la Repubblica

 ANTICIPAZIONE   Esce domani "Oltre le frontiere" - L'autobiografia di Ralf Dahrendorf
La mia infanzia sotto Hitler
di Ralf Dahrendorf

Anticipiamo alcune pagine del libro autobiografico di Ralf Dahrendorf "Oltre le frontiere" (Laterza, pagg. 205, euro 18) in libreria da domani

Mia moglie Ellen, che non solo è di New York, ma è anche una ebrea newyorkese (pur con la debita sfumatura di dissidenza), torna continuamente a chiedermi: "Ma che cosa sapevate? Che cosa di preciso, e quando?". Così ho scavato nei miei ricordi, ma senza poterle dare una risposta soddisfacente. Che esistessero campi di concentramento dove accadevano cose orribili, i miei genitori lo sapevano fin dal principio? Che nella Germania di Hitler non ci fosse più posto per gli ebrei era chiaro a chiunque. Mio padre aveva consigliato a non pochi suoi conoscenti di emigrare, e li aveva anche aiutati a farlo. Ma lo sterminio di massa? L'Olocausto? Non è facile distinguere i ricordi reali da quanto si è sentito e si è letto in seguito, sicché la mia storia non può far altro che richiamare alla memoria quell'intreccio di cose sapute e ignorate che indubbiamente caratterizzò la mia fanciullezza e forse la vita di tanti tedeschi. Nel 1939, allo scoppio della guerra, io avevo dieci anni... I miei genitori cercavano di tenermi fuori dai loro interessi politici, per proteggere non solo me ma anche se stessi. Forse furono addirittura contenti che io, come tutti i ragazzi di dieci anni, venissi iscritto nel 1939 allo Jungvolk e ora portassi di tanto in tanto una camicia bruna? A scuola ben presto le cose non furono più tanto normali. All'inizio la scomparsa dei professori più giovani non ci turbò; anche se non erano nazisti, il loro tono di comando ("Sopra i tavoli! Sotto i tavoli!") ci garbava poco. Ma il ritorno di insegnanti anziani già in pensione segnò la fine di ogni certezza. Dopo il 1940 non ho più frequentato un anno scolastico regolare. Nell'estate del 1940 ci spedirono in Slesia come "aiutanti mietitori". Ma era un eufemismo; in realtà in questo modo si dava da mangiare ai ragazzi di città, senza alcuna utilità per i contadini. Verso la fine dell'autunno dello stesso anno si fecero sempre più frequenti le voci secondo cui la nostra scuola sarebbe stata una delle prime a venire evacuata in un posto che nel linguaggio burocratico del regime aveva il lungo nome di Kinderlandverschiebungslager o "colonia rurale per ragazzi" (KLV). Nel nostro caso il "Lager" era un enorme sanatorio requisito per noi, e il "Land" era la Polonia occupata, il "Governatorato generale". Tutto era stato organizzato dal padre di un nostro compagno di scuola, l'Obergruppenführer delle SS Krüger, allora di stanza a Cracovia, e con potere di vita e di morte sulla città. In effetti terminammo il lungo viaggio in treno a Cracovia, dove fummo accolti dalla banda militare e portati al castello. Tutti parlavano della nostra fortuna. Ancora oggi non riesco a pensare all'anno che seguì senza un senso di colpa e di vergogna? Colpa e vergogna derivavano anzitutto dalla nostra posizione di occupanti di un nobile paese. Nelle prime settimane a Zakopane mettemmo da parte la nostra paghetta per comprare i bei legni intagliati opera dei montanari dei Gorali. Ma non passò molto tempo che qualche ragazzo cominciò a entrare nei negozi della città e a prendersi senza complimenti quel che più gli piaceva. Per gli abitanti diventammo una peste. Tutto ciò che veniva fatto ai polacchi restava impunito. Così, i nostri insegnanti cercarono un altro modo per impedire i furti. Approfittarono di un paio di casi di scarlattina (posto che lo fossero davvero) per imporre una quarantena che, se non ricordo male, durò fino alla fine del nostro soggiorno nel sanatorio. Ciò