la Repubblica

Gli scheletri nell'armadio Kesselring e le stragi in Toscana

Su 15mila civili uccisi dalla Wermacht in fuga dall'Italia, 5mila furono trucidati nella regione - Tognarini: "Non rappresaglie ma una vera strategia" - "I colpevoli impuniti chi rifiutava rischiava la vita - "I tedeschi combattevano la Resistenza con i massacri. - Un errore responsabilizzare anche i partigiani  - "Una richiesta al Senato per riaprire i 695 fascicoli sui crimini di guerra della Procura generale militare di Roma"

di B. M.

La Toscana ha buona memoria perché ha molto da ricordare. I suoi ebrei deportati, i civili massacrati, le decine di stragi che nell'estate di sangue del '44 le hanno assicurato per sempre un posto di primo piano nella contabilità dell'orrore. "Stime molto approssimative parlano di 15 mila civili uccisi in tutta Italia dai tedeschi in ritirata - spiega Ivan Tognarini, docente di storia moderna all'università di Siena e direttore dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana - In Toscana sono quasi 5 mila: un terzo del totale. I motivi sono di vario tipo. La fase della guerra, innanzitutto. Nell'estate del '44, quando il fronte entra in Toscana, la Resistenza comincia a farsi sentire in maniera decisa. D'altro canto, pur essendo sufficientemente forte da preoccupare i tedeschi, non lo è abbastanza per imporre la sua strategia. È per questo che i tedeschi pensano di colpire i partigiani infierendo col terrore sui civili. In una direttiva del giugno 1944, la famosa "cambiale in bianco il comandante dell'esercito tedesco in Italia, Albert Kesselring, ordina ai suoi uomini di procedere in maniera spietata, garantendo l'impunità a chi eccede e a minacciando punizioni nei confronti dei soldati troppo morbidi". Comincia così, tra Grosseto e la Garfagnana, quella che Kesselring chiamava la "ritirata aggressiva" e che Tognarini, nel libro che ha dedicato a Kesselring e le stragi nazifasciste (uscito da Carocci nella primavera dello scorso anno), definisce "la strategia del massacro. Contrariamente a quello che si pensa - prosegue - le stragi di civili non sono casuali, ma seguono una logica precisa. Si trovano tutte, cioè, sulle vie di ritirata della Wehrmacht: la via Aurelia, la Cassia, e poi la linea gotica. La mente di questa strategia è Kesselring, cosa che molti storici tendono a dimenticare. Sia chiaro, questo non assolve nessuno, però dimenticare le responsabilità di Kesselring fa perdere di vista il quadro d'insieme, col rischio di far passare i singoli episodi per delle beghe di paese". Ricordare è un lavoro faticoso, che spesso scompiglia le carte e costringe a cambiare opinione non solo sugli altri, ma anche su noi stessi. C'è un vasto cono d'ombra che anche in Toscana accompagna la memoria delle stragi naziste: ed è lì che si è fermato Tognarini. "Nell'opinione pubblica si è depositata la convinzione che delle stragi, in quanto rappresaglie, fossero responsabili non solo i soldati tedeschi, ma anche i partigiani. È una grande mistificazione. Personalmente rifiuto il termine "rappresaglia", che considero fuorviante. In primo luogo, una rappresaglia dovrebbe colpire i responsabili dell'atto, al limite le autorità preposte al mantenimento dell'ordine, non dei civili innocenti. Ma c'è di più: in molti casi, il più noto è Sant'Anna di Stazzema, non si capisce quale sia l'azione partigiana all'origine della strage. I tedeschi non facevano rappresaglie, mettevano in atto una strategia di massacri già sperimentata in altri paesi europei". Tutto questo nel 1946 era chiarissimo. La "ridislocazione della colpa", come la chiama Tognarini, avviene più tardi. "Nel dopoguerra vengono fatti i processi ai criminali di guerra. Quello a Kesselring, in particolare, avrebbe dovuto essere la Norimberga d'Italia. Ma gli inglesi si mettono in mezzo, impongono l'ergastolo al posto della condanna a morte, finché nel 1952 Kesselring viene graziato. Per non parlare dei criminali di guerra italiani, che non vengono neppure toccati. E così che a gente comune, di fronte all'impunità dilagante, ha cominciato a confondere le responsabilità. C'è una specie di gioco a tre fra Inghilterra, Italia e Germania, per chiudere alla svelta il capitolo delle colpe, una serie di scelte che, complice la guerra fredda, hanno portato al famoso armadio della vergogna della Procura generale militare di Roma: l'armadio con le ante voltate verso il muro dove per quasi cinquant'anni sono stati nascosti i 695 fascicoli sulle stragi italiane". Poche immagini come quell'armadio illustrano altrettanto bene che tentazione sia dimenticare. "Dalla Toscana conclude Tognarini - è partita la richiesta al Senato perché venga istituita una commissione parlamentare d'inchiesta e quei fascicoli riprendano il loro corso interrotto". La Storia continua.

la Repubblica - 26 gennaio 2003


Wehrmacht - La leggenda diventa nera

Esce un libro in Germania sui crimini commessi in Italia - Cristiane Kohl ha indagato sugli eccidi di Civitella - Alcuni musicisti salvarono una ragazza

di Vanna Vannuccini

Qualche anno fa suscitò irritazione e sgomento in Germania l'esposizione sui "Crimini della Wehrmacht". Era la fine di una leggenda che aveva finito in Germania per attribuire la colpa di crimini di guerra e massacri esclusivamente alle SS, lasciando alla Wehrmacht un'aureola se non di innocenza, quanto meno di responsabilità limitata ad azioni che tutti gli eserciti possono compiere perché fanno parte della normalità della guerra. Christiane Kohl, corrispondente a Roma della Sueddeutsche Zeitung, è diventata uno dei maggiori esperti dei crimini commessi dalla Wehrmacht in Italia. È stato grazie alle sue ricerche se furono riprese le indagini sul massacro, dimenticato da tutti meno che dagli abitanti, di Sant'Anna di Stazzema. Nel libro Villa Paradiso - als der Krieg in der Toskana kam (pubblicato in Germania da Goldmann uscirà a marzo da Garzanti) Kohl racconta orala storia di "quando la guerra arrivò in Toscana". A Civitella, cittadina della Val di Chiana che era stata un tempo residenza dei vescovi aretini, e in due frazioni vicine, i soldati della divisione Hermann Goering, comandati dal capitano Heinz Kapp, trucidarono il 29 giugno del '44 duecentocinquanta tra uomini donne e bambini. Due soldati tedeschi erano entrati in un bar di Civitella, avevano sparato dei razzi forse perché i compagni sapessero dove si trovavano, ed erano stati uccisi dai partigiani. La popolazione, temendo la rappresaglia tedesca, si rifugiò nei boschi, ma il capitano Kapp aspettò il loro ritorno. Il 29 giugno, è S. Pietro e Paolo, il suo reparto arriva nel paese, entra nella chiesa, ne fa uscire i fedeli, fucila subito quarantacinque uomini poi fa irruzione nelle case e massacra tutti quelli che trova. Degli uomini se ne salveranno solo quattro. Dopo la guerra, il capitano della Feldgendarmerie, tornato a casa sua ad Amburgo, fece una brillante carriera, fino a diventare il vice capo della polizia. Negli anni Cinquanta qualcuno l'aveva accusato di aver ucciso a freddo un handicappato durante la campagna di Polonia, ma il processo si chiuse frettolosamente con una assoluzione. Probabilmente errata, dice Christiane Kohl, che ha rintracciato tra l'altro documenti che testimoniano la partecipazione di Kapp a massacri di ebrei in Ucraina, di cui lui si era sempre proclamato innocente. Persino di fronte al figlio, un sessantottino militante, che una volta gli aveva chiesto la verità. "Mai torto un capello a nessuno", era stata la risposta. Anche a Civitella invece aveva sparato di persona, uccidendo a freddo un contadino inerme. Con Kapp, Cristiane Kohl, non ha potuto parlare. L'ex capitano della Wehrmacht era morto pochi mesi prima che le sue ricerche la portassero fino al suo indirizzo di Amburgo. La giornalista ha rintracciato quasi tutti i soldati tedeschi ancora invita che avevano partecipato al massacro di Civitella, ma la sua non è una storia solo di cattivi. "È passato abbastanza tempo per poter guardare luci e ombre. Per esempio possiamo chiederci il perché di certe azioni dei partigiani quando ormai i tedeschi si stavano ritirando, e gli Alleati era vicini", In questo senso il libro s'inserisce nella tendenza, nuova per la Germania ma autorevolmente inaugurata da Gunter Grass con il suo libro L'andatura del gambero, di guardare per la prima volta alla seconda guerra mondiale da una prospettiva tedesca. Il fulcro del libro, "un romanzo di fatti", come lo definisce l'autrice, è la storia, le vicissitudini di Villa Paradiso, una confortevole dimora di campagna vicino a Civitella, come le è stata raccontata dalla figlia del padrone di casa, Flavia Castelli, che nel '44 aveva 19 anni. La storia comincia come un idillio, tra la fine della primavera e la fine dell'estate, nella bella casa in cima alla collina. Quasi uno script per un film americano. Le ragazze sono belle, i soldati tedeschi gentili, e amanti della musica e della poesia più che delle armi. Ma dopo il massacro di Civitella la villa viene occupata dal capitano Kapp e dalla sua Feldgendarmerie. Ed è la fine dei concertini in famiglia. Alcuni abitanti della villa saranno uccisi, altri torturati, i sopravvissuti trasferiti in un lager a Firenze. E questo nonostante Kapp, come ha scoperto Christiane Kohl, avesse avuto ordine dai superiori di lasciarli liberi: c'era infatti tra i prigionieri portati da Kapp nella villa una svedese, e la sua presenza preoccupava i comandi tedeschi che non volevano grane con paesi neutrali. Ma ci sono appunto anche i buoni, i pochi capaci anche di opporsi agli ordini, soprattutto se si trattava di salvare una ragazza di cui magari erano segretamente innamorati. Sono dei musicisti, facevano parte di un'orchestra che suonava Bach e Beethoven nei paesi occupati, ma verso la fine della guerra i loro strumenti erano stati rispediti a Berlino e loro arruolati nella Feldgendarmerie. Uno di loro, che Christiane Kohl ha rintracciato in Germania, un insegnante ormai in pensione, aiuterà Flavia e la madre a fuggire dal collegio delle Leopoldine di Santa Maria Novella, che i tedeschi avevano trasformato in lager.

