Sette del Corriere della sera

Io, il becchino di Auschwitz

Apparteneva al Sonderkommando, la squadra speciale di ebrei addetta ai forni crematori e allo smaltimento dei corpi nel maggiore centro di sterminio nazista. Le sue memorie, sotterrate nel campo di prigionia, escono ora in Italia. "Sette" ve ne presenta un estratto. In anteprima

di Salmen Gradowski 

Salmen Gradowski, nato nel 1909 - 10 nella città polacca di Suwalki, fu deportato ad Auschwitz l'8 dicembre 1942, con la sua famiglia, immediatamente uccisa nelle camere a gas. Nelle ore successive, egli venne assegnato al Sonderkommando dove rimase per ventidue mesi. Dopo la liberazione del campo, sepolti nel terreno dei forni crematori, furono recuperati tre manoscritti di Gradowski (che ora Marsilio pubblica in Italia per la prima volta), nei quali venivano raccontati i giorni della deportazione e l'esperienza di addetto ai crematori del maggior campo di sterminio nazista. I membri del Sonderkommando, selezionati tra i deportati più giovani e robusti, erano infatti incaricati di accompagnare i prigionieri alle camere a gas e, a morte sopravvenuta, di rimuovere i corpi, pulire l'ambiente e togliere alle vittime protesi e denti d'oro. Sempre loro, infine, dovevano occuparsi dello smaltimento dei corpi, seppelliti in fosse comuni o inceneriti. Tutti gli appartenenti al Sonderkommando erano destinati a essere eliminati e successivamente rimpiazzati.

