la Repubblica

L’enigma Shoah

Una monumentale storia dello sterminio degli ebrei

Abbiamo intervistato Enzo Traverso, uno dei curatori dell’opera che sarà presentata oggi in Campidoglio. Com’è stata possibile la catastrofe? Il punto dei cinquanta studiosi internazionali sulle cause del genocidio

Susanna Nirenstein

Fosse solo perché ancora oggi gli storici continuano a domandarsi “come sia stata possibile” la Shoah, questa rottura della storia e della civiltà, la “catastrofe” del XX secolo è ancora una questione aperta, un enigma, di fronte al quale gli studiosi non nascondono di non trovare una risposta soddisfacente, che faccia cioè dello sterminio degli ebrei il punto ineffabile di arrivo di una traiettoria. E siccome l’unico modo di salvarsi dall’accettare questo gorgo oscuro, questo “buco nero”, come lo chiamava Primo Levi, del nostro passato recente, è esplorarlo, ecco allora, benvenuta, e generosa di nuove intuizioni e dati, la mastodontica opera della Utet, Storia della Shoah – La crisi dell’Europa, lo sterminio degli Ebrei e la memoria del XX secolo, quattro volumi che verranno presentati oggi alle 17 in Campidoglio a Roma (poi si accompagneranno a un tomo finale di documenti, tre dvd e un cd ipertestuale) con il contributo di oltre cinquanta studiosi italiani e stranieri, un lavoro che fa il punto sulla ricerca e la riflessione storiografica sotto la direzione di un comitato scientifico in cui troviamo, tra gli altri, Saul Friedländer, Marcello Flores, l’israeliano Dan Diner e Enzo Traverso, esperto di nazismo e Shoah, docente di Scienze politiche all’Università di Amiens, che abbiamo intervistato.

Professor Traverso, perché la Shoah rimane un problema aperto?

«La storia è un problema aperto. Tra un secolo si continueranno a scrivere libri anche sulla Rivoluzione Francese così come su altro, a partire da interrogativi, sensibilità, categorie analitiche diverse da quelle correnti. E questo vale a maggior ragione per la Shoah, perché è particolarmente difficile inserirla in una visione tradizionale, positivistica della storia, della storia come processo dotato di un senso e di un fine».

Lei, e Dan Diner, parlate di rottura della storia e della civiltà.

«Rottura di civiltà perché lo sterminio degli ebrei spezza, per riprendere la formula di Habermas, un tessuto elementare di solidarietà umana che è sempre stato sottinteso alla storia, nonostante i conflitti, gli eccidi. Qui si realizzò qualcosa di più profondo che tocca la natura stessa dell’umanità. Ma non accetto il punto di vista che definisce l’Olocausto indicibile, irrappresentabile, quasi fosse un evento metafisico. Va detto invece che fu una rottura della civiltà prodotta dalla civiltà».

E questo significa volerne capire le premesse.

«Esatto. La Shoah è lo sblocco di un processo storico. Anche se è sbagliato vederlo in senso deterministico come l’arrivo ineluttabile del crollo dell’ordine europeo nel 1914, dell’antisemitismo, della visione razzista del nazismo. La Shoah si iscrive in tutti questi elementi, eppure tutte queste concause non bastano a spiegarla».

Le concause. La crisi, la guerra, l’ideologia, l’antisemitismo, il colonialismo europeo… Non si rischia così di non dare un ordine gerarchico ai fattori, di non attribuire responsabilità?

«Non credo che il nostro approccio problematico faccia “evaporare” le colpe. L’antisemitismo nazista è la premessa base, ma lo studio della politica antisemita mostra che fino al 1941 la soppressione degli ebrei è un obiettivo contraddittorio rispetto alle misure adottate, e le svolte furono legate alla guerra».

Sì, antisemitismo non vuol dire necessariamente persecuzione, e persecuzione non significa sterminio. Mein Kampf però preconizzava tutto. O no?

«Esiste una interpretazione funzionalista che riconduce lo sterminio al contesto, nega una scelta iniziale per la soluzione finale che sarebbe nata invece da decisioni empiriche fatte sul terreno, soprattutto per via dell’andamento “negativo” della guerra sul fronte orientale che avrebbe indotto l’inizio della soluzione finale. Poi ci sono gli storici intenzionalisti: sostengono che i nazisti avessero già deciso e aspettassero solo il momento adatto. Entrambi gli approcci sono molto discutibili. La Shoah nasce da una visione del mondo e da un antisemitismo radicale, ma anche dalla fusione di questa ideologia con scelte militari, politiche, strategiche che si fanno nel contesto della guerra. Leggendo il Mein Kampf lo sterminio appare come potenzialità, che diventa però possibile col nazismo al potere, e che si traduce in realtà con il conflitto mondiale».

Nell’opera sottolineate molto la collaborazione della collettività data i nazisti.

«Nel saggio di Friedlander appare chiaro come la politica antisemita si fece sterminio grazie anche alla complicità e all’indifferenza connivente della società civile. È una delle acquisizione storiografiche degli ultimi anni».

Allora perché tanta presa di distanza dalle tesi colpevoliste di Godhagen riguardo ai tedeschi?

«Goldhagen ha sollevato un dibattito fecondo e salutare. La storiografia funzionalista tendeva ad appiattire ogni colpa. Goldhagen con un colpo di mazza ha detto che il genocidio era un progetto nazionale germanico. La sua tesi sui tedeschi aveva una chiave quasi etnica inaccettabile, ma il problema posto è stato enorme e la storiografia poi ci ha detto, ad esempio, che sul fronte orientale l’esercito, la Wermacht, erano profondamente implicati nello sterminio: milioni di soldati che scrivevano alle famiglie, mandavano fotografie, tornavano a casa in licenza e raccontavano: i civili sapevano».

