DIARIO di Repubblica

 HITLER 

Un suicidio per sottrarsi alla storia 

Sessant'anni fa la caduta del dittatore - Si tolse la vita il 30 aprile 1945. Ed esce il discusso film sugli ultimi giorni del Führer. Quella morte voluta fu anche un gesto coerente con le sue tesi aberranti

di Joachim Fest

Sono trascorsi sessant’anni dal suicidio di Adolf Hitler nel Bunker della Cancelleria, a Berlino ridotta in macerie e già in mano all’Armata rossa. Sessant’anni ci separano da quel tetro Banchetto della Morte che culminò col suicidio del tiranno. Sessant’anni da quell’orgia della volontà di distruzione sono un anniversario tondo, tempo di riconsiderazioni, di ricordi e di bilanci. Rivisto oggi, con gli occhi della Memoria dell’Europa, il suicidio di Hitler potrebbe apparire una fuga dalle sue tremende responsabilità, una fuga dal presente e dal giudizio dei contemporanei, dalla Storia e dal futuro. Ma non fu così. Assolutamente no. Quando in quel fatidico 30 aprile, mentre pochi sopra il Bunker i carri armati di Zhukov e le truppe scelte di Koniev avevano in pugno Berlino, Hitler decise di togliersi la vita, non fu mosso da coscienze di colpa, né temeva il giudizio del mondo. Hitler si suicidò, nel Bunker affollato di gerarchi e di profughi, in un gesto estremo di coerenza col suo darwinismo sociale, con la sua Weltanschauung e la sua filosofia della Storia. Si suicidò perché si vide sconfitto con tutta la Germania, si sentì condannato al destino dei deboli, dei popoli inferiori, delle razze inferiori. È quasi come se, togliendosi la vita insieme alla sua Eva, egli avesse riletto e riscritto le pagine del Mein Kampf. La Storia, egli scrisse, è fatta dai popoli forti e vincitori. I deboli, i perdenti, non hanno diritto alla vita né alla compassione o alla pietà. I deboli vanno sradicati, devono sparire dal mondo. Una filosofia spietata, le cui conseguenze egli non volle risparmiare a se stesso e al suo popolo. L’idea del suicidio non gli venne in quelle ultime ore nel Bunker. Anni dopo, illustri sopravvissuti come Albert Speer me lo confidarono, quando li consultai per redigere i miei libri: Hitler fu sempre un candidato al suicidio per eccellenza. Più volte aveva minacciato il suicidio. Nel novembre 1932, poco prima della vittoria elettorale che lo portò al potere, disse «o il Partito mi segue come un uomo solo, o mi ucciderò». Accettava solo il suo trionfo personale e il trionfo della Germania come unica potenza mondiale, o il suo suicidio e la catastrofe assoluta del paese. Si respirava un’atmosfera cupa, sinistra, e anche paradossale, nel Bunker. Eppure non fu quella la spinta determinante nell’indurlo a togliersi la vita. «Era chiaro a noi tutti da anni prima», mi disse poi Speer, «dai lunghi consulti al Quartier generale, che il Führer accettava solo il trionfo o il suicidio». Hitler era un grande attore, un maestro nell’inscenare se stesso e la sua vita, e al tempo stesso prese estremamente sul serio la sua parte. Dai congressi del partito nazista con la loro scenografia trionfale, fino alla conferenza di Monaco, egli seppe sempre mettere in scena la sua vita. Sapeva che era una messa in scena: proprio a Monaco, nel ’38, si abbandonò a uno sfogo con i suoi intimi. Maledisse l’accordo con Londra e Parigi che sacrificando la Cecoslovacchia aveva allontanato la guerra. «Chamberlain  e Daladier mi hanno guasta la festa della guerra», disse. Con la stessa freddezza confessò nel Bunker che non se la sentiva di piangere una sola lacrima sulla sorte del popolo tedesco: si era mostrato debole e inferiore, meritava l’annientamento. L’Hitler degli ultimi giorno era anziano, indebolito, logorato dalla malattia. A volte si trascinava quasi barcollando nei corridoi del Bunker. Il 22 aprile, ebbe uno dei suoi scatti d’ira più terribili. I tentativi dei suoi fedelissimi, guidati dalla Obergruppenfüher delle Ss Felix Steiner, di lanciare contrattacchi per disimpegnare il fronte attorno a Berlino, erano miseramente falliti. Koniev e Zhukov, «il fioretto e la spada di Stalin», si contendevano la presa della capitale del Reich come due rivali a caccia di successo. Da Neukölln alle ville di Zehlendorf, da