Quel povero essere ebbe un sol gemito, sbarrò gli occhi e non si mosse più: era spirato. Allora il sottufficiale di Hitler si curvò su quell'infelice, lo prese per il bavero e lo trascinò lungo disteso sul margine della strada voltandosi via sghignazzando, con una risata mefistofelica. Questa la fine che poteva toccare a ciascuno di noi. Quaia, Esposito, Turchetti, ricordate? Mentre si svolgeva quella scena terribile, laggiù, in basso, ai piedi dello Stollbau, una densa colonna di fumo biancastro si alzava nel cielo grigio. Era il crematorio che funzionava giorno e notte sotto i nostri stessi occhi.

 

IL MARTIRIO NEL CAMPO

 

Terminata la giornata di lavoro il prigioniero non trova ancora pace. Lungo il percorso per il rientro nel Lager i prigionieri marciano incolonnati per cinque, battendo una strada fangosa coperta di ghiaccio e di neve, sospinti come sempre col calcio del fucile. Giunti alla tradotta l'inferno si ripete. I vagoni bestiame vengono presi d'assalto perché ognuno vuole accaparrarsi un angolino. In quella mischia interviene il capo colonna che mena il randello a casaccio. Nell'interno dei vagoni i russi ed i polacchi si fanno largo a viva forza, solidali tra loro, per sdraiarsi comodamente, appoggiandosi magari di tutto peso sui loro compagni vicini. Se un italiano riesce ad occupare un angolo del vagone o ad appoggiarsi semplicemente ad una parete viene spesso cacciato via con violenza da quel posticino e buttato entro la mischia, costretto a viaggiare in piedi. Il prigioniero che viene preso dalla dissenteria, malattia comunissima nel Lager, è costretto a soddisfare i suoi bisogni naturali entro la miski, la quale poi, nel campo, gli servirà per prendersi la zuppa. All'ingresso del Lager saluto al comandante, visita alle tasche, controlli e sopra controlli: per un'ora, per due ore di seguito, sotto la tormenta nel gelo e nella neve. Molte sere rientrando dallo Stollbau siamo obbligati a portare a spalla un carico di legna da ardere per fornire le cucine del campo. Rientrati nel blocco ci viene distribuito finalmente il rancio della giornata, ma una marmitta su cinque ci viene sottratta per la doppia razione agli aguzzini e loro fedeli amici. Anche i prigionieri di lingua tedesca ricevono doppia razione di zuppa. Talvolta viene distribuita «l'aggiunta», ma gli italiani sono esclusi da questo privilegio. Una sola volta che io mi azzardai ad avvicinarmi alla marmitta con la miski in mano il capo blocco mi scaraventò uno sgabello di legno sulla testa. «Hunde ltaliener, wegg!». Cane di italiano, via!. Arrivavano le dieci, le undici e talvolta persino la mezzanotte prima che ci potessimo coricare nelle cuccette, affiancati per due. Durante la notte confusione per il cambio delle squadre, allarmi aerei e qualche mano che frugava sotto le nostre teste per rubarci la razione del pane, gelosamente custodita per il giorno seguente. ­ Alle 4.30 del mattino, dopo sole 4-5 ore di riposo, la campanella del campo suona la sveglia, seguita immediatamente dalle urla del capo blocco che sbuca fuori semi-svestito dalla sua tana e si precipita sui prigionieri, tra i castelli di legno, randello in mano. Il prigioniero che fosse incappato un sol minuto nel sonno o avesse indugiato un solo attimo per buttarsi fuori dalla cuccetta veniva battuto. In meno di dieci minuti siamo inquadrati fuori del blocco, illuminati dai bagliori delle lampade e dei fari proiettori. Appello, istruzione militare e via di corsa a porci in colonna, pronti per la partenza. All'uscita del campo saluto agli ufficiali di servizio, indi a passo di marcia verso la tradotta. «Rechts!... Links!. Rechts!... Links!... Marsch!...». Un'altra giornata di martirio incomincia. Chi si affloscerà oggi al suolo? Quanti saranno i morti di questa giornata? Ma tutto non finiva lì. Talvolta la sera rientrando dal lavoro l'intera squadra veniva punita, e ciò per il fatto che qualche prigioniero, affetto da dissenteria, aveva lordato la cuccetta durante la notte. Allora l'intera squadra veniva punita con cinque colpi di nerbo di bue, menati sulla colonna vèrtebrale, stesi bocconi uno ad uno su uno sgabello di legno. Poi c'erano i servizi straordinari. Una sera stavo consumando la zuppa di rape. Ad un tratto un aguzzino mi afferrò per il bavero della giacca: «Heraus!». Fuori! Cercai di spiegarmi. «Ho fatto due turni di lavoro consecutivo allo Stollbau» gli dissi «lasciatemi per favore consumare il rancio prima di uscire: non mangio da 24 ore». «Heraus!». Fuori! Fuori, sul piazzale delle adunate, all'ingresso del campo, giacevano a terra, buttati alla rinfusa, centocinquanta cadaveri sanguinolenti, avvolti nel fango e nel ghiaccio. Quei cadaveri, scaricati a tutta notte da un «trasporto» giunto da Gross-Rosen, erano finiti sui vagoni per fame od a colpi di pistola.«Spogliateli! ». Tutti quei morti, ricuperate le loro vesti, dovevano essere avviati al crematorio. Ero incapace di piegarmi ad un tal genere di lavoro. Due colpi di bastone sulla testa mi decisero a dar mano all'impresa. «Los!». Pioveva dirottamente. Mentre una squadra di prigionieri svestiva i cadaveri, un'altra li trasportava provvisoriamente, su apposite barelle, in una baracca del campo. Gino Unfer, di Timau, che mi aiutò a spogliare un cadavere grande e grosso come il gigante Golia, col cranio fracassato da cui uscivano le cervella, ne sa qualche cosa. E qualche cosa ne sa pure il generale Morra, che fu comandato come me in quella famosa sera a compiere quel servizio straordinario. Vero, Morra? Rientrato nel blocco, dopo la mezzanotte, non trovai più al mio posto la miski con la zuppa: me l'avevano rubata.

