DIARIO di Repubblica

 LA RESA  

Berlino l'altra faccia della liberazione - 8 maggio 1945: la capitolazione tedesca

Il dono della libertà che non sappiamo usare

La critica dello scrittore a sessant’anni di storia tedesca

di Günter Grass

In tutte e quattro le zone d’occupazione  il crescente afflusso di oltre dodici milioni di tedeschi che erano fuggiti o erano stati espulsi dalla Prussia orientale e occidentale, dalla Pomerania, dalla Slesia, dal territorio dei Sudeti, poteva essere regolato solo con l’internamento forzato in ambienti angusti. Ogni volta che viene posta ossessivamente — e sempre secondo le esigenze di qualche partito politico — la domanda: «Di che cosa dobbiamo essere fieri noi tedeschi?», dovrebbe essere citata per prima cosa questa operazione dettata dalla necessità. La libertà era quasi impossibile, bisognava usare la costrizione. In entrambi gli Stati tedeschi furono evitati campi di concentramento permanenti per profughi e sfollati. Così fu arginato il pericolo di un crescente sentimento di odio e anche di quella voglia di vendetta da cui si è contagiati nella vita del lager e che — come mostra il presente — ha come conseguenza terrorismo e antiterrorismo, Certo, era una operazione molto particolare. Difatti le misure forzate riguardo ai profughi dovettero essere attuate molto spesso vincendo la resistenza della popolazione  locale ostile agli stranieri; la consapevolezza che tutti i tedeschi, e non solo quelli le cui case erano state bombardate, avevano perso la guerra, affiorava pian piano, esitante; quel comportamento fino ad oggi virulento contro gli stranieri veniva esercitato già allora nel rapporto tra tedeschi e tedeschi. Già allora non mancavano i portavoce della retorica della Liberazione. Si presentavano singolarmente o in gruppo. Erano tanti coloro che si autodefinivano antifascisti e improvvisamente facevano il bello e cattivo tempo al punto che era lecito domandarsi: Come diavolo ha fatto Hitler ad imporsi contro una resistenza così forte? Tante coscienze sporche furono lavate per direttissima, furono rilasciati i cosiddetti Persilscheine, i certificati di denazificazione. Dall’officina di falsari tardivamente attivi furono coniate parole che vennero messe subito in circolazione. La capitolazione senza condizioni si trasformò in “collasso” Anche se in tutti i campi, dall’economia alla giustizia, alle scuole, alle università che presto ripresero l’attività didattica e perfino nella diplomazia — e dove altro ancora? — , molti ex nazisti mantenevano le proprietà ereditate, restavano in servizio nelle istituzioni pubbliche, mantenevano la loro cattedra e continuavano poi la loro carriera in politica, fu annunziata “l’ora zero”. Una falsificazione particolarmente infame si trova anche oggigiorno nei discorsi e nei comunicati ufficiali ogni volta che i crimini commessi dai tedeschi vengono definiti con una perifrasi, ossia «crimini commessi in nome del popolo tedesco». Inoltre la successiva spartizione di ciò che restava del Paese si annunciò in due modi differenti: nella zona occupata dai sovietici si disse che era stata l’Armata Rossa, sola e unica, a liberare la Germania dal terrore nazista; nelle zone occupate dagli occidentali si diede esclusivamente agli americani, agli inglesi e ai francesi il merito di aver liberato non solo la Germania, ma l’Europa intera dalla tirannia nazista. Durante la Guerra Fredda, che iniziò ben presto, i due Stati tedeschi nati nel 1949 spettarono logicamente all’una e all’altra Potenza nel senso che i governi delle due formazioni statali cercarono di mostrarsi allievi modello di ciascuna delle Potenze dominanti. Quarant’anni più tardi è stata paradossalmente l’Unione Sovietica a sbarazzarsi, ai tempi della glasnost, della Repubblica democratica tedesca che le stava diventando molesta. La quasi incondizionata ubbidienza della Repubblica federale agli Usa fu rotta per la prima volta allorché il governo rosso-verde si decise a far uso della libertà che ci era stata donata sessant’anni fa, rifiutando la partecipazione di soldati tedeschi alla guerra in Iraq. “Libertà regalata” è il titolo di un discorso da me tenuto l’8 maggio 1985 all’Accademia delle Arti di Berlino. Allora il Paese era ancora diviso, e dunque misi a confronto i due Stati, la loro esigenza di determinazione, le loro differenti dipendenze, il loro materialismo dogmatico, la loro paura della riunificazione e la loro nostalgia