Una delega totale al leader, o una sostanziale accettazione dello sterminio?

«È un andamento graduale, progressivo, a un regime che dispiega in modo sempre più evidente la sua violenza criminale. Il test della Notte dei Cristalli nel ’38 dimostrò che si poteva andare avanti, e durante la guerra divenne ancora più chiaro: si poteva andare avanti».

Fu un fenomeno tedesco o europeo?

«Il nazismo è un prodotto di una crisi europea. Il suo antisemitismo è peculiare, ma la radice è europea. Il fascismo è un dato europeo, come il nazionalismo, il colonialismo, l’anticomunismo. E va detto chiaramente che per mettere in atto la politica di deportazione negli altri paesi, ad esempio in Italia, si dovettero mobilitare poliziotti italiani, apparati politici, amministrativi, collaborazione di uomini e mezzi. Non solo: la cultura politica della Resistenza non aveva chiarezza su cosa rappresentasse l’antisemitismo e non si mobilitò contro di esso: hanno sabotato ponti e caserme, ma non i convogli che andavano ai lager. Il fatto è che la storia del movimento operaio, la sinistra, ha conosciuto contaminazioni con l’antisemitismo. È un dato sul quale bisognerebbe anche riflettere».

Sottovalutazione dell’antisemitismo. Gli storici dopo il ’45 si sono tenuti lontano dalla Shoah.

«Per ben 25/30 anni. In Italia fino alla fine degli anni ’70 si trovavano solo due opere storiche di rilievo, quelle di Reitlinger e di Poliakov. Hilberg uscì in America nel ’60: in Italia a metà degli anni ’90!».

E a cosa corrispondeva quel silenzio?

«Alla lunga fase di oblio che segue un trauma. Un oblio poi seguito dal ritorno del rimosso, il cui inizio daterei col processo Eichmann, nel ’61, il primo processo alla Shoah e non al nazismo. Da lì è iniziata la lenta ricostruzione di una memoria collettiva».

Eppure assistiamo a una nuova enorme ondata di antisemitismo.

«Sono d’accordo, l’antisemitismo non passa, è iscritto nel codice genetico dell’Europa, e usa vecchi stereotipi adattandoli a contesti nuovi. Ma l’antisemitismo del mondo occidentale di oggi non è paragonabile a quello anteguerra».

Le prediche nelle moschee, gli slogan di certe manifestazioni grondano violenza e sogni eradicatori. Anche in Europa.

«Negli anni Trenta l’antisemitismo era pane quotidiano, e i premi letterari andavano agli intellettuali che ne facevano il cuore della loro opera. Non era solo legittimo, in molti paesi era il tratto distintivo della rispettabilità borghese. Oggi è patrimonio comune l’orrore per il genocidio».

Eppure…

«Non c’è dubbio che l’antisemitismo islamista è pericoloso e interferisce con quello europeo. È un problema grave sotto gli occhi di tutti. Ma gli ebrei non sono più una minoranza fragile e indifesa».

Se l’Iran avesse già l’atomica… Ma via questo discorso ci porterebbe lontano. Torniamo alla Shoah. Cosa resta da indagare?

«Un cantiere prezioso che sta nascendo è quello in cui si intrecciano storiografia dell’Olocausto e dei colonialismi».

Cosa vuol dire?

«Che la Shoah si iscrive in una politica di conquista ad Est del cosiddetto “spazio vitale” (Lebensraum) per la nazione tedesca e la razza ariana, una politica concepita secondo gli schemi culturali, politici, geopolitici, economici del colonialismo europeo classico. Isabel Hull, ad esempio, analizza il genocidio degli herero nell’Africa sudoccidentale tedesca del 1904: si tratta di uno sterminio che trascende la logica di una violenza strumentale, che disumanizza il nemico (ridotto a Untermenschentum) e lo annienta: per ideologia e linguaggio, costituisce un modello poi usato dai nazisti».

È un tassello del mosaico, perché la distruzione degli ebrei era un obiettivo a sé.

«Assolutamente sì, un obiettivo che viene perseguito contro ogni considerazione di tipo militare o economico. La ricerca lo dice: per sterminare gli ebrei ci vollero mezzi e uomini sottratti allo sforza bellico».

Ultima domanda. Ci fu o no ci fu l’ordine di Hitler per la soluzione finale?

«Il suo ruolo fu decisivo e indispensabile, ma un bel saggio di Kershaw ci spiega che la mancanza di quell’ordine si iscrive nel funzionamento del nazismo, un regime “carismatico”, che progressivamente, dal ’33, si emancipa da ogni convenzione giuridico legale delineando un processo decisionale che non ha bisogno di disposizioni scritte. Non esistono tracce di un ordine formale di Hitler, ma la Shoah è in un certo senso annunziata dalla “profezia” sull’annientamento degli Ebrei pronunciata da Hitler nel gennaio ’39, poi ripetuta nel ’41. Quella profezia indicava il legame indelebile nella sua mente tra la guerre e la vendetta contro gli ebrei accusati di “aver causato” la sconfitta tedesca del 1918. In questa “profezia” prendono corpo le direttive agli attivisti ai vari livelli, uomini abili nel capire come “lavorare per il Führer”».

Da la Repubblica, 14 novembre 2005, per gentile concessione

sommario