la Repubblica - 29 gennaio 2003 


La faccia cattiva dell'Italia

Tra i capitoli rimossi del passato fascista figura la vicenda degli italiani conquistatori tra il 1940 e '43 nelle zone mediterranee - Esce ora un libro di Davide Rodogno che analizza le atrocità commesse ribaltando il mito dei nostri soldati brava gente - Un nuovo ordine voluto dal duce - Per mezzo secolo abbiamo rimosso

di Simonetta Fiori

Tra i capitoli rimossi del passato fascista, espulsi dalla memoria per ragioni disegno differente, figura a pieno titolo la vicenda degli italiani conquistatori tra il 1940 e il 1943 in alcune terre dell'Europa mediterranea. Una storia che coinvolge la Corsica e parte della Francia. La Slovenia meridionale. La parte occidentale e meridionale della Croazia. Il litorale dalmata. Il Montenegro. La Grecia continentale e molte delle sue isole. Gran parte del Kossovo. La Macedonia occidentale. Nel complesso, un'estesa e articolata "colonia", militarmente occupata da un esercito di cinquecentomila soldati, spesso spaesati, impauriti, affamati, ma non per questo meno brutali degli alleati tedeschi. Per mezzo secolo, la tragica vicenda di questi militari - e il progetto di un nuovo ordine mediterraneo inseguito da Mussolini - è rimasta come avvolta nell'ombra, al chiuso di archivi blindati. Gli studiosi tendenzialmente - con alcune eccezioni hanno preferito concentrarsi sulle vittime delle potenze dell'Asse, le popolazioni occupate, e in generale non hanno preso troppo sul serio il disegno imperiale del duce, ridimensionato dai suoi stessi esiti fallimentari. Nell'immaginario collettivo è poi prevalso il mito degli "italiani brava gente" conquistatori di calda umanità, vulgata assolutoria di cui è ancora viva traccia in opere di fiction. La stessa editoria non sempre ha incoraggiato i libri sui crimini di guerra commessi dai connazionali. "Questione troppo a lungo ignorata, oppure liquidata sbrigativamente e con un senso di malcelato fastidio", scrive sul nuovo mensile Millenovecento lo storico Mimmo Franzinelli, che rievoca le censure esercitate in Italia su film e saggi sull'argomento. Le atrocità del passato fascista spesso rimangono confinate ai margini della memoria. Anche nel corso del recente omaggio reso alle vittime delle foibe, soltanto Luciano Violante è tornato indietro alle gravi responsabilità del regime di Mussolini, colpevole nelle terre annesse di una violenta snazionalizzazione antislava. Ora un'importante ricerca di Davide Rodogno, giovane studioso del Fonds national de la recerche scientifique suisse, fa luce sul sogno imperiale del duce e, grazie a una vasta documentazione inedita raccolta negli archivi storici dello Stato maggiore dell'esercito, del Ministero degli esteri, del Comité international de la Croix-Rouge e della Banca d'Italia, aiuta a rovesciare la leggenda del buon italiano, raccontando nelle sue reali dimensioni la durezza della repressione fascista, una brutalità - come scrive Philippe Burrin nell'introduzione "molto spesso minimizzata" (Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa 1940-1943, Bollati Boringhieri, pagg. 600, euro 35,00). "Non fummo quelli del film Mediterraneo o della fiction Il mandolino del capitano Corelli", dice Rodogno. "Forse dovrei dire non fummo solo quelli. Per cinquant'anni ci e piaciuto ricordare soltanto le relazioni sentimentali, dimenticando altre questioni più complesse, dolorose, sconosciute. Vi furono anche episodi di stupri collettivi, ancora avvolti in un velo di reticenza: la documentazione a riguardo non è ancora consultabile". Nel solco tracciato dagli studi di Enzo Collotti ed Emilio Gentile, Rodogno interpreta la "conquista dello spazio vitale" pianificata dal duce come "parte essenziale di un progetto totalitario" di trasformazione della società, approdo della rivoluzione cominciata nel 1922. Il nuovo ordine imperiale immaginato dal duce viene disegnato in tre cerchi concentrici. "II nucleo, il primo cerchio, sarebbe stato quello della razza italiana dei dominatori, inclusi tutti i territori "irredenti": la Dalmazia, le isole Ionie, la Francia sudorientale. Il secondo cerchio avrebbe raccolto i popoli di razza bianca, cristiani ed europei, come la Croazia, la Grecia e una piccola parte della Francia, tutti dominati sul modello albanese. Infine il terzo cerchio era rappresentato dalle colonie africane e asiatiche". Mussolini si considerava un "liberatore", il suo obiettivo era imporre ai sottomessi la civiltà superiore. "La guerra e le occupazioni dovevano rappresentare il banco di prova per l'uomo nuovo forgiato dal fascismo. Fu un tragico fallimento". Pur non essendo "la razza" di conquistatori voluta da Mussolini, i soldati italiani non si astennero da atrocità e violenze, simili a quelle commesse dagli alleati nazisti, ma con motivazioni del tutto differenti. "Soprattutto nei Balcani, gli italiani si sentirono mandati al massacro e, quando odiarono il nemico, non fu per ragioni ideologiche ma per paura. Le loro repressioni feroci non furono caratterizzate, come nel caso dei nazisti, dalla volontà di trionfo né dal sentimento della superiorità razziale. Manifestarono al contrario tutta la debolezza di chi non aveva altra possibilità di far percepire la propria forza. Solo in alcuni casi, almeno secondo la storiografia jugoslava, le camicie nere furono mosse da motivazioni marcatamente ideologiche. Ma generalmente l'ideologia fascista ebbe un ruolo secondario".

- Rappresaglie, devastazioni, ostaggi e deportazioni - La creazione di campi in cui si commisero violenze

Un capitolo tra i più ricchi e inediti riguarda la repressione. Rodogno dimostra l'univocità delle normative imposte in tutti i territori occupati sul modello della circolare "3C", una sorta di manifesto della repressione italiana nei territori jugoslavi. "Quelle disposizioni non rappresentarono un episodio circoscritto né il frutto dell'iniziativa d'un generale più fascista di altri. Misure analoghe furono adottate in Grecia e in Albania. Le azioni concrete degli italiani non furono dissimili da quelle della Wehrmacht o delle SS tedesche. Negli ordini emanati dalle autorità fasciste contro le bande partigiane - e per spezzare l'appoggio ai ribelli delle popolazioni - figura di tutto. La presa di ostaggi. La devastazione di intere località. Le rappresaglie sulle famiglie di semplici sospetti. La deportazione di larghi nuclei delle popolazioni locali. La distruzione e il saccheggio del bestiame. E l'impunità per gli eccessi compiuti. Una violenza riservata in passato agli auctotoni africani". La ricerca fa luce anche su un terreno finora poco studiato, i campi di concentramento in cui venivano reclusi i civili, generalmente in condizioni igieniche e sanitarie assai precarie. Oscilla tra i 150.000 e i 100.000 il numero degli internati jugoslavi per mano italiana, suddivisi tra "repressivi" (sospettati cioè di attività antiitaliane) e "protettivi" (i famigliari dei collaborazionisti" da proteggere"). La gestione dei campi era suddivisa tra il ministero dell'Interno (circa 50 nell'Italia centromeridionale) e il Regio Esercito (una decina nell'Italia centrosettentrionale). Il saggio si sofferma sui campi nei territori annessi, alcuni dei quali registrarono un elevato tasso di mortalità (alto anche il numero dei bambini nati morti). Secondo una nota della Croce Rossa Internazionale (14 aprile 1943), ad Arbe, tra l'Istria e il Nord della Dalmazia, "sarebbero stati constatati tremila decessi dovuti principalmente alla cattiva alimentazione (del tutto insufficiente) e al cattivo alloggiamento". Rileva lo storico che "sulle reali condizioni del campo i vertici militari mentirono al cospetto della stessa diplomazia vaticana". Altro capitolo innovativo è quello che riguarda la politica nei confronti degli ebrei. Contrastando una pur nobile storiografia che celebra il generoso carattere italiano, Rodogno dimostra come il comportamento verso gli ebrei - a lungo esaltato come "benefattore" - fu essenzialmente dettato da ragioni di strategia politica nella contesa con l'alleato tedesco. "Da parte di Mussolini del governo, degli alti funzionari italiani e dei vertici militari non vi fu alcun tentativo di "salvataggio umanitario" degli ebrei. Essi furono pedine in una sorta di guerra interna all'Asse. In molti ritennero - come il generale Mario Roatta, comandante della II Armata - che consegnare gli ebrei ai tedeschi avrebbe danneggiato il prestigio degli italiani, con gravi ripercussioni nel rapporto con le popolazioni occupate. Da qui la scelta di internarli". A lungo è invalsa l'immagine delle truppe italiane che fecero ogni sforzo per salvare i perseguitati. "Un'immagine incoraggiata da autorevoli personalità come Léon Poliakov e Hannah Arendt, che così vollero mettere in evidenza l'orrore della soluzione finale. Ma anche dalla giovane repubblica italiana, che sfruttò il tema dell'umanità del popolo e dei soldati per allontanare dai connazionali il sospetto di antisemitismo". Se è vero dunque che migliaia di ebrei furono internati e dunque non consegnati ai tedeschi, un numero rilevante fu respinto o allontanato oltre frontiera in tutti i territori occupati. Soltanto a Fiume - stando ai dati incompleti del ministero degli Interni - in ottocento rifugiati ebrei furono espulsi o respinti oltre frontiera, consegnati nelle mani dei croati. "Le autorità italiane - a Roma, a Fiume, in Dalmazia sapevano perfettamente quale sorte sarebbe toccata agli ebrei consegnati ai croati. Erano bene informate sulle atrocità commesse a pochi chilometri dalle frontiere del regno. Furono gli stessi italiani a definire Jasenovac un campo dì concentramento talmente orribile che chi proveniva da Dachau e Buchenwald finiva per considerare i lager nazisti, rispetto a quest'ultimo "quasi luoghi di cura". Non va dimenticato, conclude Rodogno, che singoli individui, poco importa la nazionalità, in determinate circostanze furono davvero brava gente. Ma questa è un'altra storia.

la Repubblica - 24 febbraio 2003 


Ma in Italia Norimberga non c'è stata

Un nuovo saggio racconta la storia del processo istruito dagli alleati contro i comandi nazisti attivi nel nostro paese tra '43 e '45 - Il processo però non fu mai celebrato. Per la nostra classe politica c'era il rischio di veder perseguiti anche i crimini dei connazionali - Una vicenda tortuosa. Perché se da una parte prevalse una grande rimozione, dall'altra si enfatizzava la ferocia tedesca per celebrare il mito "italiani brava gente"- Tutto si risolse con un paio di dibattimenti abbaglianti e un pulviscolo di piccoli processi locali: così vennero insabbiate le responsabilità delle nostre truppe

di Adriano Sofri

Nella Scuola Normale pisana c'era un corridoietto cieco accanto al seminario di storia, occupato da scaffali, riempiti da grossi tomi scuri. Generazioni di apprendisti storici passavano - toccò anche a me, qualche anno dopo sarebbe toccato a Michele Battini - ma quasi mai uno di quei tomi veniva estratto dal suo greve letargo. Erano gli atti del Processo di Norimberga. Si diceva che ne avesse voluto l'acquisto Delio Cantimori, pensando che prima o poi qualcuno avrebbe avuto il coraggio di studiarli. Sono passati quarant'anni, e mi chiedo se sia successo. Michele Battini invece pubblica oggi un libro sulla mancata Norimberga italiana (Peccati di memoria, Laterza, pagg. 190, euro 15,00). È la storia di un maxiprocesso - così lo chiameremmo ora - istruito dopo la Liberazione dagli Alleati, sul modello giuridico di Norimberga, contro l'operato dell'intero comando militare nazista in Italia fra il 1943 e il 1945. È, più esattamente, la storia delle ragioni per cui non fu celebrato. Dunque è la storia tortuosa di una grande rimozione, quella dei crimini di guerra metodicamente perpetrati dai militari tedeschi in Italia, presto finita in un mucchio di fascicoli chiusi a chiave in un armadio della Procura militare romana, con un italianissimo gesto finale: l'armadio addossato al muro dalla parte delle ante, e lì rimasto, fino a poco fa. Storia tortuosa: perché la stessa Italia che rivoltava l'armadio degli scheletri del nazismo usava la ferocia tedesca come uno specchio truccato che le rimandasse l'immagine indulgente dell'italiano brava gente. Si barattava la riduzione striminzita della Norimberga italiana a un paio di processi abbaglianti e a un pulviscolo di piccoli processi locali, con la rimozione dei crimini commessi da truppe italiane. Argomenti lasciati per decenni a pochi appassionati specialisti, quasi fissazioni personali - così Del Boca per l'Africa - solo da pochi anni riscavati e divulgati, spesso con documenti filmati di impressionante evidenza. La situazione del mondo di oggi, fra resistenze di sovranità statali e sfide terroristiche planetarie e guerre unilaterali e Tribunale penale internazionale - da pochi giorni finalmente in vigore - fanno delle Norimberga attuate e mancate un riferimento urgente e irrisolto. Ne parlo con Battini, che oltre che lo storico fa il volontario nel mio carcere: e chissà che nesso trova fra i due impieghi. Battini: "Ho cominciato studiando le rappresaglie sui civili e le stragi fra il '43 e il '45. È l'oggetto del libro che pubblicai con Paolo Pezzino, Guerra ai civili, la politica del massacro sotto l'occupazione tedesca in Toscana. Per l'Italia occupata, la documentazione essenziale sta nelle inchieste dell'Onu sui crimini di guerra in Italia, affidate alla Sezione speciale investigativa britannica. Il governo italiano partecipava delle indagini grazie allo status, successivo all'8 settembre, di paese cobelligerante. Posizione assai ambigua, naturalmente. L'Italia era anche un paese nemico fino al '43, e in quella veste imputata nei Balcani, in Grecia ecc".