dopo la riunificazione. “La libertà regalata” investì solo la Germania occidentale, quella orientale restò a bocca asciutta. Vent’anni dopo, di fronte alle condizioni della Repubblica federale diventata più grande con l’annessione,  vanno poste delle domande sull’uso di questo regalo. Abbiamo maneggiato scrupolosamente la libertà che non è stata da noi conquistata ma che ci è toccata in sorte? I cittadini della Germania occidentale hanno provveduto a riequilibrare in giusta misura le condizioni dei cittadini della ex Repubblica democratica tedesca che avevano dovuto sopportare il peso maggiore dei danni di guerra, di una guerra iniziata e perduta da tutti i tedeschi? E ancora: la nostra democrazia parlamentare è ancora abbastanza sovrana quale garante dell’azione liberale tanto da essere capace di agire di fronte ai problemi esistenti nel ventunesimo secolo? Quindici anni dopo la firma del contratto di unificazione bisogna riconoscere e non più tacere o sviolinare che per noi l’unità della Germania, nonostante le fruttuose operazioni finanziarie, fondamentalmente è riuscita male. E ciò sin dall’inizio. Un calcolo meschino impedì al governo di allora di seguire un invito fissato a titolo precauzionale dalla legge, ossia quello di sottoporre ai cittadini dei due Stati una nuova Costituzione, elaborata con l’impegno di tutti i tedeschi. E dunque non ci si può meravigliare del fatto che le persone dei Länder semplicemente annessi si vedano come tedeschi di seconda categoria. Per quanto concerne la proprietà di luoghi di produzione, di rifornimenti di energia, di giornali e di case editrici, questa sostanza un tempo “nazionalizzata” dello Stato scomparso è stata liquidata con l’opera occasionalmente criminale della Treuhand (L’ente per la privatizzazione delle industrie della ex Rdt, ndt.) e infine espropriata. La percentuale dei disoccupati è il doppio rispetto a quella dei Länder occidentali. L’arroganza dei tedeschi dell’ovest non ha permesso che ci fosse rispetto per le biografie dei tedeschi dell’est. Il già da tempo temuto esodo della popolazione - per questo venne introdotto troppo presto il marco occidentale - ha luogo ancor oggi e quotidianamente. Interi territori, paesi e città si svuotano. Dopo che la Treuhand aveva fatto il suo affarone, l’industria tedesca dell’ovest e così pure le banche rifiutarono investimenti necessari, crediti e dunque la creazione di posti di lavoro; si preferisce parlar male del sistema paese tedesco e mettere in salvo il proprio gruzzoletto all’estero. Qui non servono discorsi alla carlona. Di fronte a questa situazione distorta non può essere d’aiuto che il legislatore, il Parlamento. Perciò si pone di nuovo il problema della capacità d’agire della democrazia parlamentare. Ora io affermo che i nostri deputati liberamente eletti non sono più liberi nelle loro decisioni. Qui non è decisiva la solita disciplina di partito per la quale ci possono essere delle ragioni, ma piuttosto si tratta della cerchia di lobbisti dagli svariati interessi che stringe in una morsa il Parlamento e i suoi deputati legittimati democraticamente, che li influenza, li pone sotto pressione e che ha estorto il diritto ad avere voce in capitolo perfino nella formazione e nei testi delle leggi. Piccoli e grandi favori aiutano la baracca. Intrallazzi punibili penalmente vengono liquidati come piccole trasgressioni. Nessuno più si scandalizza seriamente di fronte ad un sistema che nel frattempo si è perfezionato e la cui prassi si nutre di vicendevoli favoreggiamenti. Quindi il Parlamento non decide liberamente. È dipendente dai potenti gruppi finanziari, dalle banche, dalle lobby, che non sottostanno ad alcun controllo democratico. E così il legislatore diventa uno zimbello. E così il Parlamento diventa una filiale della Borsa. E così la democrazia si sottomette al diktat del capitale globale Chi si meraviglia se un numero sempre crescente di cittadini indignati, disgustati e infine rassegnati, voltano le spalle agli intrallazzi commessi alla luce del giorno, se considerano le elezioni una pura farsa e rinunciano al loro diritto di voto? Sarebbe necessaria la volontà democratica di proteggere il Parlamento  dall’assalto dei lobbisti creando una zona di protezione. Ma i nostri parlamentari sono ancora liberi di prendere una decisione che dovrebbe esercitare una costrizione radicaldemocratica? Di nuovo si pone l’interrogativo: che cosa ne è della libertà che