 

DIVAGAZIONI

 

Nei brevi momenti di respiro lo spirito dei prigionieri si sforzava di evadere dalla triste realtà quotidiana per spaziare nel mondo dei ricordi. Louis, medico parigino, figura esile dal viso scolorito, che mi fu amico, e, per alcun tempo, compagno di lavoro, mi parlava spesso con acuta nostalgia della sua Parigi. La Sorbona, Montmatre, Notre-Dame, i Campi Elisi, il Louvre, Place Vendôme, i grandi Boulevards, l'Opera, Moulin-Rouge, i Lungo Senna, Bois de Boulogne, il Pantheon e lo spirito parigino erano i suoi temi preferiti. Conosceva l'Italia. Parlava con sincero entusiasmo del «Pays du Soleil», ricordando gli splendori di Venezia, le magnificenze di Firenze, le vetuste vestigia di Roma, le bellezze incomparabili di Capri, Amalfi, Palermo e Taormina. «Ho anch'io molti ricordi di Parigi, Louis» gli rispondevo «dove, tra l'altro, vive da trent'anni con i suoi figli l'unico mio fratello vivente. Ricordi di vita intellettuale e, perché no? di vita anche mondana. Ero più giovane, allora, Louis, ed è appunto in gioventù che si fissano meglio nel nostro spirito le immagini che più ci colpiscono». «Una delle visioni che maggiorente mi ha colpito a Parigi fu il monumento marmoreo eretto all'ingresso del cimitero dei cani, sulla Senna, raffigurato da un "san bernardo" in alto rilievo che porge il soccorso ad un viandante sperduto tra le alte nevi di quel passo alpino, dove il visitatore può leggere la seguente epigrafe: «Ho salvata la vita a quaranta uomini: il quarantunesimo mi ha ucciso». «E ricordo i balli al Moulin-Rouge, che si svolgevano tra un tripudio di calici scintillanti e di... candori femminili; e le deliziose serate alle Folies Bergeres, dove una sera ho assistito alla rappresentazione della vita del nostro Casanova, tutto veli e donne nude, in una stupenda cornice del tempo, con Mistinguett al centro dello spettacolo che faceva pompa delle sue gambe, ritenute allora le più belle del mondo». «Che opinione ti sei fatta, Pascoli, della donna francese?». «Deliziosa in amore e nel gusto e ottima massaia, ma capricciosa e autoritaria». «Cosicché, tutto sommato, preferisci l'italiana?». «Oh, la domanda è imbarazzante; certo si è che la donna italiana, dotata di un equilibrato senso di femminilità, vede nell'uomo l'appoggio morale e la guida dei suoi giorni, e questo per noi italiani, che ci teniamo al prestigio del sesso maschile, conta molto». Inutile dire che i sensi in campo di concentramento tacevano in tutti. La breve conversazione è stata interrotta da un grido del capo blocco che ordinava l'adunata. «Antreten !». Accanto a noi, in una cuccetta desolata, un compagno, ridotto pelle e ossa, spirava.