Che atteggiamento ebbe Il governo italiano? E come si insabbia l'idea del grande processo unificato al responsabili nazisti?

"C'è subito uno scontro sulla consegna dei sospetti criminali di guerra italiani agli alleati. Grecia e Jugoslavia avevano richiesto la consegna di 1.500 persone circa. La diplomazia italiana si adoperò per evitarla. A loro volta gli inglesi si preoccuparono precocemente per lo stato dell'opinione pubblica italiana. Che divenne per loro allarmante nella primavera del '46, dopo le elezioni amministrative, e in attesa delle politiche e del referendum istituzionale. Fra la fine del '46 e il '47 ha già prevalso sia fra gli alleati che nel governo italiano la scelta di celebrare pochi processi spezzettati, da tribunali alleati prima e poi italiani. In periferia le procure raccoglievano la documentazione sui crimini di militari tedeschi, e la Procura romana imboscava. Nel famigerato armadio, rimesso alla luce dal procuratore Intellisano e studiato da Lutz Klinkhammer e Filippo Focardi, erano sepolti almeno 600 episodi criminali!".
Tu documenti come, pur nella dimensione incomparabilmente minore, la macchina della rappresaglia e degli stermini di civili in Italia la stessa metodicità che nell'Europa orientale.

"Sì, e infatti non si trattò solo dell'attività delle polizie e delle forze speciali, ma dell'intera Wehrmacht. Gli stessi ordini terroristici contro i civili emanati da Keitel su impulso personale di Hitler nel 1942, e riferiti all'Europa orientale, vengono ristrasmessi al fronte mediterraneo e all'Italia dopo il "voltafaccia italiano". "Tra il giugno e l'ottobre del '44, in particolare, fra il Lazio e la Linea Gotica si intensificarono, oltre alla guerriglia partigiana, anche gli episodi di disobbedienza civile, contro ordini di sgombero di abitati o di strade: repressi indiscriminatamente come resistenza militare. La natura politica e ordinaria di questa repressione richiedeva una risposta giudiziaria unificata: essa avrebbe riguardato una cinquantina di alti ufficiali, a cominciare dal Comando supremo di SS ed esercito. "Ci sono le prove dell'intenzione iniziale di arrivare al "grande processo", e del vincolo con Norimberga. A Norimberga, oltre al processo ai gerarchi nazisti, se ne celebrarono altri 12 suddivisi per categorie sociali - banchieri, industriali, o, a volerli chiamare categoria sociale, aguzzini...Si decise di trasferire in Italia parte dell'apparato tecnico, traduttori ecc. Da Norimberga dipendeva anche il quadro giuridico, oltre che dal diritto militare tradizionale. A Norimberga si misero sotto accusa (con una forzatura retroattiva) la cospirazione contro la pace e i crimini di guerra, ma anche i crimini contro l'umanità: benché li si lasciasse sullo sfondo. Nei processi britannici contro i tedeschi in Italia le novità di Norimberga furono largamente inapplicate. "C'erano anche forti divergenze fra i diversi codici nazionali. Per il codice tedesco la fucilazione degli ostaggi era legale. Il diritto internazionale (L'Aia 1899 e 1907, Ginevra 1928) era a sua volta lacunoso e fonte di contraddizioni imbarazzanti. Per esempio, dichiarava illegale la rappresaglia ma anche la guerra partigiana: però la guerra partigiana era stata fomentata e sostenuta dagli alleati. Per complicare le cose arriva presto la preoccupazione - per inglesi e francesi soprattutto - di non contagiare con la legittimazione delle guerre partigiane e i movimenti di liberazione anticoloniale che presentano il conto della guerra".

L'ambiguità era nelle cose, anche a Norimberga: dove i sovietici erano fra i giudici, e potevano pretendere l'impuinità per i propri crimini, o addirittura di addebitarli ad altri, come per l'eccidio di Katyn. Questa, che a Norimberga (e poi anche in Giappone) fu una contraddizione morale e giuridica difficilmente evitabile, ma gravissima, si trasformò poi per mezzo secolo, fino al crollo sovietico, nell'impossibilità di un diritto internazionale. Se a Norimberga (e a Tokio) i crimini contro l'umanità restarono sullo sfondo rispetto ai tradizionali crimini di guerra e soprattutto all'attentato alla pace - comprensibilmente, anche: l'aspirazione più urgente era a costruire condizioni che sventassero la premeditazione di guerre - lungo il dopoguerra restarono al margini di una politica mondiale regolata dalla guerra fredda. Il primato dei crimini contro l'umanità (e il suo seguito, la delega di poteri delle sovranità statali, il diritto e il dovere dell'ingerenza, il tribunale internazionale) è un frutto della decadenza dell'imperialismo sovietico e della tendenziale unificazione del mondo. Anzi, al feticcio della sovranità nazionale era stato devoto (e lo è ancora) proprio quel comunismo degradato che si era sognato internazionalista e aveva poi cancellato negli Stati satelliti del suo Patto militare ogni autonomia e indipendenza. Il superamento della contraddizione di Norimberga è diventato possibile solo dopo l'89 e con la cosiddetta globalizzazione: ma ancora embrionale e osteggiato. Com'è evidente nell'atteggiamento degli Stati Uniti, che hanno voluto i Tribunali ad hoc e si tengono fuori dal Tribunale Penale Internazionale. Oltretutto, a parte la sua giurisdizione effettiva, che deve fare i conti con rapporti di forza - giudicare i governanti cinesi non è affare imminente - il TPI ha bisogno di una più limpida e definita legislazione, e soprattutto di una effettiva polizia internazionale. La polizia internazionale è l'unica alternativa pensabile alla guerra, e alla sua versione unilaterale, al gendarme mondiale. Qui è naufragata la Società delle Nazioni, e si è trascinata invalidamente l'Onu. Oltretutto, i processi diventano riti fondanti per le comunità che escono da una guerra.

"Infatti Kesselring fu processato a Venezia, per le Fosse Ardeatine e la repressione sistematica contro i civili. Ancora per le Ardeatine furono processati a Roma due alti ufficiali, Mackensen e Maeltzer. Furono eventi importanti, specialmente il primo. Fra il '45 e il '47 si resta sorpresi di scoprire come difficile alla nuova Italia di trovare occasioni di unità, di celebrazione, di identificazione nazionale, 25 aprile compreso. Nel '47 attorno al "mostro" Kesselring l'identità comune disertata si ricostruisce attorno all'idea, e poi al rito, della sofferenza degli italiani. È lei, la nazione sofferente, a offrire il denominatore comune. E la polarizzazione fra il feroce tedesco e l'italiano brava gente: togliendo spazio al riconoscimento della ferocia italiana dove c'era stata. L'uso vasto dei gas, l'iprite contro l'esercito in fuga, in Etiopia nel 1935, che Montanelli volle a torto negare contro Del Boca, è ammesso solo da pochi anni. E la Slovenia, la Grecia. Si sono trovate e pubblicate in questi anni le lettere di tanti soldati italiani che raccontavano la strategia della tabula rasa e dei massacri. Su Kessebing, poi fra gli alleati si moltiplicarono i riconoscimenti del vaIor militare e gli inglesi in particolare si batterono per strapparlo alla condanna capitale".

Questo è interessante: sono i conservatori a opporsi alla condanna a morte di Kesselring, mentre la sinistra - sia detto all'ingrosso - è per il rigore. Un connotato decisivo dei Tribunali internazionali dì oggi, quelli ad hoc - ex Jugoslavia, Ruanda, adesso Cambogia - e quello Penale generale, che per statuto escludono la pena di morte. C'è un paradosso. La Norimberga italiana avrebbe consacrato la rimozione delle responsabilità Italiane attraverso la proiezione sulla Germania, e tuttavia avrebbe trascinato nella propria scia l'incriminazione di italiani. La rinuncia la sventò senza impedire la demonizzazione dei tedeschi - "denominazione abbastanza da non aver bisogno del maxiprocesso per fare da contraltare all'autoindulgenza italiana.

"Naturalmente pesò l'intenzione di molte correnti antifasciste di presentare il fascismo come l'oppressione di una minoranza sulla larga maggioranza degli italiani. Il fascismo è colpevole, l'Italia innocente. Fa impressione l'ordine del giorno Bonomi nella prima adunanza del 1944, che descrive l'ingresso in guerra nel 1940 come una sopraffazione sulla gran maggioranza del paese. "Quella grande maggioranza del paese che già nel 1940 era schierata contro la dominazione fascista e contraria all'ingresso in guerra dell'Italia accanto alla Germania hitleriana". Una storiella consolante, ma del tutto falsa".

A parte Bonomi, la contraddizione travolge anche una buona parte della sinistra, divisa fra un impegno di epurazione dello Stato e il desiderio di restituire una verginità alla storia nazionale.

"Si costruisce una memoria selettiva e parziale, che anestetizza sia l'adesione larga al fascismo, sia la dimensione della collaborazione con l'occupazione tedesca. C'è una peculiarità italiana, ma anche una affinità con la Francia di Vichy. Là nei processi degli anni '50 domina l'intenzione di trattare gli episodi più criminali di collaborazionismo come "eccezioni". Solo dagli anni '80 la natura volontaria del regime di Vichy, l'elezione legale del governo di Pétain nel 1940, la compromissione nella deportazione degli ebrei anche francesi ecc., vengono al centro dell'attenzione, e dei processi, Papon e Touvier, Barbie".

Mi ha colpito la nota di Benedetto Croce dell'ottobre 1945, che tu ripubblichi, in cui pure si proponeva di raccogliere le prove delle stragi e distruzioni compiute dagli occupanti tedeschi du-rante la guerra. Sarebbe servito, scriveva Croce, a "mettere sotto gli occhi del mondo con quanti dolori atroci, con quanti danni spaventosi e irreparabili, l'Italia abbia pagato la pena della stoltezza fascista, alla quale soggiacque", e a "fornire al popolo tedesco, che ha in gran parte ignorato la qualità e l'estensione di quegli orrori, uno specchio in cui guardarsi (e in cui guarderemo tutti noi, inorridendo delle forze paurose che si agitavano nel fondo dell'uomo; il che forse aiuterà quel popolo alla conversione che spontaneamente deve compiere di se stesso al liberarsi da istinti e da concetti perniciosi a sé e al mondo…" È impressionante, perché l'Italia sta da una parte e il fascismo dall'altra, anzi - poiché la prosa crociana prende una singolare risonanza sessuale - l'Italia sta sotto il fascismo, gli soggiace, come la vittima femminile di uno stupro. Immagine completata nel rapporto fra quell'Italia soggiaciuta e il "popolo tedesco" che potrà guardarsi nello specchio dei propri orrori, e nello stesso specchio offrirà agli altri l'occasione per inorridire dei tedeschi e assolvere sé, risparmiarsi la conversione. Ciò che è in effetti avvenuto largamente nel dopoguerra. In generale, il problema riguarda tutti i dopoguerra, che si tratti di guerre fra Stati e a maggior ragione di guerre civili. Riguarda drammaticamente la Serbia. Riguarderà ora l'Iraq. Si oscilla fra punizione e riconciliazione, fra panni lavati in famiglia e giudizio del mondo: il difficile è trovare un equilibrio. Per questo l'esempio sudafrica è diventato un modello ormai quasi mitizzato. Il caso più enorme di "processo mancato" è l'Urss.