Tempelhof a Gatow, il fronte cedeva strada per strada ai russi. Invano reparti Ss, e gruppi di anziani e bambini del Volkssturm, si ostinavano in una resistenza ostinata. «È finita, non mi resta che togliermi la vita», disse in preda alla collera. Poi ritrovò la sua calma fredda e spietata, che non lo lasciò mai più in quell’ultima settimana di vita. «Ma non mi lascerò catturare e condurre sbeffeggiato in pubblico come un nemico prigioniero e umiliato, non mi lascerò trascinare alla berlina per le vie di Mosca in una gabbia da scimmie», disse. Ecco: questo sì era il suo grande, unico timore in quelle ore. Le notizie venute dall’Italia, Mussolini fucilato e poi appeso per i piedi al pubblico ludibrio in Piazzale Loreto, lo avevano profondamente scosso. Gli avevano fatto provare qualcosa come paura. Non certo senso di colpevolezza. Nei suoi ultimi decreti – quando, dopo un altro scatto d’ira furibonda, ordinò a Bormann e a Goebbels di esautorare e far arrestare gli incapaci, infedeli Göring e Himmler – protestò la sua assoluta innocenza davanti alla Storia.  Se la prese con gli statisti di tutto il mondo, ebrei o servi degli ebrei e della plutocrazia anglosassone. Gli ebrei e i plutocrati anglosassoni per lui erano il Male, non la terribile guerra da lui scatenata. Giunse a ordinare misure di distruzione del Reich, di lasciare al nemico la Zivilisationswüste, la desertificazione della Civiltà. Il mondo della sua sconfitta non valeva la pena di essere vissuto. Così pensava Hitler, così pensavano Joseph e Magda Goebbels, che nel Bunker uccisero col veleno i loro sei bimbi prima di togliersi la vita. Così ragionavano, a Berlino investita dalla furia vendicatrice dell’Armata rossa, migliaia di tranquilli borghesi. Un noto medico comprò veleno per sé, la moglie e i figli. Ma perse tutte le fiale tranne due. Allora con la moglie annegò uno dopo l’altro i tre figli, che invano - avevano 6, 4 e 3 anni - si dibatterono disperati nella vasca da bagno implorando mamma e papà di risparmiarli. Poi insieme alla consorte scrisse una lettera d’addio e bevve il veleno. Così era anche il clima nel Bunker, in cui pure tutti i gerarchi gli giuravano fedeltà eterna e si comportavano come persone che avevano ancora anni di vita davanti. Eppure sapevano che era questione di giorni. Il delirio d’agonia fu incarnato da Goebbels, che seppe convincerlo a restare fino all’ultimo a Berlino, a non fuggire in Baviera. «Il Führer non può affrontare il nemico nella residenza estiva». Si convinse ostinata a restare al suo fianco anche Eva Braun, che nel Bunker ottenne di sposarlo. Per l’emozione, sbagliò la firma sul certificato di matrimonio. Entusiasti per le nozze del Führer, decine di altre coppie nel sotterraneo si unirono a nozze. Nel Bunker coesistevano tre stati d’animo. Lui era deciso alla fine, i suoi massimi collaboratori a seguirlo. Walter Hebel, Stumpfhegger, Krebs, si tolsero anche loro la vita. Come Bormann e i Goebbels. Ma molti altri, i pesci piccoli, i gerarchi minori, i profughi da est ammassati nel sotterraneo, provavano ancora istinto di sopravvivenza, voglia di continuare a vivere. Hitler dettò le sue ultime volontà di resistenza fanatica e di distruzione, e passò i poteri supremi all’ammiraglio Dönitz. Nominò un’intera nuova leadership, con Goebbels cancelliere e Bormann ministro per il partito. Chiese loro fedeltà fino alla morte. «Io e la mia sposa – furono le ultime righe del testamento – scegliamo la morte, per evitare la vergogna della capitolazione. È nostra volontà essere bruciati subito qui in questo luogo dove ho quasi sempre lavorato nei miei dodici anni al servizio del popolo tedesco». Fanatismo lucido fino all’estremo, disprezzo della compassione e della vita. Così morì lui, ma non quella logica spietata. Quando a ogni telegiornale vedo notizie delle stragi d’innocenti che l’attentatore suicida di turno ha compiuto in un Kindergarten di Tel Aviv, in un discount di Kiryat Shmona, o nel centro di Bagdad o di Kabul, vedo rivivere la sua Weltanschauung. E mi dico che purtroppo l’Illuminismo aveva torto, raccontandoci un genere umano ragionevole e portato per natura al bene.