 

SOGNI E REALTÀ

 

Durante la notte veniva da sognare. In sogno ci apparivano piatti colmi di pasta asciutta, di bistecche, di pane, di frutta, e ci apparivano le nostre creature più care. Le immagini oniriche riproducevano i bisogni più immediati ed i desideri insoddisfatti. Durante i pochi momenti di sosta, a spirito sveglio, quelle immagini tornavano sulla bocca di tutti. «Io mangerei piatti colmi così... di bistecche, di maccheroni...... «Ed io mangerei...». «Se tu avrai la fortuna di tornare a casa va dalla mia mamma, dille che...». «E tu bacerai i miei bambini e dirai a mia moglie...». «Ma, smettetela, non cercate emozioni qui: tenete da conto le vostre energie se volete tornare a casa!». Un momento dopo il discorso ricadeva sugli stessi argomenti.

 

RADIO LAGER

 

Nei blocchi correvano fantastiche notizie di bocca in bocca sugli eventi bellici, naturalmente in grande segreto, poiché nei Lager era proibito parlare di guerra o di politica e noi sapevamo benissimo cosa significasse la voce del verbo proibire tra i reticolati di ferro. Notizie che suscitavano di volta in volta speranze e delusioni, incoraggiamento e sconforto. Dopo soli tre giorni dal nostro arrivo a Flossenbürg  circolava la notizia che gli Inglesi erano sbarcati a Trieste. Verso i primi di febbraio nel Lager di Hersbruck un italiano, anziano del campo, ci portò la notizia che Berlino era caduta. Altre notizie sensazionali correvano in quel mese con insistenza nei blocchi: Vienna era già occupata dai Russi, gli Americani erano entrati a Francoforte sul Meno, la Turchia era entrata in guerra a fianco degli Alleati, tutta l'Italia era liberata, eccetera, eccetera. Poi le notizie si contraddicevano, s'invertivano.

Per gli ottimisti la fine della guerra era sempre imminente. Per i pessimisti sarebbe durata in eterno.

 

UN IMPICCATO

 

Un mattino tutti i prigionieri presenti nel Lager sono fatti allineare a semicerchio davanti ad una baracca. Alla testata di quella baracca si erge una forca: una specie di trapezio rudimentale in tronchi di legno da cui pende una corda. Sotto quella corda un rozzo tavolino ed una sedia. Due uomini in abito civile sono ritti ai lati del tavolo con la rivoltella in pugno. Di lì a poco un prigioniero, un povero russo del mio blocco, viene trascinato verso il patibolo da altri due uomini in abito borghese. La vittima si dimena, cerca di divincolarsi, tenta disperatamente di fuggire alla triste sorte, ma i due sgherri lo sospingono in avanti a viva forza, lo fanno avvicinare al tremendo ordigno e gli ingiungono di salire sul tavolo. La vittima si rifiuta di eseguire il comando e si agita disperatamente. Allora i due sgherri lo prendono pel bavero, gli puntano la rivoltella sul cuore e con una spinta brutale lo fanno salire a viva forza. Il boia, che sarà stato magari un compagno di sventura, sale sul tavolo, afferra la corda, vi fa il laccio e lo getta al collo di quell'infelice. La folla dei prigionieri ha un fremito. Gli occhi di quella moltitudine, così eterogenea per lingua, caratteri e costumi, si chiudono simultaneamente e si abbassano al suolo. Il comandante del Lager ci tiene un sermone di poche parole: «Ha rubato» ci disse. «Così finirà ciascuno di voi se seguirà il suo esempio. Questa è la legge del campo di concentramento». Tutti gli animi sono presi da un'angoscia comune. Nel Lager regna un silenzio sepolcrale. Ad un cenno del comandante il boia balza a terra e con un'energica pedata rovescia il tavolo sul quale stava impietrito come un automa e senza benda agli occhi quel povero essere. Il corpo di quel nostro compagno cade penzoloni nel vuoto. Gli occhi vitrei di quell'essere umano, che è ancora in sé, si spalancano per un attimo come per vedere una ultima volta il volto degli uomini e delle cose, poi si chiudono. Il corpo si contrae nello spasimo del soffocamento, si allunga. I muscoli si irrigidiscono. Il volto si fa cadaverico. Dopo tre minuti quel corpo umano non dà più segni di vita e si abbandona nel vuoto con l'apparenza di uno spettro. Quel povero russo aveva rubato due patate crude nelle cucine del campo. Era salito sulla forca spinto dalla fame. Prima dell'esecuzione quell'infelice fu tenuto quindici giorni in cella di punizione a metà razione, senz'aria e senza coperte, nel buio completo.

