TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Pietro Pascoli: I Deportati - pagine di vita vissuta (1960)

presentazione di Ferruccio Parri

Capitolo 4 - Il trasporto

«UN VESSILLO IN ALTO SVENTOLA»

 

250 uomini e 10 donne furono svegliati in quella notte nel carcere di Via Spalato. L'indomani, 11 gennaio 1945, le celle si spalancarono ed una fiumana di prigionieri politici venne ammassata lungo i corridoi del carcere in assetto di partenza. Il momento è solenne. In alto, sui ballatoi del cellulare, grappoli d'uomini tendono le braccia, hanno commossi accenti di saluto. Si vive in un clima di alta solidarietà e di amore fraterno. Nessuno dei presenti potrà mai dimenticare quel momento. I rimasti intonano gli inni patriottici in segno di saluto, sfidando l'orgoglio germanico. Le note si diffondono alte negli ampi corridoi del carcere. Fuori, all'ingresso dell'edificio, familiari, amici, fidanzate, attendono da ore e ore per porgere pacchi vestiari, cibarie ed il saluto affettuoso ai loro cari, che forse non vedranno più. Dalla mia cella, dalla cella n. 3, ci giungono le note di un coro partigiano:

 

Un vessillo in alto sventola

una tela di un sol color,

emblema d'amore tra tutt'i popoli

combattenti al fronte liberator.

Senza tema, né rimpianto,

la più ardita giovèntù

ha lasciato città e paesi

per combattere lassù.

 

Se difendendo la grande causa

morte gloriosa ti coglierà

la tua vita non sarà sprecata

a tutti i popoli servirà.

 

Un vessillo in alto sventola

una tela di un sol color,

ricorda il sangue dei tuoi fratelli,

caduti al fronte liberator.

 

Nella valigia di un prigioniero viene scoperto un chiavistello. Quell'arnese doveva servire a qualcuno per aprire i vagoni lungo la «Pontebbana» e favorire la fuga. Il  maresciallo delle SS che comanda la colonna, mostrando in alto quell'ordigno, domanda a gran voce: «Di chi è questo arnese?». Nessuno risponde. «Dite, di chi è?» Ancora silenzio. «Se entro tre minuti non si presenterà il colpevole dieci di voi saranno estratti a sorte e passati per le armi. Il colpevole, presentandosi, sarà perdonato». Dopo pochi istanti di silenzio s'ode un mormorio e qualcuno grida: «Fuori! fuori!». Psicologia della folla... Un compagno, pallido in volto, si presenta al maresciallo tedesco, indi rientra tra le file dei partenti. Il sottufficiale aveva mantenuto la sua parola.

 

«PAPÀ NON È UN DELINQUENTE!»

 

Sono le 14.30 quando i cancelli del carcere si spalancano. Duecentocinquanta uomini e dieci donne, incolonnati per cinque, carichi di fagotti e scortati da militi fascisti, si avviano a passo di marcia per Via Spalato, svoltano sul Viale XXIII Marzo e si dirigono alla stazione ferroviaria. Nevica. I fiocchi volteggiano in un ciclo plumbeo e grigio mossi da una raffica di vento e cadono lenti al suolo formando una bianca coltre che affonda sotto i nostri piedi. Familiari, amici, fidanzate, tenuti a bada da militi di scorta, accompagnano i partenti, comminando in fila indiana sui cumuli di neve ai due lati della colonna in marcia. Lo spettacolo è triste e commovente. Tra le file degli accompagnatori si trovano mia moglie e la mia figliola maggiore, sedicenne; un amico aveva condotto via la piccola, di sei anni, per risparmiarle una visione così lacerante, e forse per risparmiare anche a me uno strazio incontenibile. Mia figlia si stacca dalla sua fila e mi si avvicina con un varco per tendermi la mano; ma un milite fascista, che indossava con orgoglio la divisa tedesca, la sospinge indietro. Con un lampo di disprezzo negli occhi la fanciulla si getta di scatto tra le mie braccia gridandogli sul viso: «Papà non è un delinquente!». Quella scena commosse tutti, e quel milite, che aveva trovato comodo indossare la divisa dell'esercito invasore per meglio soddisfare il suo stomaco, non osò batter ciglio.