SILLABARIO  -  HITLER

di Don De Lillo

Hitler si autodefiniva il viandante solitario uscito dal nulla. Succhiava pasticche, rivolgeva alla gente interminabili monologhi, come se il linguaggio venisse da una vastità al di là del mondo e lui fosse il semplice strumento della rivelazione. È interessante chiedersi se, dal führerbunker, sotto la città in fiamme, volgesse lo sguardo indietro, verso i primi giorni del proprio potere. Avrà mai pensato al gruppetti di turisti che visitavano il minuscolo insediamento dov’era nata sua madre e dove lui aveva passato diverse estati con cugini, andando in giro sui carri trainati dai buoi e facendo aquiloni? Vi andavano per rendere onore al posto … Accorrevano folle a sentirlo parlare in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa. Lui parlando chiudeva gli occhi, serrava i pugni, torceva il corpo madido di sudore, faceva della propria voce un’arma elettrizzante: «Assassinii di natura sessuale» furono definiti da qualcuno, questi discorsi.


Per quanto ancora resteremo colpevoli

La cerimonia e il passato che non passa

di Peter Schneider

In un mondo dove la Storia ormai si ricorda solo a ricorrenze decennali, la fine di Hitler è un anniversario tondo che resterà attuale anche tra cinquecento o mille anni. Basta guardare la tv: non passa giorno senza un documentario sul tema. Dieci anni fa, quando ricordammo i 50 anni della fine di guerra, mio figlio aveva sei anni, stava davanti alla tv. E mi chiamò ridendo: «Guarda papà, c'è Charlie Chaplin». Le immagini mostravano Hitler al congresso nazista Norimberga. Risi divertito, provai un momento di confortante ottimismo: pensai che bello, di Hitler resta attuale solo il ridicolo, la satira de Il grande dittatore. Oggi no, oggi non condivido l'ottimismo con cui il cancelliere Schroeder proclama che il dopoguerra è finito. Pur­troppo il nazismo sem­bra un incubo eterno. La Germania non riesce a liberarsene. Mettiamo i paletti: la Germania di oggi è una solida democrazia, più di molti altri paesi. E la solita reazione di allarme a ogni riapparire di gruppetti neonazisti a elezioni locali è fuori di proporzione. La stessa riunificazione, per quanto sul piano economico sia stata condotta malissimo, è una grande prova: ogni anno costa al paese le spese dell'intero Piano Marshall. Eppure, 60 anni dopo Hitler, il passato ci segna ancora nella psicologia collettiva. Segna la Germania nel suo immobilismo, nella sua mancanza di fiducia in se stessa, nella sua mancanza di ottimismo per il futuro. Dal 1945 nessuna decisione importante è stata presa o rifiutata senza ricordare l'Olocausto. Pensate al riarmo tedesco, alla riunificazione - la semplice domanda, se potevamo riunificarci o no - all'intervento armato con la Nato in Bosnia, al grande interrogativo se era legittimo mandare soldati tedeschi a combattere oltre confine. Nessuna decisione chiave della politica tedesca sfugge al grande interrogativo: è lecito o no fare questo, dopo quel passato? Questo condizionamento può portare ad assolutismi errati. È giu­sto dire mai più aggressioni, ma dire mai più guerra e basta può impedirci di mandare soldati a difendere un popolo vittima di aggressioni altrui. Ci sono state cesure, certo. Una delle più grandi fu l'arrivo al potere dei rossoverdi, nel 1998. Un'altra non meno importante la partecipazione alle guerre contro Milosevic, decise non a caso da un governo di sinistra. Poi c'è stata una ricaduta nella logica del pacifismo a oltranza col no alla guerra di Bush in Iraq. lo ero e sono un convinto oppositore di quella guerra, ma mi ha  imbarazzato e mi