TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Don Paolo Liggeri *

* Ex deportato del Lager di Dachau autore del libro Triangolo rosso. Ed. Istituto la Casa, 1986.

La mia prigionia è durata un anno e due mesi: dapprima nel carcere di S. Vittore a Milano, poi nel campo di Fossoli, dove furono uccisi, per rappresaglia, settanta dei nostri compagni, di cui sedici della mia baracca, due dei quali dormivano proprio vicino a me. Poi vi fu Bolzano, che ricordo con molta tristezza anche perché, quando vi giunsi, il campo era ancora in allestimento e ciò rendeva ancora più disagevole la nostra situazione; sono arrivato verso la seconda metà del mese di luglio del 1944, e ne son partito il 4 o 5 di agosto dello stesso anno. Le SS, poi, mi portarono a Mauthausen, un campo, per certi versi, molto più triste e terribile, ma organizzato più razionalmente. Da Mauthausen passai poi a Gusen, un villaggio abbastanza vicino a Mauthausen; da Gusen tornai ancora a Mauthausen, e da lì mi portarono a Dachau. L’esatta pronuncia tedesca del nome di questo paese vuole l’accento posto sulla prima “a”, ma a me piace dirlo all’italiana, con l’accento sull’ultima “a”, perché mi ricorda il bau-bau dei cani che ci incutevano terrore. Ricordo Gusen, dove ho lavorato in capannoni addossati al campo di concentramento, una sistemazione che violava apertamente gli accordi internazionali, perché i capannoni riservati alla fabbricazione di materiale militare non potevano essere posti a fianco dei campi dei prigionieri: il nemico, infatti, nel bombardare queste fabbriche avrebbe potuto colpire i prigionieri. A Gusen infatti si riteneva molto probabile che questo succedesse, dal momento che vi erano dieci o dodici capannoni addossati al campo di concentramento. Era triste la fine del lavoro quotidiano in questi capannoni nel campo di Gusen: di sera dovevamo uscire in un buio squarciato dalla luce dei potenti riflettori che perlustravano tutto il campo, calzando logore scarpe o zoccoli, talvolta semplicemente stracci che guazzavano nel fango del piazzale del campo, ci fosse pioggia o neve. Dovevamo riuscire a prendere posto in una centuria, e guai se uno di noi si metteva in un gruppo con più di cento persone: era allora un grandinare di colpi di nerbo di bue, un cavo di gomma con un filo di rame con cui ci colpivano i manutengoli delle SS. Quest’ultime, infatti, spesso non si sporcavano le mani con noi, ma si servivano di delinquenti tirati fuori dalle galere tedesche, cui erano state promesse agevolazioni o forse la liberazione, purché svolgessero questo compito all’interno del campo. La ricerca della centuria avveniva così nel terrore, con la neve, mentre i riflettori ci abbagliavano, e i cani – quasi tutti pastori tedeschi – abbaiavano furiosamente contro di noi, trattenuti a stento dalle stesse SS, perché avrebbero voluto sbranarci, dato che erano stati addestrati a questo. La nostra vita era una tortura. Anche il sonno lo era: sono stato costretto a dormire per sei notti di seguito con addosso gli abiti zuppi di pioggia della giornata, senza poterli togliere perché non ne avevo altri, nemmeno della biancheria intima di ricambio. Bisognava dormire in quattro su un pagliericcio di 80 centimetri con a fianco teste e piedi, come fossimo stati acciughe: così, anche dormire diventava un tormento. Un esempio può far capire lo spirito in cui si viveva in quei tempi. Un giorno mi lamentati con un internato, più anziano di me e straniero (un problema era rappresentato dalle diverse nazionalità e diverse lingue, che rendeva estremamente difficoltoso il dialogo, pur desiderato), chiedendomi che razza di esistenza ci stessero offrendo le SS, e questi mi rispose: “Tu ti lamenti, ma pensa come noi, ora, alla fine della giornata possiamo consolare dicendo “sono riuscito a vivere un altro giorno”, ma qualche anno fa dovevamo dire “sono riuscito a vivere un’altra ora”. Eravamo sottoposti al logorio del lavoro forzato, nutriti con una miserabile zuppa, che diventava sempre più misera, fatta con polvere di piselli e molta acqua; all’inizio ci veniva dato un pane di farina scura per quattro internati, mentre nel gennaio-febbraio del 1945, quando le cose stavano ormai precipitando, la stessa quantità di pane doveva bastare per dodici internati. Pensate dunque a quale deperimento organico fossero soggetti gli uomini nel Lager, senza poter mangiare frutta né verdura né carne, con quella razione di pane nero che si riduceva sempre di più. Mi è stato chiesto cosa facessero i sacerdoti nel campo di concentramento: non come impiegassero la giornata, perché eravamo tutti sottoposti al lavoro forzato, anche millequattrocento sacerdoti internati a Dachau, ma cosa facessimo nelle ore “libere”. Mi è venuto da ridere, ed ho risposto che non giocavamo a carte né a dama né a scacchi; era possibile, talvolta, qualche conversazione, qualche prezioso scambio di idee, che non fossero i consueti lamenti o previsioni di un futuro poco roseo. Ad esempio, ricordo ancora con commozione come, nel campo di Fossoli, composto da una quarantina di internati, di eterogenei livelli culturali: giovani universitari, fors’anche qualche professore universitario e, insieme a questi, dei contadini. Uno di questi contadini, un Valtellinese, era stato arrestato mentre stava trasportando merce di contrabbando per guadagnarsi il pane: l’avevano scambiato per un uomo politico, ed invece non aveva mai fatto politica, nemmeno si intendeva di politica, ma di Gesù Cristo e del Vangelo sì, se ne intendeva, e partecipava a queste discussioni in modo mirabile. Questo avveniva in quelle poche ore in cui era concesso sedersi, anche fuori dalla baracca, a parlare fra noi. Anche a Dachau riuscimmo ad organizzare una serie di conferenze fra ecclesiastici. V’erano, a Dachau, due baracche riservate ai sacerdoti: luna occupata da sacerdoti di diverse nazionalità, e l’altra solo da polacchi: duemila all’inizio della prigionia ma ridottisi ad ottocento, quando giunsi in quel campo, perché morti di stenti, di privazioni e malattie. A questi ultimi, invisi ai nazisti come peraltro tutti gli intellettuali e i sacerdoti, erano state poste condizioni più dure delle nostre, e non potevano, fra l’altro, comunicare con noi, sacerdoti di diverse nazionalità – francesi, belgi, cecoslovacchi, italiani – in totale circa ottocento persone. La nostra baracca era divisa in quattro grandi Stuben, ed in quella del blocco 26, riservata ai sacerdoti delle varie nazioni, era stato ricavato uno spazio per una cappella, concessione motivata dalla speranza dei nazisti di ottenere un appoggio dal Vaticano in caso di armistizio con gli Alleati. In questa sorta di cappella era permesso dire una messa al giorno, compresa la domenica, ed era davvero singolare vedere vecchi monsignori, persino un vescovo francese, riuniti in questa cappella ad ascoltare la messa pur senza celebrare, perché in quegli anni non era ancora in uso la concelebrazione. In questa stessa baracca riservata a sacerdoti non polacchi fu inoltre concesso (fors’anche per rendere meno dure le condizioni di vita nel Lager ad alcuni prigionieri tedeschi di una certa importanza) che ai sacerdoti fosse riservato il Feinarbeit, il lavoro di precisione, che consisteva nel cucire e riparare i teli da tenda usati dai soldati tedeschi per ripararsi dalla pioggia; ho fatto anch’io questo lavoro, e non so se i teli cuciti da me siano mai stati usati, perché vi riuscivo molto male. Questo era il privilegio a noi concesso, assieme ad una tazza di brodo caldo, ottenuta grazie all’ingenua richiesta