 

ADDIO, UDINE!

 

Sul piazzale della stazione una madre sviene, una giovane sposa si accascia al suolo. La tradotta ci attendeva sul terzo binario. Quel convoglio era giunto nella mattinata da Trieste, già carico di prigionieri civili - uomini e donne - prelevati al Coroneo e alle carceri giudizi arie di Gorizia. Siamo tutti allineati per cinque sul piazzale esterno, dinanzi agli uffici doganali, in attesa di salire sulla tradotta che ci porterà in terra nemica. Durante quei pochi minuti di sosta, un distinto signore si avvicina all'ufficiale tedesco per chiedergli qualche cosa; per tutta risposta quel signore si prese un manrovescio, che lo fece tramortire. Tra il gruppo delle donne scorgo Rosa Cantoni «Giulia» e Marisa Casati «Zarasa», di Udine, destinate a seguire la nostra sorte: due brave compagne che mantenevano il collegamento tra il centro e le formazioni di montagna e che ebbero la fortuna di fare ritorno in Patria, dopo un lungo martirio ed una penosa odissea in territorio tedesco e russo. «La guerra finirà presto: coraggio!» ci grida una donna del popolo. «Tornerete, tornerete tutti!» ci grida un'altra. La guerra infatti finì dopo quattro mesi, ma solo 32 uomini e 3 donne di quel convoglio fecero ritorno in Friuli: tutti gli altri perirono tra i reticolati di ferro, sotto i cieli plumbei del nord. Le colonne si muovono verso le pensiline. Il momento è straziante. I volti delle madri e delle spose sono contratti dal dolore. Mentre sto scavalcando il binario per raggiungere il vagone bestiame piombato che mi condurrà in terra tedesca, un grido acuto mi giunge" alle orecchie: «Torna, Papa!». «Sì, tornerò presto, state tranquille ed abbiate fiducia». Sui vagoni, chiusi dall'esterno, non c'è un lume, non un filo di paglia, non una coperta, non una panca. Cinquanta uomini per vagone. Il convoglio è armato. Nell'interno di ogni vagone vi sono tre militi dotati di armi automatiche e bombe a mano; all'esterno, sulle torrette, sono piazzate le mitragliatrici. Sono le 4.30 del pomeriggio. Le ombre della sera cadono lentamente. La locomotiva da un sibilo acuto, lacerante. Il convoglio si muove con uno stridore di ferraglia che pare accentui la drammaticità del momento. Addio, Udine! Per un lungo tratto rimanemmo tutti in piedi, muti come statue, ciascuno assorto nei propri pensieri. L'arco alpino e l'ampia pianura friulana, che degrada verso il mare, sono coperti di neve. Ecco le stazioni di Tricesimo... Tarcento... Gemona...Carnia. La vista delle mie montagne mi serra la gola. Qualcuno propone di sopprimere la scorta armata e di darci alla fuga in massa, ma i pareri sono discordi: si ha il timore di finire sotto le raffiche delle mitragliatrici e si temono ritorsioni contro le nostre famiglie. All'altezza di Gemona la tradotta rallenta e le porte del mio vagone si aprono lentamente: sono i ferrovieri che operano in collegamento con le formazioni partigiane che si apprestano a favorirci la fuga. Due compagni del mio vagone scendono a terra, protetti da molti altri, ma un nutrito fuoco di mitragliatrici si scatena dalle torrette ed essi risalgono d’un balzo mentre il convoglio continua la sua marcia.