 

FRANCO

 

Il campo di concentramento ci ha dimostrato che non solo la fame fa affrontare la morte, ma anche il bisogno di libertà. E l'esempio ce lo ha dato il compagno Franco. Il suo vero nome era Gozzart Giuseppe, di Trento. Ex capitano dell'esercito, organizzatore provetto, buon tecnico, militare di valore, il Gozzart era il Capo di S. M. al comando di coordinamento delle Divisioni Garibaldi - Osoppo in Friuli. Arrestato dai tedeschi, condotto alle carceri di Via Spalato e sottoposto a durissime torture, Franco venne deportato col mio convoglio, prima a Flossenbürg, indi ad Hersbruck, blocco 2. Egli non sopportava il chiuso e gli orrori del campo. Un giorno mi confessò che in unione ad un altro compagno aveva studiato un piano di fuga. «Non fuggire, Franco» gli dissi. «Non te la caverai». «Ho deciso, Pascoli». Da quel giorno non lo vidi più. Seppi una settimana dopo da un amico che il compagno Franco non viveva più. Era stato freddato in piena notte da una sventagliata di mitra sulla rete metallica che circonda il Lager nel disperato tentativo di guadagnarsi la libertà.

 

CINQUE GIORNI ALREVIER

 

La Morte galoppa sinistra con le sue tetre ghirlande per il Lager. «Sai, il tale è morto al blocco 16». «Il tal altro è perito sul lavoro». Un terzo era andato al Revier e non era più tornato. Morivano in terra nemica, senza il conforto della Fede, senza le cure affettuose dei familiari, senza la parola fraterna di un amico che potesse raccogliere il loro ultimo respiro, le loro ultime volontà. Il Revier, come si è già detto, è l'ospedaletto del campo ed è costituito da una serie di baraccamenti in legno ubicati entro il Lager. Verso la fine di febbraio venti gelidi e tormente di neve investirono la zona di Hersbruck. Centinaia di prigionieri, già stremati di forze, cadevano ammalati. Sui cinquemila uomini che ospitava il Lager quasi duemila erano ricoverati nei blocchi del Revier. In quel periodo caddi ammalato anch'io, colto da febbre bronchiale. Mi consultai con l'amico dottor Louis. «Mi consigli di marcare visita, Louis?». «Certo, Pascoli: hai la febbre alta». Quel consulto aveva il suo motivo: il prigioniero che non veniva riconosciuto ammalato era rimandato al suo blocco con una punizione e comandato indi a lavori più duri. La febbre sopra i 39° era sicuro riconoscimento. Sapevo che al Revier non si praticavano cure, ma il riparo dalle intemperie ed il riposo era già molto. Infatti me la cavai in cinque giorni. Al Revier il rancio era quello dei blocchi, uguale per tutti e per qualsiasi malattia, ma senza sottrazioni a beneficio degli aguzzini, anzi, non di rado, si poteva beneficiare di una «aggiunta» poiché gli ammalati gravi non mangiavano. Ogni mattina c'era la sfilata dei corpi nudi davanti al medico per una specie di visita «a vista d'occhio». Non ho mai capito perché si facesse quella parata inutile. L'appello veniva fatto in cuccetta. Vi era anche un reparto chirurgico al Revier. Come si operasse in quel reparto non lo so; so soltanto che Attilio de Carli, di Gorizia, che fu operato all'avambraccio lì dentro, vi lasciò la vita. Non sono in grado di documentare se in questo Revier si praticassero esperimenti scientifici sui corpi umani, considerati come cavie, come è stato fatto in molti altri campi di concentramento del Reich; posso precisare invece che qui gli ammalati venivano maltrattati. Una mattina, infatti, vidi entrare nel mio reparto il compagno Pino, di Trieste, proprietario di una trattoria in quella città. Era un uomo alto dal cui viso trasparivano lealtà e bontà d'animo. Si reggeva a malapena. Appena varcata la soglia del reparto per un ordine non compreso egli venne rovesciato sul pavimento e preso a calci sul ventre. Rimasi esterrefatto. Che si bastonassero i sani era una cosa ormai abituale per tutti noi, ma vedere maltrattare gli ammalati fu una cosa assolutamente imprevista. Dovetti assistere a quella scena brutale senza potermi muovere dalla cuccetta per porgere a quel compagno un aiuto. Mi adoperai per fargli un posticino sui castelli accanto a me, ed appena mi fu vicino cercai di rincuorarlo e di infondergli fiducia. Il buon Pino, che era un uomo già finito, si salvò con il riposo al Revier di Hersbruck, ma morì nel campo di Dachau, blocco 28, il 29 aprile 1945, poche ore prima che giungessero gli Americani a liberarci. In quei cinque giorni incontrai nel Revier altri tre amici carissimi: il dottor Federico Esposito, il dottor Votic, arrestato con me nella Valle dello Judrio e Giovanni Lodolo. Qui vidi il buon Votic per l'ultima volta: era in fin di vita colpito da broncopolmonite ed altri malanni. Lodolo invece, udinese, morì un mese dopo sulla tradotta che trasportava gli ammalati da Hersbruck al campo di Dachau, per l'evacuazione del Lager.