ci è stata regalata sessant’anni fa, conta ancora solo come guadagno in Borsa? Il nostro supremo bene costituzionale non dà la priorità ai diritti civili, ma piuttosto è stato svenduto sottocosto mettendosi al servizio, secondo lo spirito del tempo neoliberale, soprattutto all’economia di mercato che si definisce “libera”. Ma questo falso concetto diventato un feticcio copre solo a stento il comportamento asociale delle banche, dei gruppi industriali e degli speculatori di Borsa. Noi tutti siamo testimoni di come il capitale mondiale viene distrutto, di come le cosiddette acquisizioni ostili e amichevoli polverizzano migliaia posti di lavoro, di come il semplice annuncio di misure di razionalizzazione come il licenziamento di lavoratori e impiegati fa salire le quotazioni in Borsa e questo di riflesso viene considerato come prezzo crescente per «la vita in libertà». Le conseguenze di questa evoluzione mascherata da globalizzazione, vengono chiaramente alla luce, basta leggere le statistiche. Con il numero costantemente alto di disoccupati che ora ammonta a cinque milioni, e con l’altrettanto costante rifiuto degli imprenditori di creare nuovi posti di lavoro nonostante gli alti profitti, specie nel campo delle esportazioni, la speranza di un’occupazione a tempo pieno si è volatilizzata. Lavoratori di una certa età che sarebbero ancora efficienti, vanno in pensione anticipata. Ai giovani viene impedito l’ingresso qualificato nella vita lavorativa. E peggio ancora: nella contemporanea lamentela generale sull’invecchiamento incombente e fra esortazioni  ripetute a pappagallo a fare di più per i giovani e per la cultura, la  Repubblica federale - paese pur sempre ricco - si permette una crescita di dimensioni vergognose, chiamata “povertà infantile”. Tutto  ciò viene nel frattempo incassato come fosse la volontà di Dio e comunque accompagnato dai tradizionali mugugni. Interrogativi sulle responsabilità vanno a finire difilato in un binario morto. Ma il futuro di più di un milione di bambini che crescono in famiglie indigenti continua a rimanere fosco. Chi richiama l’attenzione su questo malcostume e su coloro che vengono messi ai margini della società, viene schernito da solerti giovani giornalisti nel migliore dei casi come “romantico sociale”; generalmente viene diffamato come “buon uomo”. Interrogativi sulle ragioni del crescente divario fra ricchi e poveri vengono liquidati come “dibattiti sull’invidia”. L’esigenza di giustizia viene derisa come utopia. Il concetto di “solidarietà” si trova solo nell’elenco  delle “parole straniere”. Da una parte i capitalisti alla Ackermann (della Deutsche Bank, ndt.) e alla Esser (ex amministratore delegato della Mannesmann, ndt) - dall’altra i senza nome ai quali viene offerto rifugio in un piatto di minestra. Da una parte i coolen altostipendiati, dall’altra i casi sociali rilevati statisticamente. Con tutte le promesse di una auspicabile società civile, si forma nella Repubblica federale di Germania la società classista che si credeva da tempo superata. Non è più supposizione, è certezza che ciò che viene spacciato per neo liberale si mostra, a ben vedere, come regresso alla prassi disumana del vecchio capitalismo. E l’economia sociale di mercato - un tempo modello di successo della attività economica e solidale - è degenerata a economia di libero  mercato alla quale pesano gli obblighi sociali della proprietà e per la quale l’aspirazione ai profitti è sacrosanta. Quando sessant’anni fa ci è stata regalata la libertà, gli sconfitti all’inizio non sapevano come sarebbe andata e fecero via via uso di questo regalo. Impararono la democrazia e in questo si mostrarono - visto che erano irrimediabilmente tedeschi – allievi modello. Visto con gli occhi di oggi appare ciò su cui si è sgobbato dopo le lezioni impartite, per arrivare almeno a una pagella soddisfacente. Ci siamo esercitati nel gioco fra governo e opposizione in cui periodi di governo troppo lunghi sono risultati alla fine periodi di vacche magre. La famosa e famigerata generazione dei sessanttottini insegnò la tolleranza ad altri e infine a se stessa. Abbiamo dovuto riconoscere che ciò che ci pesa non è da respingere, respingere, va dai genitori ai figli e sempre ci viene recuperato di nuovo come passato tedesco, per quanto viaggiamo e esportiamo. Ripetutamente i neonazi ci hanno screditato. Eppure si potrebbe pensare che la democrazia qui da noi si è rinsaldata, Doveva