imbarazza l'assolutismo pacifista, il dire noi siamo i buoni e gli americani i cattivi. In quel sentimento popolare che Schroeder ha sfruttato senza scrupoli per farsi rieleggere c'è un pericoloso umore di rivincita verso i vincitori del 1945. Quasi come se volessimo dire agli americani che pur avendoci portato la democrazia non sono oggi molto diversi dai nostri padri nazisti. Mi chiedo anche fino a che punto i nostri vicini ci lascino uscire dall' ombra del nazismo. Ogni tedesco, nato nel dopoguerra, deve giustificarsi, difendersi, scusarsi per un passato di cui non è colpevole. Ciò porta i giovani a una riluttanza da esasperazione a sentir parlare sempre della guerra e dell'Olocau­sto. Le scuole hanno fallito: gli ex sessantottini, oggi maestri e professori; tramandano solo la memoria dell'orrore, tacciono su ogni possibile esempio positivo, tacciono sui pochi coraggiosi che rischiando la vita salvavano gli ebrei. Cancellano la memoria del rifiuto possibile della tirannide. D'altra parte, è inaccettabile che giovani olandesi salutino col braccio teso qualsiasi auto di turisti tedeschi di passaggio, o che gli inglesi parlino di Hitler e Goebbels per ogni tema legato alla Germania. Così non si esce dal passato. Anche in un altro senso, la Germania non si rialza in piedi. Si pensi al grande bisogno di riforme economiche e sociali per rilanciare il paese. Certo, Schroeder ha fatto più di Chirac e di Berlusconi, ma non basta. Eppure non si vedono prospettive, né coraggio verso riforme dolorose, né spunta una personalità che abbia il coraggio di chiedere alla gente riforme e sacrifici. Non spunta, perché ogni leader forte non fa sperare né in un Roosevelt né in una Thatcher, ma risveglia invece la paura assurda che rispunti un Führer. Così, segnata da tanti divieti e tabù, è la nostra mentalità ancora oggi. È sospetto anche parlare di eroi o di coraggio, o ricordare che all'inizio del Novecento la Germania era un paese all'avanguardia, Berlino era la capitale delle tecnologie e delle scienze, e vi crebbe e vi lavorò un certo Albert Einstein. Ecco il danno gravissimo fatto da quella banda di gangster che furono i nazisti alle nuove generazioni tedesche: incapacità di entusiasmo e fierezza, mista a un'arroganza verso gli altri popoli che è il tipico riflesso degli insicuri. Oggi siamo così insicuri da divenire persino incapaci di sviluppare una Leitkul­tur, una cultura di riferimento laica, occidentale e moderna, indispensabile anche a integrare gli immigrati. O a difendere le ragazze turche dai padri che impongono alle figlie il matrimonio combinato, o le ragazze africane dalla pratica della declitorizzazione. Per difendere i propri valori bisogna avere fierezza e fiducia in se stessi. Ancora oggi ai tedeschi risulta difficile persino provare fierezza senza esitazioni e incertezze per il successo della loro democrazia. Ed è impossibile anche esercitare quel po' di leadership, di cui l'Europa avrebbe bisogno. Ci mancano a volte anche i principi. Quando il cancelliere vuole abrogare l'embargo alla vendita di armi alla Cina, o tace sulle politiche antidemocrati­che dell'amico Putin, vedo non leadership ma pragmatismo a oltranza. E anche la rivoluzione democratica dell'Est che travolse la Ddr e il Muro, l'unica rivoluzione vincente della storia tedesca, è un grande bell' evento positivo i cui valori la Germania di oggi ha forse rimosso, dimenticato. E mentre il Piano Marshall funzionò subito nella vecchia Repubblica federale, i miliardi e miliardi di aiuti tedeschi di oggi all'ex Ddr sembrano bruciati

(testo raccolto da Andrea Tarquini)