 

COME UN MOZZICONE DI LAPIS O UNA VECCHIA CHITARRA POSSONO SALVARE UNA VITA

 

Il dotto Esposito, mentre varcava la soglia per entrare al Revier, colpito da febbre, incontrò un ragazzo di Bergamo, che usciva per rientrare nei blocchi. «Prendi» gli disse quel giovane «può salvarti la vita. Lì dentro imparerai come usarla. Però mi devi dare una razione di pane...». Si trattava di un mozzicone di matita copiativa di pochi millimetri. Esposito rimase perplesso ed incerto; ma, infine, l'affare fu fatto. L'indomani mattina tutti i ricoverati al Revier, colpiti da febbre, vengono fatti camminare in circolo, attorno alle cuccette, completamente nudi, al centro della baracca. A distanza calcolata sono disposti tre aguzzini - inservienti: il primo mette in bocca ai pazienti un termometro, infilandolo di sotto la lingua come usano i tedeschi; il secondo estrae lo strumento, lo osserva, e se la colonnina del mercurio è salita più su dei 39 C° fa un segno di matita sulla fronte del prigioniero; il terzo prende nota dell'operazione su apposito registro. I pazienti che portano il segno della matita copiativa sulla fronte sono trattenuti al Revier, tutti gli altri vengono rimandati nei blocchi. Il segreto è svelato. Quell'operazione doveva compiersi in un batter d'occhio, nel passaggio tra il secondo ed il terzo inserviente: se fosse stato scoperto, l'amico Esposito sarebbe andato per... direttissima all'altro mondo! Così continuò a farla franca per un mese di seguito, e cioè fino alla evacuazione del Lager. È tutto dire! Un mese al Revier, a pieno riposo, in ambiente riscaldato, con doppia razione di zuppa (gli ammalati gravi ed i morti non mangiavano...), gli ha salvato certamente la vita. Ed anche l'amico Alfio Belardinelli, udinese, ospite del blocco n. 1, fu favorito dalla sorte. Questi se la cavò invece, per ben tre settimane, facendo divertire il capo-blocco con le note melodiche di una vecchia chitarra. Quell'aguzzino andava in estasi ad udire «O sole mio» ed altre canzoni napoletane, ed Alfio, naturalmente, ci dava dentro. Quella cuccagna durò, come già dissi, tre settimane, durante le quali quel nostro compagno fu trattenuto entro il blocco per il sollazzo del capo, al riparo del gelo e delle tempeste di neve, esonerato dal lavoro forzato, e si ebbe persino qualche «miski» di zuppa in più; il che, però, non gli impedì di ricevere spesso delle «doppie» razioni di legnate... Sadismo e piacere per la musica si alternavano nell'intimo di quell'uomo; ma alla fine chi ci guadagnò di più fu Alfio Belardinelli, il quale risparmiò, con quella chitarra sgangherata, capitatagli non si sa come tra le mani, molte energie, che lo ricondussero in Italia a riabbracciare i suoi cari.

 

PASQUA AD HERSBRUCK

 