"Nell'Italia del dopoguerra la conciliazione prese la forma togliattiana e un po’ oltraggiosa dell'amnistia (spinta a escludere solo "le sevizie particolarmente efferate"!). Si arginò la spinta all'epurazione in nome di un'appartenenza comune, il recupero del “lungo viaggio” attraverso il fascismo, l'arginamento del qualunquismo, la fusione "risorgimentale" fra tradizione sabaudo-militare e lotta partigiana. Socialisti e azionisti, più intransigenti rispetto all'epurazione, furono anche più legati alla rivendicazione della giurisdizione e a un patriottismo italiano rispetto ai confini orientali, dove anche partigiani azionisti e liberalsocialisti (e bianchi e monarchici) erano state vittime di partigiani stalinisti e di infoibamenti titini. Ne risultò una prevalenza della continuità statale fra regime fascista e repubblica, il primato del Pci come partito di massa, e la sua esclusione dal governo. Un groviglio di contraddizioni che si è ripetuto in altre forme anche nell'Europa del "dopo guerra fredda". Quando nel 1991 il Parlamento cecoslovacco votò una vasta messa al bando di categorie statali compromesse col regime - polizie, giornali e media, propaganda ecc. Havel rifiutò di firmarlo, affrontando l'accusa di mutare la rivoluzione di velluto in una morbidezza compromissoria. Havel ha avuto d'occhio la questione di fondo: la coesione di una società che esca da un'esperienza totalelitaria. In Ungheria prevalse il versante della punizione giudiziaria. In Polonia un'altalena mai risolta, fra lo spirito di conciliazione e prevalente in politici e intellettuali come Mazowiecki o Michnik, e il ricorso alla guerra dei dossier: per non dire della questione dell'antisemitismo, esplosa più di mezzo secolo dopo nel caso di Jedwabne di cui hai scritto".

C'è un'idea che mi turba. I processi arrivano per definizione dopo il fatto. Arrivano a sanzionare, a punire, quando il guaio è fatto. Sono anatomia patologica. Noi abbiamo l'ideale della prevenzione, della medicina preventiva, di ciò che preveda e sventi il guaio. Ora d'un tratto la prevenzione ci si presenta come una scelta strategica, ma con i caratteri della giustizia post factum. La punizione preventiva, per così dire. (So che preventivo non è la traduzione esatta per preemptive, ma c'intendiamo). La guerra preventiva è una pessima idea, ed è sbagliata anche quando resti solo una formula verbale. Anche la parola pace, che è il più bel saluto che abbiamo saputo inventare, può logorarsi a furia di essere recitata come uno slogan. Bisognerebbe lavorare sulla Pace Preventiva, e farne una strategia. The Preemptive Peace. Speriamo.

la Repubblica - 30 marzo 2003 


Veronica Lario, una lettera per Marzabotto

Il nonno della moglie del premier fu ucciso dai nazisti. Un superstite: ne parli con Berlusconi e lui ne parli ai colleghi di partito - La notizia della missiva all'indomani della polemica di Bondi (Forza Italia)

di M. S.

BOLOGNA - Forza Italia cerca di ribaltare sui partigiani la responsabilità della strage nazista di Marzabotto, ma proprio ad Arcore c'è qualcuno che considera sacra la memoria di quei luoghi: Veronica Lario, consorte del premier Silvio Berlusconi. Il nonno di Veronica, che all'anagrafe si chiama Miriam Bartolini, fu fucilato dai tedeschi a Vizzano, tra Sasso Marconi e i colli di Marzabotto, assieme ad altri sei civili, nell'autunno del 1944, appena venti giorni prima del più feroce eccidio di civili compito dai nazisti in Italia. "La signora Lario mi ha scritto una bellissima lettera", rivela Dante Cruicchi, presidente del Comitato per le onoranze ai caduti di Marzabotto, "di lei ho grande stima e rispetto, da tempo siamo in ottimi rapporti, la teniamo costantemente informata di tutte le nostre iniziative, e spero che prima o poi venga a trovarci". Del contenuto della lettera, ricevuta alcuni mesi fa, quindi prima delle recentissime polemiche, Cruicchi per discrezione non riferisce le parole esatte. Ma di recente è stata la stessa Veronica Lario a parlare in modo intenso e commosso della tragedia di suo nonno, in un passaggio della lunga intervista concessa al mensile Micromega sui temi della guerra e della pace. "Sono cresciuta ascoltando racconti di guerra e ricordi strazianti", ha raccontato rievocando le dolorose vicende dì quell'8 settembre del 1944. "Il nonno fu ucciso per rappresaglia. C'era stato un combattimento in cui morirono dei tedeschi e poi ci fu il rastrellamento". Raffaele Bartolini, classe 1907, viveva con la famiglia vicino a Monzuno, sulle colline del bolognese. "Mia madre si vede ancora oggi, bambina di undici anni, uscire dall'aia dove i tedeschi stanno caricando sui camion pollame, cavalli, buoi, maiali; si vede correre dietro il camion che sta portando via suo padre, insieme ad altri rastrellati dai tedeschi. Corre per lasciargli un fagottino con dentro un pezzo di pane e formaggio, pensando: "Papà avrà fame e avrà bisogno di mangiare". Convinta che sarebbe tornato di lì a poco, lo aspetta invano. I tedeschi appena fuori dal paese lo uccideranno". "Spero che la signora Lario abbia raccontato le stesse cose a suo marito", commenta da Marzabotto Franco Lanzarini, uno dei superstiti della strage, "e che Berlusconi ne parli a sua volta ai suoi compagni di partito". Brucia, nel paese martire, la polemica innescata dal portavoce di Forza ltalia Sandro Bondi, per il quale fu la condotta dei partigiani a scatenare la reazione dei nazisti, che alla fine del '44 sterminarono centinaia di civili innocenti, donne e bambini, nelle valli tra il Reno e il Setta. "È un tentativo di negare la storia", scatta Cruicchi. "Se poi a Bondi per conoscere la verità storica non bastano i libri e i documenti pubblicati in questi anni, si rilegga almeno le parole di papa Giovanni Paolo II su coloro che "offrirono la vita per la causa giusta, la causa della dignità dell'uomo, affrontando la morte da vittime inermi offerte in olocausto".

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"Mia madre fece da scudo e mi salvò dalle mitragliate"

Mario Marsili riceverà oggi da Ciampi una medaglia d'oro alla memoria della mamma - Il racconto d'un superstite dell'eccidio di Stazzema - Genny Bibolotti fu una delle vittime di Sant'Anna di Stazzema vicino a Lucca "Avevo sei anni, mi nascosi nella stalla"

PIETRASANTA - Le rughe della sua faccia, dietro il banco del negozio di giornali, nella piazza di Pietrasanta, dicono che è passato davvero tanto tempo da quel giorno in cui Mario Marsili era soltanto un bambino di sei anni. Svegliato all'alba dagli scarponi e dalle voci dei soldati tedeschi. Un impaurito bambino in braccio alla mamma mentre i nazisti urlavano, mitra alla mano, a loro due e ai nonni che dormivano nella stessa stanza, di scendere in fretta, giù per la strada e di raggiunge e gli altri del paese, ammassati nella stalla. Sant'Anna di Stazzema è un paese arroccato sopra le montagne dell'Alta Versilia, provincia di Lucca. Erano sfollati in molti nell'estate del 1944, in quel borgo povero e isolato che proprio per questo pareva sicuro. "Quante volte ho ripensato a quella mattina, lei non può nemmeno immaginarlo - racconta oggi Marsili che ha 65 anni, sposato, due figli e un nipotino di sette -. Quante volte ho rivisto la mamma che mi prendeva in braccio sollevandomi dal letto, mi stringeva forte mentre scendevamo di corsa le scale, entravamo nella stalla e mi diceva: mettiti li dietro". Dietro la porta, nascosto fra due lastre di roccia. Accovacciato in mezzo. Facendosi piccolo piccolo, per salvarsi. L'unico fra i quindici finiti là dentro a poter raccontare qualcosa. Sant'Anna di Stazzema, l'alba tragica del 12 agosto 1944: in 560 (ma neppure sui numerici sono ancora certezze) vengono trucidati dalle squadre delle Ss tedesche. Una pagina terribile e ancora piena di ombre, un eccidio contro la popolazione civile: a morire sono soprattutto donne, vecchi e bambini. L'uomo che sta dietro il banco dei giornali, fra gli scaffali della cartolibreria di Pietrasanta, oggi sarà al Quirinale per ricevere dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la medaglia d'oro alla memoria assegnata a sua madre, Genny Bibolotti Marsili, la donna che quella mattina del 12 agosto, scagliò il suo zoccolo contro un soldato tedesco che si stava avvicinando. "Aveva paura che scoprisse che io ero lì dietro a porta" racconta il figlio. In risposta a quello zoccolo lanciato e andato a segno, una mitragliata dritta al petto: Genny muore all'istante. Mario, il figlio, è a pochi metri, ma sta zitto, come le aveva raccomandato lei. È ferito perché alla stalla hanno già appiccato il fuoco, ma si salverà da quel lunghissimo giorno di sangue. L'ha raccontata mille volte Marsili quell'alba, senza mai riuscire ad essere padrone della voce che all'improvviso si abbassa e trema: "Ero terrorizzato. Nella stalla i tedeschi avevano buttato sul fondo la gente, c'erano anche due bambini più piccoli di me. Poi col lanciafiamme avevano appiccato il fuoco alla paglia. Tutti gridavano disperati, si agitavano cercavano inutilmente un riparo". Il fotogramma di quegli istanti è nitido, inciso nei ricordi: "È successo tutto in fretta: il soldato tedesco si stava avvicinando, rivedo mia madre che si toglie lo zoccolo, allora era estate e in montagna portavamo gli zoccoli, lo lancia contro di lui, lo colpisce". Una pausa, si ferma. Riprende: "Pertanto ho creduto di risentire la raffica della mitraglietta, la mamma che cade a terra, soffocata dal sangue, i tedeschi che si allontanavano con quelle voci secche, altri colpi di mitraglia". Mario resta ustionato al petto e a un braccio, guai che si porterà appresso per il resto dei giorni. "Ho passato un anno e mezzo in cura negli ospedali: ho addosso i segni delle ustioni, non vanno via, come non se n'è mai andato via quel senso di mancanza, quella sottrazione improvvisa dell'affetto di mia madre. Ero solo, mio padre era prigioniero in Russia, non avevo fratelli. Così sono andato ad abitare da una sorella di mia madre, la zia Lola che è ancora in vita. Quando è tornato mio padre, dopo un pò di anni si è risposato e io ho capito che bisognava in qualche modo andare avanti". Però negli anni è rimasto qualcosa in sospeso, un desiderio più volte espresso: "Volevo che sul gesto eroico di mia madre che si è fatta uccidere per salvarmi la vita - prosegue oggi Mario Marsili - ci fosse almeno una medaglia, un riconoscimento". Arriva, quasi sessant'anni dopo, ma arriva. "Va bene lo stesso. Avrei un altro desiderio, non vedere più guerre, nè bambini straziati dalle bombe. Invece accendo la televisione e mi sembra dì sentire ancora le grida della stalla a Stazzema".

la Repubblica - 25 aprile 2003


Stragi nazifasciste parte l'indagine

ROMA - Con il sì della Camera è stata istituita una nuova commissione parlamentare, che indagherà sulle archiviazioni dei fascicoli riguardanti crimini nazifascisti che costarono la vita a circa 15 mila persone. Nel '94 furono rinvenuti nella sede romana degli uffici giudiziari militari 695 fascicoli relativi a stragi del periodo '43 - '45. I fascicoli - chiusi in un armadio con le ante contro il muro e definito "armadio della vergogna" - si riferivano a stragi come quelle delle Fosse Ardeatine, di Sant'Anna di Stazzema e di Marzabotto.
la Repubblica - 9 maggio 2003