«Avevamo già visto passare davanti ai nostri occhi centinaia di migliaia di giovani forti e pieni di vita, trasporti di russi, di polacchi e anche di zingari, che sapevano di andare a morire, e nessuno aveva mai tentato di ribellarsi, o di far scoppiare una rivolta, tutti erano andati come pecore al macello. In questi 16 mesi si possono citare due sole eccezioni. Nel corso di un trasporto da Bialistok un giovane uomo, intrepido e coraggioso, si era gettato contro le guardie armato di un coltello e ne aveva colpita qualcuna, prima di essere ammazzato, mentre cercava di fuggire. Il secondo caso, di fronte al quale mi inchino con profondo mistero, è quello del "trasporto da Varsavia". Era un gruppo di ebrei di Varsavia, divenuti cittadini americani, tra cui alcuni nati in America; tutti assieme dovevano essere trasferiti da un lager di internamento, in Germania, in Svizzera, dove sarebbero stati presi sotto la protezione della Croce Rossa. Ma il grande potere, altamente "civilizzato", anziché in Svizzera li aveva portati qui, nel fuoco del crematorio. È stato allora che si è verificato un atto di coraggio di un'eroica giovane donna, una ballerina di Varsavia, che ha strappato il revolver all'Oberscharführer della "Politische Abreilung" (Sezione Politica, n.d.c.) di Auschwitz, Kwakernak, e ha abbattuto il "Rapportführer", quel bandito ben noto, l'Unterscharführer Schillinger. Il suo gesto diede coraggio ad altre donne intrepide, che iniziarono a colpire, a lanciare bottiglie e altri oggetti contro questi animali selvaggi e rabbiosi, gli SS in uniforme. È stato l'unico trasporto in cui, da parte di gente che sapeva di non avere più nulla da perdere, si è tentato un atto di resistenza. Ma le centinaia di migliaia, pur consapevoli, sono andate come pecore al macello. Perciò gli attuali preparativi destano in noi tanto stupore. Abbiamo supposto che "loro" dovessero aver sentito dei rumori a proposito degli ebrei cechi, che vivevano già da 7 mesi nel lager, con le intere famiglie, e che sapevano esattamente quello che succedeva nel lager ...in tal caso non sarebbero stati una preda facile. Così, si stavano preparando con tutti i mezzi tecnici per affrontare lo scontro, nel caso questa gente avesse avuto l'"ardire" di non voler andare a morte e di opporre resistenza a questi "innocenti" criminali. Lunedì alle ore 12 del mattino, ci rimandano nel blocco per farci riposare, per poter riprendere il lavoro ritemprati. 140 uomini - quasi tutto il blocco (dopo la separazione di 200 uomini) - dovranno presentarsi all'arrivo del trasporto, poiché i due crematori 1 e 2 dovranno funzionare a pieno regime. [...] Mercoledì 8.3.'44, la notte di Purim, gli ebrei fortunati, che ancora vivevano nei loro paesi, si sono recati nella loro sinagoga, nei luoghi di studio e negli altri luoghi di preghiera per celebrare la grande festività, il simbolo nazionale ed eterno del miracolo del Purim e per manifestare l'augurio di poter assistere, al più presto, alla fine del nuovo Aman dei tempi moderni.In quella stessa ora, ad Auschwitz - Birkenau, 140 ebrei del "Sonderkommando" sono usciti in fila per recarsi in un luogo, ma non una sinagoga, né a un incontro per celebrare la festa, per onorare il grande miracolo del Purim. [...] Presto saremmo stati testimoni e avremmo dovuto assistere con i nostri occhi di ebrei alla nostra propria distruzione, vedere cinquemila esseri umani, cinquemila ebrei, cinquemila vite nel cuore, vibranti, palpitanti dal sangue ardente, donne e bambini, uomini, giovani e vecchi, esseri umani senza distinzione di età e di sessi, vederli passare sotto la verga di criminali esperti, forniti di fucili, granate e mitragliatrici, e con quella complicità del loro sempiterno accolito a quattro zampe, selvaggio e rabbioso, il cane, spinti, cacciati, percossi a morte, di modo che, storditi, frastornati, corressero alla cieca nelle braccia della morte. E noi, i loro propri fratelli, dovremmo per di più dare manforte, aiutarli a farli scendere dai camion, a condurli al bunker, aiutarli a spogliarli, nudi come alla loro nascita. E una volta che saranno pronti, aiutare a scortarli nel bunker - nella tomba - della morte. [...] Sono arrivate, le infelici vittime. I camion si sono fermati. I cuori si sono paralizzati. Sono qui, le vittime, raggelate dalla paura, impotenti, rassegnate, disilluse, e non fanno che fissare la costruzione, nella quale scompariranno, tra non molto, il loro mondo, le loro giovani vite, i loro cuori palpitanti. Non capiscono cosa voglia da loro, quella dozzina di ufficiali dalle spalline dorate e argentate, con le loro pistole scintillanti e le loro granate al fianco. E perché siano sorvegliate da soldati con tanto di casco, come se fossero delle malviventi condannate, e attraverso gli alberi e il filo spinato risplendano, al chiaro di luna, le canne dei fucili puntati su di loro. Perché tutti questi proiettori accesi? La notte è così nera? Così debole il chiarore lunare? [...]  