Alleluia! Alleluia! Victimae paschali laudes immolent Christiani. Agnus redemit oves: Christus innocens Patri reconciliavit peccatores. Alleluia! Le nostre famiglie in Italia nulla sapevano di noi; noi in Germania nulla sapevamo di loro. Al prigioniero politico non era permesso di ricevere o spedire corrispondenza. Sulle mense, in casa nostra, in quel giorno c'era un posto vuoto. Il campo di Hersbruck non ospitava sacerdoti tra i prigionieri che potessero portare la parola di conforto e di fede ai credenti. Pasqua fu giornata festiva per alcuni di noi perché ci toccava, per puro caso, il turno bisettimanale di riposo. Attendevamo da tempo un rancio speciale per quel giorno che affratella gli uomini: «Gott ist mit uns». Iddio è con noi, proclamava Adolfo Hitler. L'aria tepida e la limpidezza del cielo annunciavano la primavera. La giornata fu dedicata alla pulizia personale, al rattoppo degli abiti e alla pulizia del blocco. Dopo una lunga attesa arriva finalmente il rancio. Al posto della solita zuppa di rape e patate ci fu distribuito il Gulasch: era un intingolo nerastro di cattivo odore e di pessimo sapore con un deposito di sabbia in fondo. Mezzo litro. Mezzo litro di brodaglia nauseante al posto di un litro di zuppa. Non abbiamo mai patito tanta fame in prigionia come in quel giorno. Ad un tratto le sirene suonano l'allarme. Stormi di velivoli alleati volteggiano a bassa quota tracciando sopra il Lager ampi giri in segno di saluto. I prigionieri guardano in alto con una profonda emozione quegli apparecchi che rappresentano per essi la sola speranza di sopravvivere. Un ordine perentorio viene gridato nei piazzali: «Tutti nei blocchi!». Dopo due minuti una forte detonazione scuote i blocchi; altre ne seguono. Terrore e spavento negli animi. Una bomba era caduta a duecento metri dal campo di concentramento sulla linea Norimberga-Praga ed aveva colpito un treno in sosta. Gli aerei si allontanano. Suona il cessato allarme. Cinquantasei barelle, cariche di morti e di feriti, tutti civili, sfilano entro il Lager. Alleluia! Alleluia! Gli uomini, redenti da Cristo, si erano riconciliati nel nome del Signore...

 

DATE A CESARE QUELLO CHE È DI CESARE...

 

Una sera, rientrando dallo Stollbau, mentre stavo per varcare la porta del blocco 2 un compagno mi colpì alla testa con una latta arrugginita e mi scaraventò in parte per passare prima di me. Il sangue mi sgorgava dalle ferite. Si trattava di arrivare un minuto prima a prendere la razione di zuppa. Un altro episodio della fame, dunque. Certo: un episodio della fame. Ma gli italiani, superstiti dei Lager nazisti, ricordano con amarezza infinita le umiliazioni, gli insulti, le sgarberie cui erano fatti segno da parte di compagni di altre nazionalità, ciò che veniva a renderei più mortificante e più dura la vita tra i reticolati di ferro. «Badoglio !...». «Traditori !...». «Mussolini !...». «Vittorio Emanuele». «Maccaroni». «Ladri!...». È tempo, dopo tanti anni, di spendere qualche parola su questo argomento per collocare le cose nella loro giusta luce. Diremo, innanzi tutto, che i deportati politici italiani, i quali avevano gettata a sbaraglio la loro vita per mutare il volto della loro Patria e per riabilitarla dinanzi al mondo, non erano certamente responsabili della politica di avventure e di soggezione al nazismo instaurata dal fascismo e convalidata dalla Casa regnante; né potevano essere responsabili della continuità della guerra, decisa dal Governo Badoglio dopo la caduta di Mussolini. Una discriminazione nei nostri riguardi doveva dunque essere fatta. Ladri!... Perché? Sappiamo - noi italiani - di possedere degli elementi negativi nel carattere ed anche nel costume, dovuti, soprattutto, all'influenza dell'ambiente geofisico, all'incrocio di più razze lungo il corso della storia, ed alla povertà economica; ma i campi di eliminazione sono stati un banco di prova ed un termine di paragone per tutti. Possiamo dichiarare dinanzi al mondo, con un certo orgoglio e senza tema di smentita, che in questi campi non erano italiani coloro che usavano violenze tra i prigionieri e che seminavano tra di essi odi e rancori, rattristandoci maggiormente la vita; non erano italiani coloro che rubavano il pane e gli indumenti al compagno di sventura; e non erano italiani gli aguzzini che maltrattavano e uccidevano i loro compagni di martirio per una scodella di zuppa, sottratta alla razione degli altri. Stendiamo un velo su questo doloroso passato, guardando ad un mondo migliore, che unisca uomini e popoli nella pace e nel progresso scientifico civile e sociale, ma sulle verità storiche che hanno, caratterizzato il dramma vissuto dai deportati in Germania diamo ad ognuno il suo.

 

NORIMBERGA

 