Negli occhi la strage dei nazisti

Toscani ha fotografato i superstiti dell'eccidio di Stazzema del '44; a quel tempo erano bambini - I ritratti in bianco e nero dei vecchi riflettono il ricordo della strage del 1944 - Quel giorno furono trucidati 560 civili, ma per lo scempio delle Ss nessuno ha mai pagato

di Michele Smargiassi

Quegli occhi hanno visto. E adesso anche noi, guardando dentro quegli occhi, vediamo.La magia transitiva dello sguardo umano scavalca la storia e annulla il tempo. Vediamo tutto l'orrore di quel giorno, il 12 agosto del 1944, come se non fossero passati ormai sessant'anni dal macello. Lo sguardo di un bambino vede tutto, annota tutto, tragedie e dettagli: «Uccisero le pecore, il babbo, la maestra Carpini ...». Quella mattina all'alba, nella piazzetta di Sant'Anna di Stazzema, gli occhi dei bambini erano spalancati, nel tentativo di comprendere l'inconcepibile, cercando disperatamente un motivo per non piangere. I tedeschi montavano dei treppiedi: sarebbero serviti per le mitragliatrici, ma Enio Mancini, sei anni, volle credere alle parole ingenue o forse pietose di una vecchia del paese: «State tranquilli bambini, vogliono solo farci la fotografia». Neanche Susan Sontag, nei suoi saggi su guerra e fotografia, ha trovato un modo migliore per spiegare quanto si somiglino i riti dell'una e dell'altra. Forse anche per riscattare la fotografia dalle sue imbarazzanti parentele con la violenza Oliviero Toscani è salito a Sant'Anna, qualche mese fa, con un progetto in testa, chiaro come forse nessun altro nella sua carriera di immaginatore, comunicatore, provocatore visuale. «Ho cercato gli occhi dei bambini». Quelli che erano bambini allora, quelli che sopravvissero al mostruoso eccidio di Stazzema, 560 trucidati, tutti civili, tutti innocenti, tutti ancora senza giustizia perché, per quella strage, nessuno ha mai pagato. Ne ha trovati trentanove. Trentanove ritratti per trentanove racconti, raccolti in un libro, impaginati con severità in un'alternanza drammatica di pagine rosse e nere, introdotti in punta di piedi dallo scrittore Antonio Tabucchi. Trentanove bimbi che ora sono vecchi, ma non conta: in queste pagine hanno l'età di allora, dai 3 mesi ai vent'anni, e non conta nulla se si vedono le rughe, nei ritratti in primissimo piano; nitide, profonde rughe ancor più scavate da un bianco e nero intenso, che diventa catramoso sulla carta volutamente non patinata ai colori con cui ha giocato per anni quando lavorava per Benetton. Il bianco e nero è il colore del ricordo, del sogno e della storia, tre dimensioni che in queste pagine, così come nella mente di un bambino, non è possibile districare. Pazienza se a rimetterci, a volte, è l'esattezza documentaria. i bambini vecchi a volte si contraddicono: «Usarono i lanciafiamme», «No, i fiammiferi», «Avevano il volto mascherato», «Li ho visti in faccia». Anzi, meglio così: questo non è un libro di storia, è un libro su come si vive la storia, sulla realtà che si sfaccetta nel prisma dei ri cordi individuali. Anche se, a differenza dei «Rashomori» di Kurosawa, qui la verità non è indecidibile; è invece terribilmente, irrevocabilmente chiara: nessuno storico revisionista potrà mai negare «l'angosciosa irreversibilità dei fatti», come la definì nel cinquantennale il poeta Mario Luzi. Si tratta piuttosto di capire come maneggiare la memoria, facoltà umana tanto indispensabile quanto delicata. «Non so se qualcuno troverà troppo invadenti questi ritratti, troppo cariche di emozione queste immagini», ragiona il sindaco di Stazzema Gian Piero Lorenzoni, «io credo che abbiamo bisogno di questa provocazione di Toscani, cioè di rinnovare la memoria cercandola oltre le parole». Non che Toscani abbia svalutato le parole, anzi: i suoi bambini parlano, alcuni pocoo per niente, ma altri tanto, tantissimo. Raccontano le loro esistenze spezzate troppo presto: «Ogni giorno andavo là dove avevo perso la mamma, l'andavo sempre a cercare» (Adele Pardini, 4 anni). Raccontano ciò che ricordano troppo, ma anche ciò che non possono ricordare perché erano piccoli, ma che hanno imparato a ricordare di riflesso, immersi da sempre nelle narrazioni della comunità, nel racconto corale mille volte ripetuto, «perché in paese, sempre, non si faceva che parlare di questi fatti, quasi quasi mi sembra di averli vissuti in maniera diretta» (Ennio Bazzicchi, 3 anni). «Le cose le so perché me le hanno raccontate gli altri, ho il rammarico di non poter ricordare» (Liliana Mancini, 2 anni). In questi sessant'anni la memoria di Stazzema é diventata un'epica, un unico racconto dell'Omero collettivo, ormai fissato nei suoi canoni, divenuto nel tempo un meta orrore, una pedagogia dell'orrore, un patrimonio di tutti, da raccontare ai visitatori o alle scolaresche in gita. Narrare è un gesto di autodifesa, raccontare il passato significa tenerlo a distanza, ma quello di Stazzema è un passato che fa fatica a passare. Le parole, anche quelle familiari e maneggevoli del dialetto, non riescono a domarlo, sono penosamente insufficienti a isolare l'orrore in una condanna: «Un lo dovevino fa', un istà bene», «La cattiveria è sempre una cosa cattiva». Le parole non curano la grande ferita, neppure odiare l'odio serve a nulla: «L'odio no! No! L'odio porterà altro odio!». Alla fine, i bambini vecchi restano muti, svuotati: «Basta», «Basta adesso», così s'interrompe bruscamente più d'un racconto. Ma è qui, allora, quando terminano le parole, che le fotografie continuano. Toscani ha scattato da vicino, da vicinissimo, «Sono andato a cercarli» spiega, «fin dentro le loro rughe».
Niente sfondo, pagina invasa e letteralmente riempita dai volti, spesso solo dagli occhi, l'unico particolare sempre perfettamente a fuoco. Gli occhi, specchio dell'anima, sono uno specchio nero quando l'anima è scura. Le pupille, in questi ritratti, riflettono sempre qualcosa, il profilo d'un albero, il crinale d'un monte, forme confuse che potrebbero anche essere qualcosa d'altro, fiamme, cataste di corpi bruciati, immagini indelebili, che urlano ancora d'angoscia: «L'ho sempre in mente, sempre! Sempre! Sempre!» (Licia Pardini, 12 anni). Immagini che ha cancellato, ma l'inconscio no: «Mi sognavo proprio questo ammasso di cadaveri, che quello gli mancava la gamba, quello era carbonizzato...» (Massimo Mancini, 9 anni). Immagini allucinate: «In cima al mucchio una gamba aveva una calza nera e mio padre mi disse: vedi questo? E' il nostro parroco» (Aldo Ulivi, 6 anni). Immagini così concrete che si possono toccare, annusare: «L'odore della carne bruciata, questa ancora oggi mi sta perseguitando ancora» (Enio Mancini, 6 anni).
Se la fotografia è «la presenza di un'assenza», queste sono fotografie al quadrato. Le immagini che nessuno quel giorno scattò, Toscani le ha trovate oggi, pescandole nel pozzo di quegli sguardi, «Mi parlavano mentre li fotografavo», dice Toscani, «e i loro occhi raccontavano più delle loro parole». Occhi lucidi, le lacrime sul ciglio, pronte a traboccare. «Troppe cose, basta così», ma il fotografo è stato pronto sul pulsante, nell'attimo decisivo prima che gli occhi, come la bocca, come il cuore, tornassero a chiudersi.

la Repubblica - 11 luglio 2003


"Pronta la commissione sulle stragi nazifasciste"

Il presidente della Camera Casini a Sant'Anna di Stazzema - Il sindaco alla cerimonia per ricordare la Liberazione di Firenze

ROMA - È scattato il conto alla rovescia, la commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi nazifasciste è ormai ai nastri di partenza. Lo ha annunciato il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, a Sant'Anna di Stazzema, il paese della Versilia dove la mattina del 12 agosto del 1944 le squadre delle Ss guidate da Reder e Kesserling trucidarono 360 donne, vecchi e bambini. è stata la strage più odiosa fra quelle compiute nel 1944 lungo la Linea Gotica, ancora senza colpevoli. Il presidente dell'assemblea a una cerimonia in ricordo delle vittime, ha infatti detto: «Due giorni fa sono stati consegnati al presidente del Senato i nomi dei membri della Camera nella commissione d'inchiesta sui fascicoli dimenticati». Dunque, la commissione parlamentare sull'occultamento dei 695 fascicoli che potrebbero far luce sulle responsabilità nelle stragi che dal 1943 al 1945 insanguinarono l'Italia, «presto potrà avviare i lavori». Non soltanto. Casini ha sottolineato: «Per quanto attiene alla mia responsabilità mi sento di poter assumere un preciso impegno in questo senso». Il presidente della Camera ha voluto ricordare due elementi che hanno segnato «una inversione di tendenza» nella volontà di fare emergere la verità sulla vicenda, non dimenticando che «per un periodo purtroppo non breve l'attenzione delle istituzioni non è stata adeguata». Pier Ferdinando Casini ha così citato l'istituzione del Parco della Memoria, avvenuta nel 2000, e quella della commissione parlamentare sui fascicoli dimenticati, voluta nel maggio scorso. E ha ricordato che nella tredicesima e nella quattordicesima legislatura, che hanno visto alternarsi al governo il centrosinistra e il centrodestra, «si è registrata la sostanziale volontà di maggioranza e opposizione». Un fatto che «dimostra che la memoria non ha colore politico». Casini ha, tra l'altro, inaugurato una mostra di fotografie di Oliviero Toscani, immagini che ritraggono i volti di chi nel 1944 conobbe con occhi di bambino l'orrore della strage. Sei persone sono già state identificate dalla magistratura come nazisti responsabili, tra altri, dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema. È già stato chiesto il loro rinvio a giudizio. A quasi sessant'anni da quel tragico 12 agosto del 1944, tutti i partecipanti alla cerimonia di commemorazione ieri si sono augurati che presto possa esserci un processo, nella speranza di un barlume di giustizia su uno dei più efferati delitti della seconda guerra mondiale.
la Repubblica - 2 agosto 2003


"Giustizia per le stragi naziste ancora impunite"

E il rettore Marinelli: "Quell'11 agosto è rinata la democrazia". Presenti solo due esponenti del centrodestra

Il sindaco alla cerimonia per ricordare la Liberazione di Firenze

di M. V.