 

PRIMO SALUTO IN TERRA TEDESCA

 

È mezzanotte quando il convoglio raggiunge la stazione di confine: Tarvisio. Sul piazzale ferroviario alcune ragazze spazzano la neve dai binari. «Fuggite! Fuggite!» esse ci gridano. Furono le ultime parole udite da donne italiane, in terra italiana. «Fuggite! Fuggite!». I due compagni che si calarono a terra nei pressi di Gemona, scendono giù d'un balzo e salgono carponi la montagna... affrontando anch'essi peripezie inenarrabili fino alla fine del conflitto. All'alba il convoglio si rimette in moto. Le donne sono allogate su due vagoni agganciati in coda alla tradotta. Con me viaggia il compagno Stokel, di Trieste, che ha la moglie su uno di quei vagoni. I due coniugi non si vedranno più: Lei perirà nel campo di annientamento di Ravensbrück, nella Germania orientale, e Lui nel campo fangoso di Hersbruck, nei pressi di Norimberga. Il freddo è intenso. Le pareti interne del vagone, per condensazione del nostro respiro, si coprono di cristalli di ghiaccio. Si ha l'impressione di viaggiare in un vagone frigorifero. Enormi pennacchi bianchi pendono dalle folte abetaie in fuga dinanzi ai nostri occhi, formando un paesaggio fantastico. Ciascuno è assorto in se stesso, col pensiero rivolto alla famiglia, ai compagni in lotta, alla Patria che via via si allontana. Ed ecco un ponte a tre arcate sul fiume Gail. Quel ponte mi richiama alla mente il mio nonno materno, che prese parte alla costruzione di esso, ottant'anni or sono, e presenziò alla posa della prima pietra presente l'imperatore Francesco Giuseppe. Un parco di baracche tinte di verde, circondato da filo spinato e da torrette di guardia, ci rivela il primo campo di concentramento. Tutti eravamo convinti che ci portassero in quel campo per occuparci nella zona come «liberi lavoratori». Così almeno ci avevano assicurato al momento della partenza. La tradotta rallenta. Si ferma. Villacco. Le porte dei vagoni si aprono. La scorta armata scende. Sul piazzale ferroviario vi è un metro di neve. Su un binario morto due ragazze malconce scaricano un vagone di carbone serrando il badile tra le mani. «Alloh! Ruski!». Sono due prigioniere russe che ci porgono il primo saluto in terra nemica. Cittadini italiani residenti a Villacco si avvicinano al convoglio e ci porgono delle sigarette. Tutto ci fa pensare che le cose si mettano bene. L'Italia è vicina: forse riusciremo a fuggire. Scocca mezzogiorno, scoccano luna, le due, le tre ma nessuno si avvicina per farci scendere. Nessuno ci porta un pezzo di pane od un sorso d'acqua. Sul far della sera un milite italiano passa accanto al convoglio. «Dove ci conducono?». «A Flossenbürg». «Avete detto?». «A Flossenbürg». «È molto lontano?». «Sui confini della Cecoslovacchia». Il lettore può da solo immaginare come si poteva svolgere la vita di cinquanta uomini su ciascun vagone, con 20 e più gradi sotto zero, senza coperte ed i più senza cibo, chiusi dall'esterno, costretti a soddisfare lì dentro persino i bisogni corporali. Gli uomini si serrano l'uno a ridosso dell'altro, accovacciati sul pavimento a gambe divaricate, per trasmettersi il calore dei corpi. Le notti sono lunghe, interminabili. La sete ci divora la gola. Durante una sosta un milite italiano di scorta fa passare per il finestrino un fiasco d'acqua. Ne nasce un pandemonio. Ciascuno si contende quel fiasco e colui che arriva a portarselo alla bocca tracanna senza sosta, incurante dell'arsura degli altri... I più educati non riescono a bagnarsi la gola. Come si comporteranno questi uomini in campo di concentramento?

 

AMOS

 