I “Professori” di Hitler e la catastrofe della fine

Gli intellettuali tedeschi davanti alla morte del tiranno

di Franco Volpi

Che fecero i "professori di Hitler" alla morte del tiranno? Come si comportarono nella catastrofe i portavoce della Saggezza e della Ragione? Basta scorrere le lettere che Ernst Jünger e CarI Schmitt si scambiarono in quei giorni - «sto leggendo un'enciclopedia Du naufrage in 27 volumi» - per toccare con mano il senso di impotenza e lo sconcerto dell'intellighenzia in quell'atmosfera apocalittica. Sotto la tirannide la loro regola di prudenza era stata: non possumus scrivere contra eum qui potest proscribere. Un colpevole "silenzio della saggezza"? Schmitt fu arrestato e rilasciato dopo estenuanti interrogatori. Jünger, vicino agli attentatori del 20 luglio, se la cavò molto meglio. Si era trasferito dalla zona sotto il controllo britannico a quella governata dai francesi, tra i quali contava vari amici. A Friburgo ebbe luogo il terzo dramma illustre: Heidegger. La sua casa fu occupata, la sua biblioteca sequestrata, lui ­sospeso dall'insegnamento - sull'orlo del suicidio. Ma non ci furono solo loro. Un'intera schiera di professori rimasti in Germania - allineati, oppositori od opportunisti che fossero - si trovò a fare i conti con il crollo del nazismo. Rosenberg fu giustiziato a Norimberga. Ernst Krieck, ex SS responsabile della pedagogia del Reich, morì nel 1947 durante l'internamento. Baeumler, l'ideologo della volontà di potenza, si nascose dietro il fragile velo di due pseudonimi: Johannes Lanze Al­fred Baumeister. Cercarono di defilarsi anche i sociologi Arnold Gehlen e Helmut Schelsky (ex SA), l'antichista Paul Wilpert (anch'egli fino all'ultimo SA), i filosofi Oskar Becker (ex assistente di Husserl, diventato teorico della razza), Joachim Ritter (ex allievo di Cassirer), Erich Rothacker (che a Bonn ebbe come allievi Apel e Habermas). Si comportò con maggior dignità Eugen Herrigel, l'autore del celebre Lo Zen e il tiro con l'arco. Era rettore a Erlangen quando arrivarono gli alleati: ebbe il merito di convincere la città ad arrendersi senza resistenze, e per questo il governo militare americano lo mantenne in carica come protettore. Gadamer - che ancora nel 1944 era intervenuto all'Istituto di propaganda del Reich a Lisbona - fu nominato rettore a Lipsia dai russi. Dall'altra sponda dell'oceano, tra gli intellettuali emigrati incominciò la ridda delle interpretazioni. Da Adorno a Thomas Mann, da Marcuse a Löwith, da Hannah Arendt a Hans Jonas, da Eric Voegelin a Leo Strauss, si cercò di spiegare il nazismo. Per Emmanuel Levinas, che già nel 1934 in Quelques réflexions sur la philo­sophie de l'hitlérisme aveva colto la logica perversa, il suicidio di Hitler fu la conclusione di un lungo sillogismo, che la storia aveva riempito di orrori: dal 1940, rinchiuso nel Lager n. 1492 per prigionieri di guerra ebrei, era in attesa di quella fine che con lungimiranza aveva previsto.


Gli ultimi giorni minuto per minuto

In un libro la documentazione inedita

di Henrik Eberle Mathias Uhl

Non appena Stalin ordinò ai migliori ufficiali della Nkvd, la temuta polizia segreta, di indagare sulla morte di Hitler e di interrogare i più vicini collaboratori del Führer per assicurarsi della morte del tiranno e per scrivere un ritratto di Hitler solo per lui. Questi documenti eccezionali, emersi ora dopo decenni dagli archivi se­greti del Kgb, sono raccolti in un libro redatto dai giovani storici Henrik Eberle e Matthias Uhl per l'editrice Lübbe. Eccone alcuni passi relativi agli ultimi giorni nel Bunker.

20 aprile, compleanno di Hitler. Hitler compie 56 anni. Unge pensa ai grandi festeggiamenti del compleanno di dieci anni fa. Aveva visitato insieme al Führer il previsto teatro della grandiosa parata militare dopo la vittoria contro la Russia sovietica (...) e ora... truppe russe sono alle porte di Berlino, e Adolf Hitler, moralmente e fisicamente spezzato, si nasconde nel suo Bunker.

21 aprile. Linge sveglia Hitler già alle 9,30 del mattino e lo informa che l'artiglieria russa aveva cominciato a bombardare Berlino (...) «Che succede?», chiede egli con voce sorda, «i russi sono già così vicini?».

22 aprile. Il mattino comincia con un violento tiro d'artiglieria russo (...) Hitler riunisce i suoi collaboratori nella sala consulti operativi, si piega sul tavolo. Con le mani tremanti gira attorno alla carta geografica. Aveva il respiro pesante, il volto rosso, gli occhi spalancati e gonfi. Fa un passo indietro e grida con voce rotta: «Non è mai accaduto nulla di simile! In queste circostanze non posso più comandare! Signori, la guerra è perduta! Ma se voi, miei signori, credete che io lasci Berlino, vi sbagliate di grosso! Piuttosto mi sparo una pallottola in testa!» (...) Dopo quel breve consulto erano tutti nervosi. Bormann fuori di sé, ripete meccanico «non può essere che il Führer voglia davvero spararsi!». Keitel grida: «Dobbiamo impedirglielo». Caos, nervosismo, bicchieri di cognac vuoti uno dopo l'altro (…) Improvvisamente arriva Goebbels. Va a parlare con Hitler. Quando esce dalla stanza, tutti gli chiedono lumi. «Ritiene la guerra perduta, è a terra, distrutto. Non l'ho mai visto in questo stato».