«È necessario che siano riaperti i fascicoli e il cosiddetto "armadio della vergogna" per far andare avanti le inchieste, non per vendetta ma per ricordare e fare luce sui quei tragici giorni». Così il sindaco Leonardo Domenici, che oggi sarà a Sant'Anna di Stazzema, ha ricordato la Liberazione di Firenze dai nazifascisti avvenuta 59 anni fa. Di fronte agli stendardi delle associazioni partigiane allineati nel salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, dopo aver deposto una corona al monumento dei caduti in piazza dell'Unità italiana, Domenici ha chiesto «giustizia per le stragi rimaste impunite» ribadendo che le inchieste devono proseguire. Un messaggio «per il Parlamento e per il governo», ha spiegato davanti alle autorità civili e militari. Davanti anche ad un inviato della Curia, monsignor Alessandro Berti. Ma non davanti al centrodestra, che ha quasi disertatole celebrazioni: solo il consigliere azzurro Graziano Grazzini, che è vicepresidente del consiglio comunale, e l'ex parlamentare dell'Udc in qualità di presidente della biblioteca pedagogica, erano presenti nel salone affollato dai gonfaloni (Scandicci, Fiesole, Bagno, Lastra a Signa, Sesto, Rufina, Pontassieve, Greve, Rignano, San Casciano Vaglia). Con il sindaco Domenici oggi a Stazzema per ricordare l'eccidio ayvenuto il giorno dopo la liberazione dei capoluogo toscano, è toccato quest'anno al rettore Augusto Marinelli tenere la commemorazione. «L'insurrezione di Firenze, che vide la partecipazione di formazioni partigiane espresse da tutti i raggruppamenti politici, dai comunisti ai liberali e dai democratici cristiani ai socialisti - ha detto Marinelli - precostituì la trama dell'autogoverno, a Firenze è rinata la democrazia italiana». Il rettore ha poi ripercorso momenti importanti della vita di Firenze, citando l'alluvione e in tempi molto più recenti anche il Social forum europeo: «È stato un atto di grande coraggio, perché i giovani si proiettano in avanti, si sentono cittadini del mondo e hanno un'acuta sensibilità per l'ingiustizia» Sfiorando l'attualità però Marinelli ha anche detto che «Firenze non può essere solo la città dei musei e della bellezza architettonica, non può vivere di un centro storico da contemplare perché ciò che si contempla ma che si considera estraneo all'oggi è morto». Una delegazione di An si è recata come ogni anno a rendere maggio al sacrario della Repubblica sociale a Trespiano. Mentre l'associazione «A voce forte» di Forte dei Marmi ha scelto di ricordare le 560 vittime, in gran parte donne, anziani e bambini, uccise a Sant' Anna di Stazzema con le bandiere a mezz'asta nelle stazioni balneari della riviera versiliese.
la Repubblica - 12 agosto 2003


"Stazzema sia simbolo di pace"

Il sindaco ha proposto che i Comuni collaborino con la commissione d'inchiesta sull'eccidio - Domenici alla cerimonia per i 59 anni della strage nazista - Fassino: "Il dovere della memoria deve aiutarci a costruire il futuro"

di Simona Poli

Molti non hanno ancora un volto, un nome, un fascicolo aperto a loro carico in un processo per strage. Gli assassini di Sant'Anna di Stazzema, quelli che sterminarono 560 civili innocenti nell'agosto del '44, hanno vissuto e ancora vivono impuniti. Ieri è stato il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, presidente dell'Associazione dei Comuni, a parlare di fronte all'ossario delle Alpi Apuane nel 59° anniversario dell'eccidio. «Anche a distanza di quasi sessanta anni è giusto dare un nome agli autori delle stragi naziste. Non per vendetta ma per il rispetto della memoria e per l'accertamento della verità e soprattutto per superare quell'oblìo che è durato troppi anni», ha detto. Riaprire gli archivi della vergogna, avviare finalmente le inchieste sulle stragi compiute in tempo di guerra. È una battaglia che il Parlamento ha vinto, dopo anni di attese e rinvii. Le procure tedesche e quelle italiane collaborano. NON è tardi, non sarà mai tardi per rendere giustizie alle vittime ha ricordato Domenici. «Il 2003 è stato un anno comunque importante, il presidente della Repubblica ha conferito un riconoscimento alla memoria a Genny Marsili, il presidente della Camera Pierferdinando Casini, cui seguirà, ne sono certo, il presidente del Senato, si è impegnato per l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta. Bisogna ripartire da qui. È giusto dare una risposta a chi si chiede se dopo così tanti anni valga ancora la pena di cercare la verità: noi diciamo di sì, non finiremo mai di impegnarci, non ci fermeremo e questo deve essere un monito per tutti, sapere che c'è una giustizia che non si ferma. Chiederò, sia come sindaco di Firenze che come presidente dell'Anci, che nella futura commissione d'inchiesta sulle stragi nazifasciste i Comuni italiani siano resi coprotagonisti e possano svolgere un ruolo non solo di auditori». Sotto al sole rovente ieri la cerimonia è iniziata con la deposizione delle corone di alloro delle istituzioni al monumento ai caduti, poi è stata celebrata una messa dal vescovo vicario di Livorno Paolo Razzauti. Oltre a Domenici hanno parlato l'assessore regionale Marco Montemagni, il sindaco di Stazzema Gian Piero Lorenzoni, il vicepresidente del consiglio regionale Enrico Cecchetti e il presidente della provincia di Bologna Vittorio Prodi. A Lorenzoni ha inviato un messaggio il segretario dei Ds Piero Fassino: «Il dovere della memoria deve aiutarci a costruire un futuro in cui non ci sia più la possibilità di creare aberrazioni e discriminazioni», scrive Fassino. «Il dovere della memoria ci deve anche impegnare a combattere ogni tentativo di revisionismo teso a delegittimare non solo la verità storica ma il concetto stesso di solidarietà e rispetto della persona umana».

la Repubblica - 13 agosto 2003


Stazzema: "Un riconoscimento a Milena"

Un riconoscimento a Milena Bernabò: lo propone l'onorevole Carlo Carli (Ds) che ieri dopo aver fatto visita alla signora Bernabò ha scritto al ministro degli Interni. La donna, sopravvissuta alla strage fascista di Sant'Anna di Stazzema dell'agosto 1944, allora sedicenne, riuscì a portare in salvo tre ragazzini. Milena Bernabò fu rinchiusa in una stalla alla quale i nazisti diedero fuoco. Lei, nonostante fosse ferita, riuscì a scappare dal soffitto e a portare in salvo i bambini.

la Repubblica - 28 agosto 2003


Quei ventinove partigiani impiccati da un giurista

Le ricerche dello storico Carlo Gentile rivelano il colpevole della strage dei nazisti in fuga il 5 settembre '44 - Torna alla luce il boia di Figline di Prato - "Fu il maggiore Karl Laqua a dare l'ordine - Nell'agosto '44 la sua divisione sterminò quattro adulti e cinque ragazzi alla Consuma" - "Cercare la verità senza strumentalizzarla far capire che i crimini non resteranno impuniti, parlarne a scuola coi giovani"

di Simona Poli

Li misero in fila in ventinove davanti al patibolo, quelli che dovevano salire erano costretti a rimuovere i cadaveri dei compagni uccisi prima di loro. I tedeschi guardavano, il comandante fumava lentamente una sigaretta, poi un'altra sigaretta, poi un'altra ancora mentre dava l'ordine di stringere il cappio intorno al collo dei partigiani. Uno che vide tutto, che ha raccontato la strage, disse che c'era una specie di sorriso sulla sua faccia, sembrava che godesse dello spettacolo, ripeteva ridendo e storpiando le parole l'ultimo grido dei condannati «viva l'Italia libera». Era la notte tra il 5 e il 6 settembre del '44 (il 6 fu il giorno della liberazione) quando a Figline di Prato, sulla mulattiera che porta a Migliana, alle falde del monte Javello, la Wermacht di Kesselring in fuga verso il nord rastrellò e ammazzò prima alcuni civili e poi un gruppo di combattenti che ritenevano responsabili di aver ucciso tre soldati tedeschi. Tra le stragi compiute in Toscana questa non è tra le più note, anche se il nome del comandante alto e bruno che guardava morire i partigiani fumando e ridendo adesso è conosciuto. A scoprirlo è stato lo storico Carlo Gentile, consulente di varie procure militari italiane ed europee per i crimini di guerra e docente all'università di Colonia. Nella sua documentazione ha trovato riscontri precisi e li ha raccontati in un incontro pubblico nel Museo della deportazione, coordinato da Camilla Brunelli, a cui partecipava anche lo storico Ivano Tognarini, docente a Siena e presidente dell'Istituto storico della Resistenza.

Professor Gentile, chi era il boia di Figline?

«Era il maggiore Karl Laqua nato il 28 luglio del 1903 a Maerdorf, una cittadina del Reich ora nel territorio della Repubblica Ceca. Era un ufficiale di complemento, comandante del primo battaglione del reggimento granatieri 755. Attualmente quella di Figline resta l'unica strage che gli viene direttamente imputata. Ma è noto che la divisione di cui faceva parte si macchiò di altri eccidi tra metà luglio e metà agosto del '44 nel Pratomagno: vicino alla Consuma morirono nove civili, cinque poco più che bambini».
È stato difficile ricostruire l'identità di Laqua?

«Come esperto del periodo sono risalito piuttosto facilmente al nome del comandante, credo che anche la procura di La Spezia che indaga su quella strage abbia fatto il mio stesso percorso. Sarebbe interessante capire come Laqua abbia proseguito la sua vita, se sia stato ucciso in guerra oppure sia riuscito a fuggire, a nascondersi. Ora avrebbe più di cento anni, ormai è morto di sicuro».
Come è iniziata la sua indagine?

«Ci sono documenti del tempo. Gli americani a metà dell'ottobre 1944 aprirono un fascicolo, il comandante Clark si trovava a Prato e fu informato dell'eccidio compiuto poche settimane prima. Fu lui a inviare quattro investigatori della Fbi che interrogarono alcuni testimoni, tra cui don Milton Nesi, parroco di San Bartolomeo a Coiano. Ci fu poi un supplemento di indagine curato da agenti britannici, poi nel '46 il dossier fu consegnato alle autorità italiane e se ne persero le tracce».

Finì nel cosiddetto "armadio della vergogna" insieme a tanta altra documentazione sulle stragi nazi-fasciste?

«Si, ci è rimasto fino al '94 e poi è stato consegnato alla procura militare di La Spezia. A Figline però quella strage non era mai stata dimenticata, lo storico locale Michele Di Sabato ha scritto vari libri sull'argomento».

Chi era Karl Laqua?

«Un funzionario della giustizia, un giurista dell'apparato nazista richiamato in servizio come ufficiale. Quei trenta partigiani uno riuscì a scappare prima dell'impiccagione - appartenenti alla brigata Bogardo Buricchi erano stati catturati dopo uno scontro con l'esercito tedesco sulla collina di Pacciana. Furono giustiziati nella piazza di Figline, Laqua assistette compiaciuto».

A distanza di sessant'anni è ancora importante trovare il nome dei colpevoli? Cercare la verità?

«Solo sulla base della verità si costruisce una memoria utile per tutti, anche se non si arriva mai alla verità con la V maiuscola ma a una versione storica più vicina possibile alla realtà dei fatti. Ovviamente esiste il rischio che l'interesse si indebolisca, il tempo passa, i testimoni scompaiono, i giovani sono meno informati. Ma all'incontro di Figline è venuta tanta gente, che ha fatto domande, che era curiosa. L'importante parlare di quel periodo nelle scuole, importante scrivere e raccontare la storia senza strumentalizzazioni, far capire che nessun crimine può restare impunito, che ci sarà sempre qualcuno che indaga, apre gli armadi, cerca la verità».