significava che non potevamo più andare in città senza sorveglianza. Gli insegnanti presero diverse altre misure per impedire i nostri misfatti, ma con scarso successo. Imparammo a sciare sul pendio del Giewont, e la cosa ci divertì. Le lezioni ripresero in apparenza il loro corso normale, ma gli insegnanti in pensione richiamati in servizio dimostravano scarso ardore pedagogico, e noi eravamo un branco di maleducati. Fa quasi male raccontare le nostre ragazzate, e volentieri le risparmierei a me e agli altri, se non avessero toccato tutte il confine che rende pericolosa la stupidità, e quindi il limite di rischio onnipresente in un mondo sempre più totalitario. Una volta gettammo dei vasi da fiori dai balconi, poi seguirono vere e proprie battaglie tra dormitori. I capi della gioventù hitleriana - ragazzi anche loro, di sedici o diciassette anni - che dovevano imporci la disciplina, non trovavano di meglio che farci marciare su e giù, senza senso e senza meta, intonando canti marziali. All'inizio dell'estate del 1941 ebbi guai seri. Avevo un'infiammazione alle tonsille ed ero perciò in infermeria quando Adolf Hitler, il Führer, pronunciò uno dei suoi discorsi alla nazione. Eravamo tutti tenuti ad ascoltare attentamente la radio, invece io e un mio amico ne approfittammo per organizzare con grande fracasso una corsa coi carrelli portavivande. La cosa mi costò un'ammonizione solenne. Poi mi entrò il diavolo in corpo, e offesi il padre di un altro ragazzo, un ispettore forestale (Oberförster), chiamandolo Oberfurzer ("scoreggione"). Quando lo venne a sapere, mancò poco che il padre mi chiedesse soddisfazione alla vecchia maniera militare. Non si arrivò al duello, ma i miei genitori ne avevano ormai sentite abbastanza per porre fino alla lunga vacanza. Riuscirono a farmi tornare a Berlino, dove arrivai in lacrime, perché non volevo separarmi dai compagni di scuola. Come se non bastasse, avevo saputo che avevamo traslocato dal Crampasplatz in una casa a schiera in quella parte di Zehlendorf chiamata "Capanna dello zio Tom". Ma le lacrime si asciugarono presto quando vidi la casa, dove avevo una camera tutta per me in cui potevo leggere indisturbato le storie di pellirosse di Karl May, sciorinare la mia collezione di "schegge della Flak" o frammenti di granate della contraerea che raccoglievo sulla strada di scuola, o scrivere il mio diario. Esplorando la nuova casa trovai in cantina una cassa piena di ricordi dei miei genitori, per lo più documenti e libri. C'erano tra l'altro due annuari del Reichstag, relativi al 1932 e al 1933. Sfogliandoli, trovai non solo i nomi di Hitler e Göring, Himmler e Goebbels, ma anche quello di mio padre. Per di più esso, non compariva sotto la sigla dell'unico partito che mi era familiare, NSDAP o partito nazionalsocialista, bensì sotto quella del partito socialdemocratico tedesco, SPD. Non avevo idea di cosa significasse "socialdemocratico", ma sapevo di aver scoperto un oscuro segreto. Ne parlammo allora, a cena, di quella scoperta? A scuola talvolta si raccontava di ragazzi che avevano denunciato i loro genitori "al partito". A me non sarebbe successo? Nella "Capanna dello zio Tom", al margine del Grunewald, noi, vale a dire i ragazzi del vicinato, giocavamo agli indiani e organizzavamo gare sportive. Anche l'organizzazione della gioventù nazista voleva il suo tributo. Molto popolari erano le "cacce al tesoro", soprattutto quando questo "tesoro" era in posti insoliti. Una volta il mio gruppo ebbe il compito di trafugare un pacchetto dal KaDeWe, il grande magazzino sul Wittenbergplatz. Con l'aiuto di mia madre mi travestii da ragazza, persino coi tacchi alti, e ingannai gli avversari. Meno successo avevano le serate patriottiche. Imparammo ben presto che Adolf Hitler