TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Lidia Beccaria Rolfi *

* Ex deportata del Lager di Ravensbrück, coautrice con Anna Maria Buzzone del libro Le donne di Ravensbrück. Ed. Einaudi, 1978, e autrice del libro L’esile filo della memoria. Einaudi, 1996.

Il Lager di Ravensbrück ha rappresentato un esempio unico nel quadro dei campi di concentramento europei, poiché costituito essenzialmente da donne. Fu fatto costruire in breve tempo dai deportati di Sachesenhausen nel 1939, perché vi fossero internate le donne tedesche che si opponevano al nazismo o che, più in generale, tenevano un comportamento diverso dalla ideologia nazista, secondo cui il compito della donna avrebbe dovuto essere soltanto la procreazione e la cura dei figli; era auspicabile che la donna non coltivasse altri interessi fuorché questi. La sorte di coloro che non si conformavano a tali direttive era rappresentata dal campo di concentramento. Qui finirono, così, le donne che si opposero all’ideologia nazista, ma anche le testimoni di Geova, le zingare, le prostitute. Dapprima il campo fu occupato da donne tedesche e austriache, poi giunsero cecoslovacche e polacche, che contribuirono ad aumentare un serbatoio di mano d’opera da sfruttare per la produzione bellica. Noi italiane arrivammo per ultime, essendo stata l’Italia alleata fino all’ 8 settembre 1943. Quando giungemmo a Ravensbrück, questa triste città contava già 44.000 abitanti. Io, che facevo parte del primo scaglione giunto a Ravensbrück alla fine di giugno 1944, porto la matricola 44140. Partimmo in quattordici da Torino, e alle Nuove ci dissero che saremmo andate in Germania a lavorare. Ravensbrück aveva spazio per 10.000 persone e ne ospitava già 35.000, pur essendone state allontanate molte perché lavorassero nelle fabbriche o in campi più piccoli: i servizi, la cucina, i letti, fors’anche la stessa razione alimentare dovevano bastare per questo numero così accresciuto. È stato l’inferno. Nessuna di noi aveva mai sentito parlare né sapeva cosa fosse un Lager, un Lager femminile dove, fra l’altro, alle occupanti non era riservato il medesimo trattamento. Gli ordini erano impartiti in tedesco, e non avevamo gli strumenti o la possibilità di capire cosa ci venisse detto. Non avevamo notizie dall’Italia, e la maggior parte di noi ignorava la presenza, nel nostro paese, di un movimento partigiano e persino la rottura dell’alleanza con i tedeschi. Avvertivamo l’avversione delle donne russe, greche, francesi nei confronti di noi italiane perché provenienti da un paese loro nemico: e ciò rendeva ancor più difficile la nostra vita nel campo. Dal luglio del 1944 alla fine della guerra, i rastrellamenti compiuti ad est e ad ovest dell’Europa portarono a Ravensbrück una parte delle 80.000 donne fatte prigioniere; molte di queste erano incinte, e così nacquero circa ottocento bambini (in precedenza, alle donne in gravidanza veniva praticato l’aborto fino all’ottavo mese, per costringerle a lavorare). I neonati, affidati a  solo cinque infermiere, furono sistemati in camerette che giunsero a contenerne fino a cinquanta: allontanati dalla madre senza essere allattati, furono destinati a morire. In un’altra baracca vivevano i bambini. Lontano dai genitori, in tenerissima età, portavano anch’essi il triangolo distintivo del politico o dell’omosessuale; morirono tutti a Bergen-Belsen, dove non c’era nemmeno il forno crematorio e i cadaveri venivano semplicemente ammassati in una fossa. Potrei anche parlare degli esperimenti chirurgici praticati nei Lager, ma diversi libri e dossier offrono esaurienti informazioni in merito. Di Ravensbrück vorrei ricordare gli ultimi mesi, durante i quali si videro 45.000 persone stipate in un’area nata per contenerne 10.000, e specialmente l’ultimo mese – gennaio 1945 – in cui avvenne un’impietosa selezione delle donne anziane che vennero portate negli Jugendlager, spogliate del poco che avevano e condotte nella camera a gas, qualora avessero tardato a morire di morte naturale. Delle 45.000 esistenti in gennaio – febbraio del 1945, rimanemmo, in aprile, in 12.000 circa, ed il numero è andato via via scemando fino al momento dell’evacuazione, dopo il quale ci trovammo a camminare sulle strade tedesche per una decina di giorni insieme ai civili, ai soldati in ritirata, ai carri armati. Era la liberazione, ma ognuna viveva singolarmente, in quel momento di sbandamento generale, la propria liberazione e non ci siamo più incontrate. In quella terra di nessuno che era la Germania del primo dopoguerra, dove gente di tutta Europa veniva a cercare i propri concittadini, noi italiani abbiamo vissuto mesi senza avere informazioni, con la sensazione di essere abbandonati a noi stessi. Noi donne siamo poi tornate, nei diversi paesi o città d’Italia, ed è stato un difficile ritorno perché alla famiglia non si osava raccontare – perlomeno non subito – quel che avevamo vissuto; eravamo guardate con diffidenza dalla gente. Pensavano: “Quella torna dalla Germania, chissà come hanno usato le donne in Germania”. Taluna tornava persino ingrassata, perché le zappette che ci davano da mangiare dopo la liberazione – a quasi tutte noi si era interrotte il ciclo mestruale – ci gonfiavano come palloni. Così ci sentivamo dire: “Guarda come sei tornata bella grassa, non come noi che qui facevamo la fame; vi nutrivano bene in Germania!”. V’erano poi i commenti sussurrati dietro alle spalle, e lo svicolare delle amiche che ritenevano sconveniente passeggiare “con una che torna dalla Germania”: questo è stato il secondo Lager che abbiamo dovuto vivere tornando a casa, quasi dovessimo giustificarci di fronte all’opinione pubblica. Durante la guerra, però, ci consideravano utili: in montagna, quando eran necessarie delle staffette, o durante gli scioperi. Questo passato triste credo sia pesato sulle mie spalle così come è pesato su quelle di molte donne per tanti, tanti anni. Che Nova Milanese abbia voluto questo incontro è stato, per noi superstiti meraviglioso. Voglio perciò esprimere il mio ringraziamento a quanti si sono prodigati in questa iniziativa, in particolare modo al Sindaco e al Responsabile della Biblioteca.  

Da «... per non dimenticare». Atti di due incontri a Nova Milanese, con le presentazioni di Italo Tibaldi (ex deportato del Lager di Ebensee, sottocampo del Lager di Mauthausen, autore del libro Compagni di Viaggio, Ed. Franco Angeli, 1994, vice Presidente del Comitato Internazionale di Mauthausen):  «Donne nei Lager. La scelta di testimoniare» (ottobre 1995) e «Sacerdoti nei lager» (aprile 1996), a cura di Laura Deleidi e Giuseppe Paleari, Comune di Nova Milanese, Assessorato alla Cultura e Biblioteca Civica Popolare.

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