la Repubblica - 5 settembre 2003


Otto settembre storia complessa degli italiani

Le varie letture di una data al di là delle polemiche - Una più serena visione critica dopo l'ondata revisionista

di Pietro Scoppola

Cosa c'è ancora da dire sull'8 settembre a sessant'anni dall'evento che non sia celebrativo? Può sembrare paradossale eppure quella data è divenuta con il trascorrere del tempo più pregnante, più significativa, più coinvolgente. Hanno certo contribuito a questo recupero dell'8 settembre le molte iniziative del presidente Ciampi, iniziative passate e iniziative che si annunciano per la prossima ricorrenza: sarà fra l'altro presente, con una testimonianza, in una rievocazione di Rai 3 in onda proprio l'8 settembre. Ma se l'attenzione del presidente a quella data ha contribuito al suo recupero, non credo si possa considerarne la causa: Ciampi ha piuttosto colto e ha dato voce a qualcosa che era maturato nella coscienza del Paese e nel mondo stesso della cultura. Anzitutto nella coscienza del Paese: la memoria di quegli eventi è ormai non spenta ma pacificata; non suscita più violente reazioni e contrapposizioni emotive; chi custodisce ancora quella memoria reagisce con fastidio ai tentativi, per fortuna sempre meno frequenti, di servirsi di quegli eventi per la polemica politica. È una memoria insomma distesa che consente, senza livellare il giudizio sulle scelte di allora, di comprendere tutta la complessità di eventi che non furono solo militari o politici, ma che coinvolsero in profondità il vissuto degli italiani. E qui il processo spontaneo a livello di memoria collettiva si intreccia e si salda con il lavoro degli storici. L'ondata revisionista degli anni Novanta, quella per intendersi riassunta nella formula dell'8 settembre «morte della patria», si è esaurita e si è sciolta in un recupero di aspetti rimasti in ombra della vicenda: in fondo il revisionismo aveva rovesciato senza superarla la storiografia «di sinistra» degli anni Settanta; l'esasperata rivendicazione, negli anni Settanta, del ruolo dominante se non addirittura esclusivo della lotta partigiana, il disinteresse o almeno la sottovalutazione del ruolo dei militari, i «badogliani» come spregiativamente venivano chiamati dalle bande partigiane più politicizzate, si sono ribaltati nel revisionismo in un drastico ridimensionamento dell'importanza della Resistenza ai fini della liberazione del Paese e in una visione restrittiva della Resistenza stessa; la polemica contro gli attendisti si è rovesciata a sua volta nell'immagine della lunga zona grigia di indifferenza fra le due minoranze in lotta fra loro. Il revisionismo ha esaurito il suo compito e ha provocato una feconda reazione che porta ad una più ampia e serena visione critica, nella quale tutta la complessità del fenomeno «resistenza», non solo militare ma anche civile ritrova i suoi spazi. L'8 settembre diventa una data simbolo intorno alla quale molti fili della ricerca storica si incontrano e si saldano. Dopo la fondamentale ricerca di Elena Aga Rossi nel suo classico lavoro di dieci anni fa, Una nazione allo sbando. L'armistizio italiano del settembre 1943, la letteratura sull'8 settembre si è notevolmente arricchita. È in atto un pieno ricupero del ruolo svolto dai militari: proprio in questi giorni compare nelle librerie un documentato volume di Carlo Vallauri (di cui ha parlato ieri Lucio Villari ndr), I soldati. Le forze armate italiane dall'armistizio alla liberazione, (Utet 2003), nel quale l'aspetto più suggestivo non è tanto la ricostruzione della vicenda militare ma la riflessione sulle premesse morali e psicologiche che hanno portato all'impegno armato contro i tedeschi: di fronte al dissolversi di tutte le istituzioni il fatto di assumere personalmente, da soli, le proprie responsabilità è stato un elemento decisivo ai fini della ricostruzione morale del Paese. Da qualche anno sono tornati alla luce molti documenti sulle rappresaglie compiute dalle truppe germaniche a carico delle popolazioni civili: dopo il riarmo della Germania il clima della guerra fredda aveva steso un velo di oblio su questi episodi. È in atto un grande lavoro, che coinvolge molti comuni specie della Toscana, per il ricupero della memoria popolare su questi eventi e compaiono libri di memorie che contribuiscono a darci lo spessore del vissuto popolare. E ancora: i luoghi della Resistenza vengono rivisitati e ridefiniti nella loro configurazione di allora. I luoghi della disperata ed eroica resistenza a Roma dopo l'8 settembre hanno visto storici e architetti collaborare in una suggestiva ricerca coordinata da Piero Ostilio Rossi. Si potrebbe continuare. Ma tanto basta a mostrare che l'8 settembre non è una data esausta per il trascorrere del tempo e condannata perciò al lustro e al grigiore della ufficialità: al contrario è una data che aiuta ed obbliga a riscoprire tutta la complessità e la ricchezza della storia da cui è nata la nostra Repubblica.

la Repubblica - 8 settembre 2003


Strage di S. Anna di Stazzema saranno processati sette nazisti

Rinvii a giudizio firmati dal procuratore militare di La Spezia

GENOVA - Sette rinvii a giudizio per altrettanti nazisti che avrebbero preso parte il 12 agosto 1944 alla strage di Sant'Anna di Stazzema, quando il paesino toscano fu messo a ferro e fuoco. Quel giorno furono massacrate 560 persone, per la maggior parte vecchi, donne e bambini. I rinvii a giudizio sono stati firmati dal procuratore militare della Spezia Marco De Paolis. I sette nazisti chiamati alla sbarra hanno tutti più di ottant'anni. Alcuni degli indagati iniziali sono morti in questi anni. Si tratta di un caso ad elevato valore simbolico: quello di Sant'Anna di Stazzema è infatti uno degli episodi più atroci avvenuti fra l'8 settembre del 1943 e l'aprile del 1945, quando la violenza degli squadroni nazisti si accanirono contro i civili italiani, e fece registrare oltre 400 stragi. L'inchiesta sulla strage è ripartita grazie all'apertura nel 1994 dell'"armadio della vergogna", dove per più di trent'anni erano stati sepolti i risultati delle indagini sulle stragi svolte nell'immediato dopoguerra. Oltre 200 dei fascicoli ritrovati nell'"armadio della vergogna" sono stati affidati alla Procura militare della Spezia.

la Repubblica - 11 ottobre 2003


Dieci SS accusano: "Furono loro i boia"

La procura militare di La Spezia ha chiuso l'inchiesta sull'eccidio del 12 agosto 1944, dove furono massacrate 560 persone - Sant'Anna di Stazzema, chiesto il processo per sei nazisti - Individuati anche grazie alle deposizioni di altri soldati tedeschi o di disertori interrogati dagli Alleati poco dopo la strage

di Maurizio Bologni

L'indagine è arrivata ad un passo dai nomi che avrebbero riaperto le ferite più dolorose. Sono i nomi degli italiani "con accento versiliese" che all'alba del 12 agosto 1944 accompagnarono le SS a Sant'Anna di Stazzema per massacrare 560 civili, tra cui tanti bambini e donne. Per tutto il tempo dell'inchiesta condotta dalla procura militare di La Spezia, iniziata nel 1994 quando fu riaperto a Roma l'armadio della vergogna coi dossier sulle stragi naziste, quei nomi hanno continuato a riaffiorare e a scomparire, fino a disegnare l'identità di un uomo che nel massacro perse moglie e figli. Davvero troppo per essere vero. Così per lui e così per altri: non una prova per processare gli "italiani". I magistrati hanno invece raccolto indizi sulla partecipazione di nove ufficiali e sottufficiali tedeschi all'eccidio di Sant'Anna. E il capo della procura militare Marco De Paolis ha chiesto il rinvio a giudizio di sei sopravvissuti dopo - la morte il 4 luglio scorso del caporal maggiore Horst Eggert - gli ex sottotenenti ottantaduenni Gerard Sommer e George Rauch, gli ex sottufficiali Werner Bruss, 83 anni, Ludwig Heinrich Sontag, 79 anni, Fleinrich Schendel, 82, e Alfred Schoneberg, 82. Le accuse: "Omicidio contro privati nemici e concorso in violenza pluriaggravata e continuata". Il gip Anna Marconcini dovrebbe fissare l'udienza preliminare entro dicembre e l'eventuale processo all'inizio dei prossimo anno. Sessanta anni dopo. La procura ha spulciato i verbali degli interrogatori di prigionieri di guerra fatti nell'ottobre 1944 dagli Alleati, gli organigrammi delle SS, le indagini della questura di Massa, vecchi rapporti e deposizioni. Ma i magistrati e i carabinieri bilingue altoatesini hanno soprattutto interrogato almeno una ventina di anziani cittadini tedeschi sospettati di aver partecipato alla strage. Nove sono quelli finiti nell'inchiesta come indagati - rimasti in sei dopo i decessi per cause naturali - mentre un'altra decina sono ex SS che hanno assunto il ruolo di testimoni a carico dei commilitoni, sebbene siano apparsi spesso reticenti e lacunosi, disposti semmai a fare i nomi di militari morti. Alcune deposizioni di questi soldati sono però utilizzate dalla procura come indizi per chiedere i sei rinvii a giudizio. La procura è così arrivata alla conclusione che la strage fu compiuta da SS delle compagnie dalla 5° alla 8° del 2° Battaglione del 35° Reggimento della 16° Divisione SS Panzegrenadier. In tutto tra i 150 e i 300 uomini. Tra di loro sarebbero però stati notati anche i berretti col teschio umano delle formazioni SS note come Totenkopf. Alla fine di un lavoro approfondito il pm De Paolis ha chiesto il rinvio a giudizio solo di ufficiali e sottufficiali nei confronti dei quali fossero stati raccolti più indizi di partecipazione all'eccidio. Ad accusare l'ex sottotenente Gerard Sommer, che fece parte del 2° Battaglione, sono ad esempio tre elementi. Un disertore diciannovenne, Willy Haase, interrogato dagli Alleati, sostenne che l'intero 2° Battaglione partecipò alla strage, e un altro ex militare tedesco, sentito in questi anni dalla procura di La Spezia, ha specificato che sicuramente tra le compagnie presenti a Sant'Anna quella mattina c'era la 7° comandata da Sommer. Questo nome, "G. Sommer", compare infine nella postilla di un Rapporto del Comando alleato sugli organigrammi SS come persona che avrebbe partecipato all'eccidio. Sommer, interrogato di recente ad Amburgo, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Al suo avvocato di fiducia, Andrea Amati di La Spezia, ha invece assicurato: "A Sant'Anna non c'ero, mai compiuto atrocità come questa". E il legale, autore di una memoria difensiva che non ha evitato la richiesta di rinvio a giudizio del suo assistito, è pronto a dare battaglia: "Abbiamo le prove che Sommer assunse il comando della 7° compagnia nel settembre 1944, quando la strage era già stata compiuta".

la Repubblica -12 ottobre 2003


Priebke alla radio chiede la grazia ma non si pente

Condannato per le Fosse Ardeatine - Entro pochi mesi chiuse le indagini per altri massacri compiuti in Toscana

ROMA - Erich Priebke chiede la grazia dai microfoni della Rai. Succederà questa mattina alle 9 a "Radio Anch'io", la trasmissione di Radio Uno che ha deciso di mandare in onda l'intervista di Bruno Sokolowicz bloccata l'11 ottobre dopo le proteste dell'Anpi e dei familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine. Priebke, che ha 90 anni, esprime il desiderio di poter riabbracciare la moglie malata che vive in Argentina. Ai parenti delle vittime l'ex ufficiale delle SS condannato all'ergastolo, ora agli arresti domiciliari a Roma, dice di essere pronto al dialogo. Nell'intervista Priebke afferma anche: «Fu una grande tragedia personale. Ma non la volli io, dunque non posso dire di essere pentito».