La temperatura scende ancora. I cibi portati con noi sono letteralmente congelati. Alcuni spericolati staccano le assicelle dalle pareti ed accendono il fuoco sull'impiantito del vagone. Tutti cercano di avvicinarsi alla fiamma ristoratrice. Solo Amos, il povero vecchio Amos, che io conobbi un giorno d'estate in un comando di tappa a Cercivento, nell'alta Carnia, è accovacciato in un angolo del vagone col rantolo, alla gola, a cagione del fumo denso, densissimo, sviluppato dal braciere. Egli è sofferente d'asma e non può tollerare il fumo. «Non fate fumo, compagni: io muoio soffocato» diss'egli con disperazione. Nessuno gli dà retta. Il povero Amos si alza a stento per respirare al finestrino, ma, colto da malore, ricade nel suo cantuccio. Dinanzi a quel triste spettacolo mi sentii in dovere di intervenire. «Spegnete il fuoco, ragazzi. Amos è ammalato: non può respirare». «Noi abbiamo freddo». Amos, il vecchio Amos, un uomo oramai finito sotto il peso degli anni, affranto dal male e dall'avvilimento, morì pochi giorni dopo il nostro arrivo a Flossenbürg. Fu il primo dei nostri morti. Il convoglio continua la sua marcia. I nostri volti sono oramai sfigurati. Le nostre membra sono stanche. I nostri spiriti sono stanchi. Il convoglio fa lunghe soste nelle stazioni più importanti. Ad osservare il traffico delle tradotte militari, le installazioni tecniche, le ciminiere che fumano, si ha l'impressione che la guerra debba durare in eterno, che essa sia diventata un bisogno permanente dell'uomo, un elemento dell'ordine universale. Seconda notte. Il convoglio si ferma su un binario morto d'un vasto piazzale ferroviario. Salisburgo. La città di Mozart, l'antica Ivanum dei Romani, che custodisce fra i dirupi del suo superbo castello le catacombe dei primi cristiani del Nord, è avvolta nella oscurità, quasi voglia nascondere dietro un velo di pudore, come un'antica Vestale, le sue stupende bellezze. Su tutti i vagoni regna il silenzio. Verso la mezzanotte la Croce Rossa ci distribuisce una tazza di caffé latte caldo ed un pezzo di pane nero per ciascuno: fu l'unica somministrazione di tutto il viaggio. L'anima del grande salisburghese, che riempì il mondo con le sue armonie, trasfusa nella sua gente, riviveva in quell'atto umano.

 

VERSO IL RECINTO SPINATO

 

Fa giorno. I vagoni che ospitano le nostre compagne vengono sganciati dal convoglio ed avviati a Ravensbrück, un Lager per solo donne, ubicato a 80 Km. a nord di Berlino, dove furono sterminate 92 mila compagne di ogni nazionalità, per sevizie, denutrimento, malattie, lavori forzati, con percosse, nelle camere a gas e col metodo del colpo alla nuca; e dove perirono decine di bambini, nati nel Lager, sbattuti con la testolina contro le stufe accese o gettati fuori a morire nella neve, sotto gli occhi delle madri! La tradotta si rimette in moto. La nostra terra è lontana. Le nostre famiglie sono lontane. I nostri compagni di lotta, che operano sui monti, nelle pianure, nelle città d'Italia, o che languono nelle carceri, ignari della loro sorte, sono oramai lontani. Altri campi di concentramento si profilano ai nostri sguardi, sepolti nel ghiaccio e nella neve, avvolti nella caligine. Come si svolgerà la vita dei prigionieri entro quei recinti? Fuori, si distendono i vasti pianori e le fitte foreste della Baviera, tutte ammantate di bianco, punteggiate da caratteristici villaggi nordici, coi campanili aguzzi e splendide fattorie. Il paesaggio è suggestivo, ma non parla al nostro cuore. Tutto è gelo. Gelo nel nostro animo. Gelo nel mondo che ci circonda. Silenzio e gelo tra noi. Un'ora di sosta a Monaco di Baviera, culla del nazismo; indi il convoglio si muove in direzione di Praga... I villaggi, le fattorie, i pianori e le immense foreste si susseguono come una interminabile pellicola cinematografica. I vagoni si aprono. Ciascuno «sente» che oramai siamo vicini alla meta del viaggio. Nessuno può prevedere la sorte che ci sarà riservata. Un gruppo di monelli biondi e paffuti, calzoni corti e giacca di velluto, cappello di feltro con piume di gallo cedrone in testa, ritto su un'altura, guarda incuriosito il convoglio che corre in trincea. Quei monelli ci sputano contro e gridano alla scorta armata che stiamo guardando dalle porte dei vagoni… Una stazioncina minuscola, che fa capolinea. Nelle adiacenze, due stabilimenti industriali e cumuli di ali sventrate e di ferri contorti. Sono le 13.30 del 14 gennaio 1945. Il convoglio si ferma. Flossenbürg.

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