tener testa a tre sfide, la quarta è incombente. Dopo che nei due Stati tedeschi le macerie furono rimosse, la ricostruzione nell’est si svolse con le regole del sistema stalinista; nello Stato occidentale invece si svolse in condizioni favorevoli. Ciò che a posteriori viene definito “miracolo economico” non si doveva però all’opera di pochi ma di molti. Tra questi c’erano anche i profughi che, per quanto riguardava i loro beni materiali, dovevano iniziare praticamente da zero. E non va dimenticata la partecipazione dei lavoratori stranieri che inizialmente furono chiamati cortesemente Gastarbeiter, lavoratori ospiti. Gli imprenditori della fase di ricostruzione investirono in modo esemplare ogni marco fatturato come utile in nuovi posti di lavoro. I sindacati e gli imprenditori avevano ben presente il crollo della Repubblica di Weimar e dunque si costrinsero a fare compromessi l’un l’altro e provvidero alla parità sociale. Su tanta faticaccia e avidità di guadagno incombeva il pericolo di dimenticare il passato. Solo negli anni Sessanta vennero poste prima da scrittori, poi da un movimento giovanile che si chiamò “Protesta studentesca”, delle domande su tutto ciò che i più anziani, quelli della generazione della guerra, volevano passare sotto silenzio. Il movimento di protesta aspirava verbalmente alla rivoluzione, ma poi si rassegnò a riforme per le quali aveva preparato il clima, anche senza volere; senza questo movimento sentiremmo ancora oggi il tanfo dell’era di Adenauer, senza di esso la nuova politica della Germania della coalizione social-liberale come avvicinamento fra i due Stati, non sarebbe stata realizzabile. La terza sfida si creò quando cadde il Muro e la divisione dell’Europa fu eliminata, almeno da un punto di vista politico. Per quattro decenni sono esistiti i due Stati tedeschi che più che vicini uno all’altro, erano uno contro l’altro. Dato che da parte occidentale mancava la disponibilità di accordare l’equiparazione dei diritti alla parte orientale, l’unità del Paese è finora solo sulla carta, una carta che fu negoziata troppo in fretta senza comprensione per le vaste conseguenze di questa fretta. Da allora il paese diventato grande, ristagna. Né al governo Kohl, né a quello Schröder è riuscito di appianare gli errori commessi sin dall’inizio. Tardi, forse troppo tardi riconosciamo che non sono i radicali di destra a minacciare lo Stato né sono questi da considerare il pericolo numero uno - come vogliono farci credere i fissati della repressione - ma è piuttosto l’impotenza della politica in conseguenza della quale i cittadini si vedono indifesi di fronte al diktat dell’economia. Sempre più spesso lavoratori e impiegati vengono ricattati dai grandi gruppi industriali. Non il Parlamento ma l’industria farmaceutica e le associazioni di medici e di farmacisti che da essa dipendono, decidono a chi deve essere utile e redditizia la riforma della salute. Al posto della previdenza sociale della proprietà risulta come valore fondamentale la massimizzazione del profitto. I parlamentari liberamente eletti si piegano alla pressione interna e globale dei grandi capitali. In questo modo si porta alla rovina non lo Stato — che ha grande resistenza — ma la democrazia. Quando sessant’anni fa il Regno della Grande Germania capitolò senza condizioni, fu distrutto con esso un sistema di potere e di terrore che aveva sparso orrore per l’Europa per soli dodici anni, ma che getta un’ombra cupa sino ad oggi. Noi tedeschi abbiamo sempre continuato ad affrontare questa vergogna che ci è stata tramandata e quando eravamo titubanti abbiamo dovuto farlo. Da una generazione all’altra è stato tenuto vivo il ricordo del dolore che abbiamo procurato agli altri e a noi. Spesso ci siamo costretti a tenerlo vivo. A paragone di altri popoli che vivono con una vergogna di cui si sono resi colpevoli in altro modo - parlo di Giappone, Turchia, delle ex potenze coloniali - noi non ci siamo scrollati di dosso il peso del nostro passato. Quale sfida permanente il nostro passato rimarrà parte della nostra storia. È solo da sperare che abbiamo superato ormai il pericolo di un nuovo totalitarismo Come democratici consapevoli dovremmo assolutamente resistere al potere del capitale per il quale l’uomo è solo materiale che produce e che consuma. Chi considera la libertà regalata alla stregua di un guadagno in Borsa non ha capito ciò che anno dopo anno l’8 maggio ci insegna.