la Repubblica - 20 ottobre 2003


Diversi ex soldati tedeschi nel mirino della procura militare

Vicini ai boia delle stragi dimenticate - Entro pochi mesi chiuse le indagini per altri massacri compiuti in Toscana - Gli accusati non rispondono oppure negano di aver partecipato

di Maurizio Bologni

LA SPEZIA - A giudizio sei ex soldati accusati di essere tra i macellai di Sant'Anna di Stazzema, che il 12 agosto 1944 mitragliarono e bruciarono vivi donne e bambini, 560 le vittime. A giudizio un boia della Certosa di Farneta, che venti giorni dopo, a mezzanotte tra il 1 e il 2 settembre, entrò assieme ad altre SS nel trecentesco edificio religioso a 10 chilometri da Lucca: torturarono i frati e ne ammazzarono dodici. A giudizio quattro massacratori di Marzabotto. Il 2 dicembre, davanti al giudice delle indagini preliminari del tribunale militare di La Spezia, il procuratore militare Marco De Paolis sosterrà la richiesta di processare due ex ufficiali e quattro ex sottufficiali SS che parteciparono all'eccidio di Sant'Anna. E in quegli stessi giorni De Paolis chiederà il processo anche per un SS di Certosa di Farneta. Poi le richieste di rinvio a giudizio per Marzabotto, all'inizio del prossimo anno, ed entro la primavera per altre delle trenta carneficine naziste sulle quali indaga: i rastrellamenti in dodici villaggi e le 160 esecuzioni di Bardine di San Terenzio in provincia di Massa, le stragi aretine di Civitella, San Pancrazio, San Polo e Cornia. I nomi dei responsabili sono agli atti. E così l'anno 2004 promette di passare alla storia come quello in cui sarà fatta giustizia coi processi delle "stragi dimenticate" che tra il luglio e la fine di settembre 1944 tolsero la vita a 2.000 persone. Ora che i massacratori muoiono uno dopo l'altro per vecchiaia, è una corsa contro il tempo quella di Marco De Paolis, 44 anni, romano, per dodici anni a capo dell'ufficio dei gip del tribunale militare di La Spezia e dall'aprile 2002 passato a capo della procura. E' l'ultima possibilità di fare giustizia e ricostruire quei crimini contro l'umanità. A De Paolis dà una mano la stia polizia giudiziaria e il comando generale dell'Arma dei carabinieri, che gli ha affiancato uno straordinario nucleo di carabinieri bilingui, altoatesini di stanza a Bolzano, guidati dal tenente colonnello Roberto D'Elia. "Il loro aiuto è stato prezioso" dice il pm. Nell'ultimo anno e mezzo il magistrato e i carabinieri hanno fatto la spola tra l'Italia e le città tedesche dove sono stati interrogati in rogatoria internazionale indagati e testimoni: Amburgo, Berlino, Stoccarda, Brema e Friburgo. Sentiti una cinquantina di sopravvissuti italiani alla strage di Sant'Anna e una quindicina di tedeschi, indagati e testimoni. L'ultima raffica di interrogatori tra l'aprile e il luglio scorsi. Passati al setaccio migliaia di pagine tratte da archivi tedeschi, inglesi e americani. E alla fine ecco i nomi dei comandanti di compagnia e di plotone ancora in vita che guidarono il massacro di Sant'Anna. "Usarono i lanciafiamme per distruggere i corpi e non lasciare tracce, un disegno criminale tipico delle più spregevoli accozzaglie brigantesche" chiude uno dei suoi rapporti il colonnello D'Elia. I sei incriminati, però, negano. Nessuno ha ammesso responsabilità. L'unico che ha riconosciuto di aver partecipato all'eccidio era stato il settimo indagato, Horst Eggert, che è morto il 4 luglio scorso. Degli altri c'è chi ha scelto la strada del silenzio e chi di non rispondere agli inquirenti. Ma c'è anche chi si difende. Werner Bruss, 83 anni, ex sergente della quinta compagnia difeso dall'avvocato Mauro Boni di La Spezia, attraverso un fresco memoriale si appella ad una donna che, se ancora invita, potrebbe scagionarlo: "Mi dissero che quella mattina avremmo bonificato Sant'Anna dai partigiani dopo aver evacuato il paese. Fui lasciato coi miei uomini all'incrocio tra due sentieri per controllare il passaggio dei civili che sarebbero dovuti arrivare da Sant'Anna. Aspettammo tre ore senza vedere nessuno. Respingemmo indietro solo una donna in stato di gravidanza avanzata. Passando da una fattoria rividi quella mamma. Penso di aver salvato la vita a lei e ai suoi bambini". Alfred Concina, che è tra i testimoni ma non tra gli imputati, sentito il 21 luglio scorso nella casa di cura Johanna Ravad Holzen, ha almeno un moto di orrore: "Sentii parlare di quella porcata, a Sant'Anna. No, non vi presi parte. Non ho mai fatto cose dei genere. Mio padre, italiano, mi avrebbe maledetto".

la Repubblica - 21 ottobre 2003


Tra gli aguzzini delle SS italiani col volto coperto

Alcuni avevano l'accento versiliese, per non farsi riconoscere una retina calava dall'elmetto fino al mento - In 17 erano inquadrati nella Sedicesima divisione, cinque sono stati identificati

di Ma

LA SPEZIA - Vestivano come gli altri. In mimetica e elmetto. Oppure in uniforme grigioverde e berretto rigido con mostrine delle SS. Una retina di colore blu, alata sotto l'elmetto, copriva i loro volti. Parlavano versiliese. Tra i massacratori delle SS a Sant'Anna di Stazzema c'erano italiani, inquadrati tra i soldati nazisti. E' la novità che con più forza emerge dall'inchiesta della procura militare di La Spezia. Tante testimonianze raccontano di quelle "SS toscane". Alcuni di quei nazisti italiani si mostrarono spietati al pari dei tedeschi. Altri ebbero comportamenti meno violenti. I carabinieri altoatesini hanno cercato di identificarli. "Si è accertato che della Sedicesima divisione SS facevano parte anche 17 italiani" scrive il colonnello Roberto D'Elia nelle ultime pagine del suo rapporto alla magistratura quanti di loro facevano parte del Secondo Battaglione che attuò il massacro? Già accertato che italiani furono costretti a portare munizioni, anche su questo fronte l'inchiesta ha portato novità. E' stata identificata una ragazza "portamunizioni", all'epoca diciannovenne, sentita per la prima volta dagli inquirenti. "In casa mia arrivarono dieci soldati, rapinarono il nonno, mi caricarono in spalla uno zaino e mi costrinsero a seguirli" ha ricordato Marisa C., mai sentita prima. "Lungo il cammino rapinarono una donna, poi la uccisero insieme ad altre quattro persone. Alla fine mi lasciarono inspiegabilmente andare via". Diverso il discorso sugli italiani inquadrati nelle SS. Dei 17, i carabinieri sono riusciti ad identificarne 5. Tre sono morti. Gli altri 2 hanno fornito spiegazioni sufficienti ad allontanare il sospetto di aver partecipato all'eccidio di Sant'Anna. Giacomo M., che vive in Francia e che compirà 79 anni il 2 dicembre, ha sostenuto di essere stato catturato dai tedeschi dopo lo sbandamento dell'8 settembre e di aver poi accettato di arruolarsi nelle SS per evitare il lager. Sostiene di essere stato destinato alla Decima compagnia, diversa dunque da quelle che insanguinarono Sant'Anna, presso la quale avrebbe fatto il calzolaio. "Non ho mai preso parte a combattimenti, né assistito e tanto meno partecipato a violenze contro cittadini italiani, non ricordo i nomi degli ufficiali del reparto" ha raccontato. Negli archivi tedeschi Giacomo M. risulta in effetti disperso il 4 luglio 1944, prima di Sant'Anna, nella zona di Rosignano. Giordano G., 79 anni da compiere, residente a Milano, era invece arruolato nella compagnia logistica della Sedicesima divisione. Ha ricordato che nel maggio 1944 arrivò in Toscana e che nel giugno ebbe un incidente stradale con il camion e fu catturato. Gli archivi tedeschi confermano. Della presenza a Sant'Anna di "SS italiane" hanno testimoniato i sopravvissuti. Enio Mancini: "Due dei tedeschi che ci portarono a Valdicastello avevano il volto nascosto da una rete. Di questi uno parlava italiano con accento toscano". Lilia Pardini, sentita il 4 aprile 2000: "Prima che ci mitragliassero uno di quei soldati, che indossava l'uniforme tedesca, mi rivolse la parola in italiano con inflessione dialettale versiliese. Ci misero al muro e ci spararono. Il corpo di mia mamma mi fece da scudo e mi salvai". Renato Bono celli, sentito il 9 aprile scorso: "Mio nonno Nello si salvò dall'esplosioni di un lanciafiamme puntato contro la sua casa. Mi raccontò che prima dell'esecuzione aveva incrociato un soldato in uniforme tedesca, a lui sconosciuto, che in perfetto italiano gli aveva chiesto: "Ma come, anche tu qui?". Milena Bernabò, interrogata l'8 aprile scorso: "Sentii alcuni ne SS parlare in italiano, uno dei "tedeschi" aveva una rete di colore blu che gli copriva il volto per non farsi riconoscere". Mauro Pieri: "Uno di quei soldati a Vacarecia parlava in italiano con cadenza dialettale versiliese. Mi fecero entrare assieme a mia madre e a due miei fratelli in una stalla, poi vi gettarono dentro bombe mano e ci mitragliarono, lo mi salvai. Posso descrivere quell'italiano". Avio Pieri: "Sotto la minacci, delle armi delle SS camminavamo lungo una mulattiera quando una donna anziana, di nome Pierotti si rivolse ad no soldato tedesco , che aveva gli occhi coperti da una retina, dicendogli che non ce la faceva più a camminare. Lui le rispose in perfetto toscano: "Seno ce la fai mettiti a sède". Ne vidi altri tre di soldati che parlavano italiano e avevano la faccia coperta dalla retina". Cesira Pardini: "Una donna, di nome Maria Bonucelli in Gamba, si rivolse ad un soldato con il volto coperto chiedendogli pietà per suo figlio di 14 mesi morente di leucemia Il soldato tirò fuori la pistola dalla fondina. Sparò in testa prima a lei e poi il bimbo".

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Stragi in Toscana, altre ex SS nel mirino

La procura militare di La Spezia sta per chiudere le indagini su vari eccidi del '44

È una corsa contro il tempo, i boia invecchiano, i boia muoiono. Ecco perché si deve fare in fretta, i processi hanno bisogno di imputati invita, ecco perché la procura militare di La Spezia sta cercando di stringere per fare giustizia sulle stragi nazifasciste che insanguinarono l'Italia e la Toscana nel '44: non solo quelle famose come Sant'Anna a anche quelle dimenticate. Entro la primavera del 20 la procura promette di chiudere con richieste di rinvio a giudizio altri dei trenta eccidi nazisti i sulle quali indaga: i rastrellamenti in dodici villaggi e le 160 esecuzioni che vengono ricordate come la strage di Bardine di San Terenzio in provincia di Massa, le stragi aretine di Civitella, San Pancrazio, San Polo e Cornia.

la Repubblica - 21 ottobre 2003 


Processo per la strage di Sant'Anna Regione e Comune parte civile

Oggi l'udienza preliminare, il pm chiede il rinvio a giudizio di sei ex militari tedeschi - Nell'eccidio nazifascista del '44 morirono 560 persone

di Maurizio Bologni

Stamattina il gip del Tribunale militare di La Spezia tiene l'udienza preliminare del processo per la strage nazifascista del 12 agosto 1944 a Sant'Anna di Stazzema, dove furono trucidati 560 civili (140 erano bambini altri anziani), Il pm Marco De Paolis - che ha spulciato milioni di carte e interrogato decine di persone tra l'Italia e la Germania con la collaborazione di un nucleo di carabinieri bilingui guidati dal colonnello Roberto D'Elia distaccato a La Spezia dal Comando generale dell'Arma - chiede il rinvio a giudizio di sei ufficiali e sottufficiali tedeschi ancora in vita, Georg Rauch, Gerhard Sonimer, Alfred Schöneherg, Werner Bruss, Hainrich Schendel, Ludwig Hainrich Sonntag, che avrebbero fatto parte delle quattro compagnie della 16° Divisione delle SS individuate come protagoniste del massacro. Se la richiesta verrà accolta, nei prossimi mesi si svolgerà il processo pubblico. Regione Toscana, Provincia di Luogo, Comune di Stazzema ed Associazione "Martiri di Sant'Anna" si costituiranno parte civile assieme, assistiti dall'avvocatura regionale e da due campioni del foro: Carlo Federico Grosso, ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e professore universitario, e Paolo Trombetti, già parte civile per le stragi dell'Italicus, di Vernio e della stazione di Bologna. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, ha comunicato che anche il Governo sta valutando se costituirsi parte civile. "Si apre una finestra spettacolare sulla storia d'Italia. Non cerchiamo vendetta, ma giustizia e verità, anche se abbiamo dovuto attendere 60 anni" ha detto ieri il sindaco di Stazzema, Gian Piero Lorenzoni. "L'avvio del processo - ha dichiarato il vicepresidente del consiglio regionale Enrico Cecchetti - un primo risultato, perché riafferma un diritto fondamentale: i delitti contro l'umanità non vanno mai in prescrizione".

la Repubblica - 2 dicembre 2003

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