Nümberg, seconda città della Baviera, dominata dalla Rocca dell'Impero, cioè dall'antico castello medioevale, che ospitò Federico Barbarossa ed Enrico IV, è dotata di una vasta rete ferroviaria con ampi piazzali di smistamento. Su quegl'immensi piazzali migliaia di prigionieri, civili e militari, lavorano alacremente per tenere aperto il traffico, sotto i bombardamenti aerei. Verso la fine di febbraio 700 prigionieri civili del campo di Hersbruck, scelti tra i più forti e suddivisi in sette colonne, furono destinati su quei piazzali. lo venni aggregato alla quinta colonna. Per questi prigionieri c'era un supplemento rancio: una zuppetta di mais al mattino e venti grammi di margarina sul mezzodì. Sveglia alle 3.30 di notte, rientro in blocco alle 23 o alla mezzanotte. A Norimberga ebbi per la prima volta la visione tremenda della guerra: la visione del mostro bellico che divora il mondo. Case sventrate, binari divelti, edifici fumanti, ferri contorti, montagne di macerie, centinaia di cani ferroviari inceneriti, migliaia di buche profonde scavate dalle bombe attorno alla città e nel centro abitato. È il finimondo. È la distruzione. Su quei piazzali colonne di prigionieri affamati, ridotti a scheletri, abbrutiti dalla vita dei Lager, coperti di cenci untuosi e laceri, contratti nel volto e con i muscoli scarnificati, lo spirito disfatto, curvi verso terra, badile piccone mazze e leve di ferro in mano, battuti da venti gelidi e dalla tormenta, costretti ad un lavoro senza sosta, sotto la sferza dei capi e vigilati dalle baionette, offrono lo spettacolo di una umanità primitiva, di un mondo in pieno sfacelo. Le sirene d'allarme urlano giorno e notte. Centinaia, migliaia di velivoli solcano i cieli sganciando sugli obbiettivi tonnellate di alto esplosivo. Compagni di altre nazionalità, protetti da qualche capo, loro connazionale, accendono dei fuochi tra i binari per scaldarsi le membra intirizzite. Quei bagliori divampano qua e là nell'oscura caligine della tempesta, trasformando quei piazzali in grandiose e suggestive scene apocalittiche. Proibito agli italiani avvicinarsi alle fiamme. «Krva mater... Wegg!». Puttana tua madre... Via! In quei giorni io venni colpito da una foruncolosi al cuoio capelluto e da dolori sacro-lombari. Impossibile marcare visita poiché quei malanni non venivano riconosciuti. Mi trascinavo a stento, sorretto dall'amico Polo, un onesto artigiano di Gorizia, alto, robusto, di animo generoso, che mi curava, come meglio poteva, mi difendeva dalle angherie dei compagni più abbrutiti e mi sorreggeva nelle marce tenendomi per mano. Debbo in gran parte a questo fedele amico se in quei giorni terribili ho potuto salvarmi. A Norimberga, russi, cechi e polacchi, con la complicità della scorta armata, assaltavano i vagoni in sosta per rubare i pacchi-viveri destinati ad altri prigionieri di guerra. Quei prigionieri, forniti di ogni ben di Dio, mangiavano a sazietà sotto i nostri occhi senza offrirci una briciola. Ed a questo proposito citerò un fatto. Una sera, al termine del lavoro, mentre si marciava incolonnati per cinque per prendere la tradotta che ci riportava giornalmente al campo di Hersbruck, un polacco, che camminava al mio fianco, sazio fino alla gola, fece il gesto di gettar via una gavetta colma di patate cotte ben condite. L'amico Polo stese una mano. Allora vidi un gesto che non scomparirà dalla mia mente. Quel disgraziato per tutta risposta lanciò sul viso del mio amico le patate, che caddero a tetra calpestate dalla colonna in marcia, gridandogli: «Mussolini !». L'amico Polo rimase pietrificato. Ed ora due fatti, due soli fatti, per documentare il trattamento usato dai nazisti ai prigionieri politici nella superba città di Norimberga, che testimonia, nella sua famosa Università e nei suoi antichi monumenti, i più alti valori culturali ed artistici dell'Alta Baviera. li primo giorno che fui comandato al lavoro forzato in questa città venni adibito, assieme a due russi, due polacchi ed un altro italiano, a trasportare fuori dai binari, alla stazione centrale, un pesantissimo meccanismo di scambio in ferro, divelto dai bombardamenti aerei. I due italiani, inutile dirlo, furono comandati alle testate di quell'apparecchio mastodontico. Appena avviati, i compagni disposti ai lati mollano il peso che viene a scaricarsi tutto sulle nostre povere braccia. Impossibile farcela. L'Ober capo, un bestione che aveva ucciso, si diceva, per sadismo e per spirito di aggressività, centinaia di prigionieri nel campo di Gross-Rosen e che vi aveva fatto man bassa ai magazzini viveri, inferocito, urla selvaggiamente. La tensione dello sforzo è portata allo spasimo. Ci si trascina tra cumuli di macerie e rottami di ogni genere che ingombrano i binari. Finalmente, eccoci al luogo del deposito. Credetti di poter sostare un attimo per riprendere fiato. In quell'istante l’Ober capo mi si avventò addosso con la furia di una belva inferocita, mi tempestò di pugni sotto il mento e mi rovesciò sui rottami. Mi rialzai lentamente, ma un'altra scarica di pugni mi immobilizzò. Grondavo sangue da più parti ed in quello stato miserevole dovetti avviarmi cori la squadra per un altro carico, smarrito e dolorante, senza avere la possibilità di asciugare con uno straccio qualunque i fiotti di sangue che mi colavano dal viso, senza avere la possibilità di avvicinarmi ad una fonte. Questo il ricordo più vivo - personale - che conservo della città delle bambole e dei Maestri Cantori. «Verfluchter Italiener!» Maledetto italiano, mi gridò, e si voltò via ridendo sguaiatamente. Un altro giorno è la volta di un maresciallo dei carabinieri di Sestri Ponente, deportato per aver collaborato con le forze della Resistenza. Quel compagno era arrivato in Germania che pesava 95 chili, in tre mesi era ridotto a 50. Così deperito, vinto dallo sconforto, egli era caduto in una grave depressione nervosa: piangeva continuamente come un bambino capriccioso. Riuscii a fado aggregare nella mia nuova squadra, nella quale c'era un perfetto affiatamento tra i prigionieri, in gran parte francesi, ungheresi ed austriaci, dei quali conservo un ottimo ricordo. «Con noi starai meglio» gli dissi. «Vieni». Un mattino quell'uomo si contorceva dal mal di ventre e muoveva a stento il badile. Ogni tanto drizzava la schiena ed appoggiava il mento sul manico di quell'arnese. L'Ober, che odiava gli italiani, nel vedere quell'uomo in posizione di riposo lo redarguì aspramente. «Er ist krank» diss'io, rischiando una randellata. È ammalato. Quel compagno fu fatto salire su un vagone in sosta lì accanto. Meno male, pensai: oggi il bestione ha una buona giornata. Ero convinto che lo avesse fatto salire su quel vagone per tenerlo a riposo in attesa della tradotta serale. Un minuto dopo udii uscire dal vagone dei gemiti strazianti. L'Ober, coadiuvato da un sottufficiale delle SS, si era gettato su quell'infelice battendolo a sangue con il manico del piccone; indi trascinatolo a terra lo obbligò a rimettersi al lavoro. Tutti i limiti dell'umana sopportazione erano superati.