(Traduzione di Paola Sorge)


Sillabario - La resa

di Winston Churchill

Entrammo ad Amburgo senza trovare opposizione e la guarnigione si arrese incondizionatamente. Una delegazione tedesca si presentò al Comando di Montgomery nella Brughiera di Lüneburg. Era capeggiata dall’ammiraglio Friedeburg, emissario di Doenitz. Friedeburg si recò al Comando di Eisenhower a Reims, dove lo raggiunse il generale Jodl il 6 maggio. Essi giocarono sul tempo per consentire al massimo numero possibile di soldati e profughi di sganciarsi dai russi e venire incontro agli Alleati occidentali, e tentarono di combinare una resa separata del fronte occidentale. Eisenhower impose un limite di tempo e insistette per una capitolazione generale. Lo strumento di resa totale e incondizionata fu firmato dal generale Jodl, con ufficiali francesi e russi come testimoni, alle 2,41 del mattino del 7 maggio. Con ciò tutte le ostilità cessarono a mezzanotte dell’8 maggio. La ratifica formale dell’Alto Comando tedesco ebbe luogo a Berlino, in base a disposizioni russe, nelle prime ore del 9 maggio. Il maresciallo capo dell’Aria Tedder firmò per conto di Eisenhower, il maresciallo Zukov per i russi e il feldmaresciallo Keitel per la Germania.


La mia infanzia rubata da Hitler

Intervista alla scrittrice Helga Schneider

di Simonetta Fiori

«Finora non se n’è parlato molto, ma a sessant’anni dalla resa della Germania è arrivato il momento di farlo. Ci sono tedeschi che sono state vittime due volte: prima del nazismo, poi del bestiale odio antitedesco seminato dalla ferocia del Führer. Milioni di uomini e donne selvaggiamente perseguitati, subito dopo la guerra, solo perché cittadini del Reich. In Polonia come in Cecoslovacchia. In Ungheria come in Romania. Una diaspora su cui a lungo s’è preferito sorvolare. Non così oggi, nella nuova Europa allargata, dove è necessario che le memorie trovino pace». Modi energici e scrittura elegante, Helga Schneider non arretra dinanzi ai temi più spinosi. Nell’estesa autobiografia famigliare, pubblicata in più volumi da Adelphi, ha sciolto in uno stile nitido quel groviglio ancora irrisolto prodotto nella Mitteleuropa dalla follia di Hitler (le memorie divise cui faceva riferimento Guido Crainz in un articolo di  Repubblica del 9 aprile). Un’infanzia “rubata” dal nazismo: a quattro anni, nel 1941, l’abbandono della madre, che le preferisce le SS e la guardianìa di Birchenau  (vicenda narrata ne Il Rogo di Berlino e in  Lasciami andare, madre, ora anche sulla scena teatrale per la regia di Lina Wertmüller). Nel dopoguerra, l’altra epopea finora sottaciuta: i nonni paterni cacciati dalla Polonia insieme a una moltitudine di contadini tedeschi. E, ancora, i cugini reduci dall’inferno della Prussia e del confine orientale, dove negli ultimi mesi del conflitto milioni di persone erano state travolte dall’Armata rossa: tutte storie evocate nel recente L’usignolo dei Linke.

Una memoria che ancora divide, accolta con qualche imbarazzo.

«È difficile affrontare temi del genere. Il rischio è passare da vittimista, come sento dire oggi in Germania. Quando i sopravvissuti hanno tentato timidi approcci, la generazione del Sessantotto è stata implacabile: ma che volete? Il peccato originale è sempre nostro, dei tedeschi complici del Führer».

In Polonia la fuga dei tedeschi cominciò appena finita la guerra, nel maggio del 1945.

«Sin dal principio le autorità polacche avviarono una sistematica campagna d’odio contro le minoranze tedesche. “I tedeschi se ne devono andare!”: era scritto a calce su tutti i muri. Ai polacchi era proibito stringere in pubblico la mano a un tedesco. Alla radio la nostra musica era vietata. Tutte le attività sabotate, le insegne distrutte. Nei locali non era permesso servire la birra tedesca. E Gomulka, il leader del partito comunista, si preoccupò di elaborare dei piani di deportazione».