23 aprile. Il violento fuoco d'artiglieria russo sveglia Hitler. Il Führer si fa fare la consueta iniezione dal medico Morell, poi Linge gli versa gocce di morfina nell'occhio destro (...) Krebs tiene il rapporto: i russi vogliono chiudere il cerchio attorno a Berlino (...) tutte le speranze sono nell'armata del generale Wenck, in un contrattacco (...). Keitel chiede a Hitler di lasciare il Bunker e raggiungere Wenck. «Non tornò più, nonostante avesse giurato di non lasciare mai il Führer».

23 aprile, la disperazione di Eva Braun. Eva Braun si fa accompagnare da Linge a passeggiare nel giardino della Cancelleria. Salvo miracoli, dice, la morte è l'unica via d'uscita. Esprime il desiderio di morire come legittima sposa di Hitler.

24 aprile. L'atteso contrattacco tedesco per disimpegnare Berlino non arriva. Hitler esplode di rabbia, vomita insulti contro l'esercito (…). Si cominciano a bruciare nel giardino della cancelleria tutti i documenti, le lettere a Mussolini, Antonescu, Pétain

25 aprile. Bormann dice a Hitler: «Mio Führer, è il momento che lei prenda contatto direttamente con gli americani». Hitler risponde: «Non ho più l'autorità per farlo. Deve farlo un altro al mio posto. Quanto a me, devo trarre le dovute conseguenze» (…). Più tardi dice a Linge: «Insieme alla signorina Braun mi sparerò …bruciate i nostri cadaveri. Non devono cadere in mano ai russi».

26 aprile. I russi avanzano: all'ovest sono a Zehlendorf, a est hanno raggiunto Alexanderplatz. Le notizie hanno un effetto devastante su Hitler. Göring dalla Baviera gli chiede di cedergli i pieni poteri. «Osa darmi un ultimatum», reagisce Hitler fuori di sé.

28 aprile. Le Katyusha, i lanciarazzi multipli dell'Armata rossa, bombardano il Bunker, il loro urlo sinistro giunge fin nel sotterraneo.

29 aprile, il matrimonio con Eva Braun. La cerimonia ha luogo nella stanza dove Hitler aveva da poco ordinato la fucilazione di ogni civile che si arrendesse ai russi (…). Poi Hitler detta a Traudl Junge il suo testamento. «Non ho mai voluto la guerra, ho dedicato l'intera vita al popolo tedesco». Nomina Dönitz suo successore.

30 aprile. Dall'ingresso d'emergenza si odono le raffiche dei mitra dei russi. Hitler e Eva Braun poche ore prima avevano preso l'ultimo tè, si erano congedati da tutti. Hitler ripete l'ordine di cremare le salme sua e di Eva. Adolf e Eva si chiudono nella loro stanza. Sono pochi minuti prima delle 4, Linge nota: «Credo sia tutto finito». Linge e Bormann entrano nella stanza. Hitler sedeva a sinistra sul sofà, morto. Eva morta accanto a lui. Lui aveva sulla guancia destra un foro da pallottola grosso come una moneta, da cui scorreva sangue. Una chiazza di sangue grande come un piatto si era formata sul tappeto, muri e sofà erano macchiati di sangue. La mano destra di Hitler giaceva riversa sul ginocchio, la destra era sul corpo. Una Walther 7,65 era vicino al suo piede destro. Eva Braun giaceva con le labbra serrate. Aveva ingerito cianuro (…) le salme furono portate nel giardino della Cancelleria, all'orizzonte si stagliavano dense colonne di fumo e fiamme. Bormann, Guensche, Linge, Lindloff, Kempka, Schaedle e Reisser afferrarono taniche di benzina e sparsero 200 litri sui due cadaveri. Il vento soffiava e spegneva di continuo i loro fiammiferi. Linge alla fine riuscì a gettare un pezzo di carta in fiamme sulle salme. I cadaveri di Hitler e di Eva Braun vennero avvolti dal fuoco. Fu necessario chiudere le porte del Bunker per impedire alle fiamme di divampare anche al suo interno. Tutti entrarono, e prima di chiudere là porta lanciarono un ultimo sguardo al rogo.

Da la Repubblica, 19 aprile 2005, per gentile concessione

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