di Pio XII, che pensava potesse esser per noi di grande sollievo: il brodo offertoci dalle SS, comunque, era solo acqua bollita, ed eravamo, tra l’altro, costretti a bere contemporaneamente, dopo un segnale, questo brodo bollente che bruciava le labbra. Un particolare che ricordo di noi sacerdoti, mentre cucivamo i bottoni e le asole delle tende di cui ho parlato, è la conversazione: un sacerdote faceva la sentinella all’ingresso della baracca, mentre uno di noi, a turno, teneva un discorso che veniva tradotto dagli interpreti. Quando è toccato a me, un interprete traduceva in tedesco e in francese. È stata una vera palestra, una grande comunione di spirito, quasi in preludio di quello che sarebbe stato, in seguito, il Concilio Vaticano II. Ricordo ancora, con commozione, come un pastore protestante, tenendo il suo discorso mentre tutti cucivano bottoni, si fosse augurato di veder presto riunito un solo gregge sotto un solo pastore: pensate, un protestante che si augurava l’unione delle chiese, dopo i feroci conflitti dei secoli scorsi fra cattolici e protestanti, e fra i protestanti stessi. Ricordo infine la benedizione impartitaci da un padre gesuita che parlava molto bene il latino. Il latino è considerata oggi una lingua morta, ma a Dachau è stata invece vivissima, perché tra francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, cecoslovacchi, polacchi, il latino era il mezzo di comunicazione più facile. Facevamo errori madornali, ma riuscivamo ad intenderci: ad esempio, uno di noi cercava la propria coperta, e chiedeva ad un sacerdote straniero: “Habes tu meam copertam?”. Certo, non esiste la parola “coperta” in latino, però ci si intendeva. Questo padre gesuita, nel reparto dove dormivo io, faceva delle bellissime riflessioni spirituali in latino: ci esortava a non pretendere che le cose andassero sempre secondo i nostri desideri, perché nemmeno il Padreterno (“nec omnipotens Deus”) può modificare sostanzialmente le vicende umane. Per concludere vorrei rispondere alla domanda che, in quest’incontro, mi è stata posta: se sia possibile, cioè, perdonare, dopo quello che ho provato nel Lager. Mancherei di sincerità se dicessi che non è possibile perdonare, perché questo deve essere il senso più profondo del rivangare questi fatti doloroso, affinché il ricordo non costituisca motivo di vendetta o di rivalsa, magari celata sotto il nome di giustizia, ma perché, al contrario, sia principio di vita diversa. E una nuova vita è che sorga un nuovo rispetto per ogni essere umano, anche per il malvagio: un uomo, quest’ultimo, che può aver avuto problemi familiari, cattivi esempi o cattivi compagni; non un essere umano spregevole, ma soltanto un uomo caduto nel fango. E come una moneta caduta nel fango può essere ripulita perché venga restituito il suo valore, così, incontrando un uomo che ha fatto o fa del male, devo ricordare che quell’uomo è una moneta preziosa caduta nel fango, e devo cercare di ripulirla io stesso, o aiutare gli altri perché la rendano di nuovo smagliante. Solo così nasce l’umanità vera, la nuova umanità. Grazie a voi che mi avete ascoltato, e speriamo che i tempi qui rievocati restino soltanto una testimonianza storica.

Da «... per non dimenticare». Atti di due incontri a Nova Milanese, con le presentazioni di Italo Tibaldi (ex deportato del Lager di Ebensee, sottocampo del Lager di Mauthausen, autore del libro Compagni di Viaggio, Ed. Franco Angeli, 1994, vice Presidente del Comitato Internazionale di Mauthausen):  «Donne nei Lager. La scelta di testimoniare» (ottobre 1995) e «Sacerdoti nei lager» (aprile 1996), a cura di Laura Deleidi e Giuseppe Paleari, Comune di Nova Milanese, Assessorato alla Cultura e Biblioteca Civica Popolare.

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