Nella grande e profonda stanza, che ora è fortemente illuminata dalla luce elettrica, dodici pilastri sostengono il peso della costruzione. Lungo le pareti, attorno ai pilastri, le panche e i ganci al muro per i vestiti delle vittime sono pronti. Al primo pilastro è appeso un cartello che, in più lingue, avverte i nuovi arrivati che sono al "bagno" e che dovranno togliersi i vestiti per farli disinfettare. Ci troviamo con loro, e ci guardiamo, raggelati. Hanno capito tutto, hanno intuito che questi non sono dei bagni, ma che questa stanza è l'anticamera della morte. La stanza si riempie di persone. Continuano ad arrivare i camion con le nuove vittime che vengono inghiottite nella "stanza" senza sosta.  Noi siamo, tutti, come inebetiti, incapaci di spiccicare una parola. E dire che non è la prima volta. Abbiamo già ricevuto altri trasporti prima di questo, e scene simili ci sono purtroppo note. Eppure ci sentiamo inebetiti, come se, al pari di loro, le forze ci avessero abbandonati. Siamo tutti sbalorditi. Quei vecchi abiti, già da tempo consumati e logori, avvolgono corpi ancora belli e seducenti, pieni di fascino. Da tanti visi, contornati da folti capelli ricci, castani, biondi, o grigi, ma sono rari, ci osservano grandi occhi scuri, profondi, pieni di fascino. Abbiamo di fronte a noi delle giovani vite frementi, palpitanti, nel pieno della giovinezza, incantevoli come rose sbocciate in un giardino. Fresche, umide per la rugiada del mattino, che allo splendere del sole sfavillano - tali a delle perle. Non abbiamo il coraggio, non ce la facciamo a dire alle nostre care sorelle di spogliarsi. Dal momento che i vestiti che indossano sono la loro corazza, il mantello dietro al quale trovano riparo le loro vite. Quando si toglieranno il vestito e resteranno nude, perderanno l'ultima difesa, l'ultimo appiglio alla vita. Ecco perché non abbiamo la forza di dir loro di spogliarsi più in fretta. Che indugino ancora un momento, in questa corazza, in questo mantello che le lega alla vita. La prima domanda è per sapere se i loro uomini sono già arrivati. Ciascuna vuole sapere se il marito, il padre, il fratello, l'amato è ancora vivo. O se i loro corpi giacciono da qualche parte, ormai freddi, o se le fiamme li stanno già consumando e non ne resta più traccia. E se lei è rimasta sola al mondo, con l'infelice figlio, orfano. Forse ha già perduto il padre, il fratello, l'amato. A che servirebbe vivere, in questo caso, perché restare in vita? "Dimmi fratello", chiede un'altra, pensierosa, ormai rassegnata ad abbandonare la vita e il mondo, ce lo chiede senza mezzi termini e con voce ferma: "Dimmi, fratello, dura a lungo la morte? Fa soffrire? O arriva rapidamente?". Ma non vogliono che si perda tempo. I bestiali assassini intervengono ben presto. L'aria si riempie di urla dei folli banditi, che si gettano a soddisfare i loro occhi desiderosi delle nudità delle mie belle, delle mie care sorelle. Le bastonate si abbattono sulle schiene, sulle teste, e così via. I vestiti cascano in gran fretta ai piedi. Certe tra loro provano vergogna, vorrebbero scomparire, piuttosto che mostrare le loro nudità. Ma qui non c'è un angolo dove nascondersi, non posto per il pudore. La morale con l'etica se ne vanno nella tomba. Altre ci si gettano addosso, tra le nostre braccia, come se fossero ebbre d'amore, e ci supplicano, con sguardi persi, di essere noi a svestirle. Non vogliono sapere niente. Incamminandosi verso la tomba, hanno chiuso i conti con il mondo di un tempo, la sua morale, i suoi principi, le sue regole. Sull'orlo dell'abisso, fintanto che rimarranno a galla e il corpo, lui solo, continuerà a provare l'impulso di godere ancora della vita, esse non vogliono privarlo dell'ultimo desiderio, l'ultima gioia, di offrirgli quanto possono ancora strappare alla vita - e lo vogliono appagare prima della morte. Esse vogliono che quel giovane corpo palpitante di vita, sia sfiorato, sia accarezzato dalla mano di un uomo, certo estraneo, ma ormai il solo a essere loro vicino. Avranno così la sensazione che sia la mano dell'amato, del marito , a carezzare, a coccolare i loro corpi appassionati. Vogliono stordirsi in questo momento, le mie care, le mie amate sorelle.Le loro labbra ardenti si protendono verso di noi con amore, e vogliono che le si abbracci con passione, finché hanno vita.  Arrivano altri camion, altre vittime entrano nella grande stanza. Della schiera delle donne nude parecchie si lanciano incontro alle nuove venute, tra pianti e grida. Delle figlie hanno riconosciuto la madre e s'abbracciano, si stringono; commosse per essersi ritrovate. E un figlio si sente risollevato, se è con la madre, con il cuore di una madre, che va a morire. Tutte si spogliano e si uniscono alla schiera, alcune piangono, altre stanno in silenzio, inebetite. Una cerca di strapparsi i capelli dalla testa e delira. Quando mi avvicino a lei, sento solo queste parole: "Dove sei amore mio, perché non vieni qui, accanto a me, sono giovane e carina". Le donne che le stanno accanto mi dicono che è uscita di sé il giorno prima, nella baracca. Altre ci parlano con calma, dolcemente: "Ah! Siamo ancora giovani, abbiamo vissuto così poco. Abbiamo voglia di vivere". Non cercano di supplicarci, sanno e capiscono che, come loro, siamo anche noi delle vittime».

Da Sette/Corriere della sera

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