 

TUONA IL CANNONE!

 

1° aprile 1945. Tradotte militari, provenienti dal fronte, marciano verso l'interno del Reich. Automezzi, vetture, carriaggi di ogni genere, colmi di masserizie, donne, vecchi e bambini, ingombrano le vie della città. Norimberga, la superba città bavarese, pulsante di industrie e di commerci, veniva evacuata. 5 aprile. Alle sette del mattino, lontano, indistinto, si ode il primo colpo di cannone. Un brivido ci percuote. La voce del cannone si fa sempre più distinta e batte ad intervalli uguali. Urla laceranti di sirene. In alto, mille velivoli dislocati in perfette formazioni, solcano il cielo. Apparecchi isolati, scesi a bassa quota, tracciano ampi cerchi di fumo bianco e lasciano cadere. nello spazio migliaia di nastri scintillanti che restano sospesi nell'aria. Liberi! Liberi! Liberi! Nel cuore di ciascuno di noi si era formata la convinzione che i tedeschi, ritirandosi, ci avessero abbandonati nelle mani degli Alleati. Un bombardamento infernale ha inizio sopra le nostre teste. «A terra!». Le bombe pesanti esplodono attorno a noi, sollevando montagne di materiale terroso fra dense nuvole di fumo. Più lontano, dove il bombardamento è più intenso, immensi cumuli neri coprono l'orizzonte. Il cielo è tutto un urlo di motori rombanti e di suoni metallici. Da terra, le batterie antiaeree, disposte a difesa della città, entrano simultaneamente in azione: sono centinaia di bocche metalliche che vomitano fuoco, concentrando i tiri sulle formazioni Alleate e disegnando miriadi di nuvolette biancastre disseminate nello spazio. Cielo e terra si confondono in un sol gemito assordante di boati e di bagliori sinistri. Lo spettacolo è grandioso, terribilmente grandioso: si ha l'impressione che precipiti l'universo. È la battaglia, la battaglia per Norimberga. Il cannone si fa più possente e tuona con sicurezza maestosa, superba. Quella sera, contro le nostre previsioni ottimistiche, si fa ritorno nel Lager. Per due notti nessuno ha dormito nei blocchi. Il mattino del 7 aprile gli ammalati del campo, caricati su una tradotta di carri scoperti, sono fatti partire alla volta di Dachau. Il campo di Hersbruck, il famigerato campo di Hersbruck, veniva evacuato.

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