La sua famiglia ne rimase travolta.

«Le biografie dei miei nonni paterni, Ernst e Maria, restituiscono la doppia tragedia d’un popolo. Ceco lui, boema lei, erano in Austria quando il Führer l’annesse con l’Anchluss. Mio padre, un artista estraneo alle armi, fu costretto a combattere per il Reich. Dopo diverse vicissitudini, i nonni riuscirono a conquistarsi in Polonia un podere di proprietà. Ma il sogno durò poco: nel maggio del 1945 furono costretti ad andarsene».

Dopo aver assistito a gesti di inaudita efferatezza.

«Donne violentate sulle pubbliche piazze, davanti a centinaia di uomini urlanti. Bambini strappati alle madri, al grido di “piccolo bastardo nazista”. Alle farmacie fu ordinato di distribuire gratuitamente ai tedeschi capsule di cianuro: ne seguì un’ondata di suicidi, a volte intere famiglie».

Una sorta di vendetta collettiva.

«Sì, così. Himmler voleva cancellare la Polonia dalla carta geografica, ridurne gli abitanti a “subumani”. Un tragico “occhio per occhio, dente per dente”».

Lei aveva 11 anni quando ritrovò i nonni in Austria. Le raccontarono le persecuzioni?

«Qualcosa, non tutto. Ma provvide mio cugino Kurt, reduce con la madre dalla Prussia, a narrarmi le atrocità di cui era stato vittima negli ultimi mesi della guerra. Una diaspora che aveva coinvolto complessivamente sedici milioni di persone, in fuga dalla Prussia Orientale, da Danzica, dal Memelland, dai Sudeti, dalla Slesia, dalla Pomerania e da altre regioni in cui vivevano da molte generazioni. Mio cugino mi raccontò di donne stuprate, contadini inchiodati a croce sulle porte di casa, bambini schiantati dal freddo e dalla fame, cadaveri abbandonati sul ciglio della strada».

Erano tutti tedeschi incolpevoli, a cui veniva addossata la responsabilità del nazismo.

«Sì, un destino paradossale, ma non incomprensibile. Nella loro avanzata verso Occidente i soldati russi avevano visto città e villaggi distrutti e le fosse comuni di russi uccisi da tedeschi. Per anni gli era stato inculcato l’odio per tutto quanto fosse tedesco. D’altra parte anch’io, bambina a Berlino, ero persuasa che i sovietici fossero degli untermenschen, per metà uomini e per metà lupi: così m’era stato raccontato».

Lei era a Berlino quando arrivò l’Armata Rossa?

«Sì, avevo otto anni. Al termine dell’assedio ricordo solo il silenzio, ancora più inquietante dei bombardamenti alleati. Non riuscivo a dormire per la troppa quiete. Le trümmer frauen al lavoro: spostavano i cadaveri e i calcinacci. E il trillio dei telefoni sotto le macerie dei palazzi: un’impressione sinistra».

Dei soldati russi cosa ricorda?

«Una memoria in due tempi. Prima l’orrore: al chiuso d’una cantina assistetti allo stupro di due ragazzine. Mia cugina fu costretta a vedere la propria mamma violentata. Qualche anno dopo assisterà anche al suo suicidio, mia zia Margarethe non aveva retto a quella umiliazione. Più tardi il rapporto con i sovietici sarebbe migliorato».

Lei è una delle ultime testimoni oculari del bunker di Hitler. Come era finita là dentro?

«La sorella della mia matrigna, che lavorava nel Propagandbüro di Goebbels, era riuscita a inserirmi nei gruppi dei piccoli visitatori. Saranno stati i primi mesi del 1945. A Hitler servivano foto propagandistiche con i bambini, a noi in cambio era assicurato cibo in gran quantità. Di quella visita ricordo il viaggio attraverso Berlino devastata. Dalle fogne bucate proveniva una puzza devastante. E poi il Führer: vecchio, il passo strascicato, un lieve tremolio al capo: e questo sarebbe l’uomo che ha fatto delirare le folle?».

Cosa la colpì in particolare?

«Un dettaglio che oggi potrà apparire grottesco. La lampada a quarzo: prima dell’incontro con Hitler, tutti i bambini furono sottoposti a mezz’ora di lampada. Il Führer voleva intorno a sé soltanto facce colorite, mentre Berlino era a un passo dalla disfatta»

Da la Repubblica, 6 maggio 2005, per gentile concessione

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