era nato il 20 aprile a Braunau sull'Inn. Un paio di volte partecipammo a grandi parate. Per ore marciavamo e sostavamo incolonnati, stanchi e anche tesi, pietruzze nella totalitaria architettura umana di Albert Speer. In quel periodo, avevo dodici o tredici anni, fui promosso graduato, con un nastrino bianco-rosso sulla camicia bruna e l'occasionale responsabilità di una dozzina di ragazzi di dieci anni. Alla "funzione" era associato il "grado funzionale" (o viceversa), e il primo livello era "capo-orda". I nazisti avevano inventato un'intera nomenclatura gerarchica, con un singolare campo semantico. Si diventava "capo-orda" o anche "capo-masnada", o, se si era un pezzo grosso, "capo-tribù"... Quanto a me, i miei pensieri in proposito saranno stati confusi e immaturi quanto le mie varie azioni e sensazioni. Ma già a 13 anni, il 30 gennaio 1943, annotai nel mio diario (in un cattivo stile assai sospetto) una singolare osservazione: "Il Reich di Adolf Hitler, che egli ha creato dal nulla, e che Adolf Hitler genialmente guida e continuerà a guidare, non potrà mai essere distrutto. La guerra, che noi riusciamo a reggere dura da più di 3 anni, e benché Hitler abbia più di 50 anni, noi non solo resistiamo ma possiamo già annoverare numerose vittorie". Una pagina dopo nel diario si trova l'inaspettato avvertimento: "Attenzione! Attenzione! Non dimenticate i sussidi alla lettura in fondo al libro! Sono spesso utilissimi!". Questi "sussidi" consistevano in un foglio di carta con perforazioni che, sovrapposto al testo, lasciava vedere solo certe parole, in quel caso le parole sopra sottolineate: "Il Reich che Adolf Hitler guida non potrà mai reggere più di 50 anni". Il Reich millenario! Una frase siffatta sfiorava già l'alto tradimento anche se la sola idea che i dodici anni del regime nazista avrebbero potuto essere cinquanta fa rabbrividire. "Che cosa sapevamo?" è la domanda con cui ho iniziato questa storia. Quel che sapessero i miei genitori non lo so, e non posso più chiederlo a loro. Ma dubito che sapessero della conferenza del Wannsee e degli inizi dell'Olocausto. Ellen, che continua a farmi quella domanda, aveva sposato in prime nozze un cugino di Gerhart Riegner, di cui ho fatto la conoscenza tramite lei. Riegner era il segretario del World Jewish Congress, che nell'agosto del 1942 andò a trovare il console americano a Ginevra per comunicargli che, stando a informazioni sicure, da 3 e mezzo a 4 milioni di ebrei sarebbero stati deportati nei campi di sterminio. E si parlava di morte mediante acido cianidrico. Riegner non trovò ascolto. "Nessuno mi credette", ebbe a dire in seguito. Solo dopo mesi, passato quasi un anno, la sua insistenza approdò a qualcosa, ma senza risultati concreti. Riegner ha dato di ciò una sua spiegazione, altamente (e profondamente) umana. Gli uomini rifiutano di accettare avvenimenti che superano la loro comprensione. Il male assoluto noi non possiamo concepirlo e quindi nemmeno ritenerlo reale. Qui sta per così dire (così Riegner nella sua autobiografia) una fonte della fede in un avvenire migliore. Ma quando Riegner scriveva queste cose, nel 1998, erano passati 56 anni dal "telegramma Riegner" dell'incaricato d'affari americano. Quel che non sapevano nemmeno i capi alleati, che pure avevano tutti i motivi per attribuire alla Germania qualunque misfatto, non lo sapevamo certo noi. Che accadessero cose terribili, che tanta gente venisse uccisa nell'interesse dello Stato, che la semplice appartenenza a una "razza" potesse significare la morte, molti lo sapevano in modo alquanto vago e impreciso. Ma era un sapere ignorando, o piuttosto un ignorare sapendo.

Da la Repubblica, 15 gennaio 2004, per gentile concessione

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