la Repubblica

«La mia fuga dagli aguzzini»

L’inedita e drammatica testimonianza di Tom Carini, arrestato da una banda di fascisti dopo i fatti di via Rasella  

di Tomaso Carini

Gli avvenimenti dell'occupazione nazista  di Roma sono affidati, per quel che mi riguarda ad una memoria reticente di difficile consultazione: stento perciò a parlarne e, ancora più, a scriverne senza sapere esattamente perché. Ricordo tuttavia bene il rimpianto per quel periodo. Mai più ho potuto provare un legame più  stretto di quello che mi stringeva a coloro che assieme a me si battevano; la fratellanza dei rapporti tra di noi mi dette allora la illusione di appartenere ad una comunità che poi si è dispersa e che poi non si è più ricostituita sotto nessuna forma. Appartenevo all’antifascismo fin dalla guerra civile spagnola: perciò la comunità di combattimento di cui facevo parte aveva oltretutto un carattere anche internazionale. Sarà compito degli storici spiegare come il legame che ci univa non tenesse conto delle frontiere nazionali, ci schierava con i nemici ufficiali del nostro paese, ci faceva riconoscere senza bisogno di passaporti, di una lingua e un costume comuni. Ero figlio di un prefetto del regno, avevo fatto il servizio militare, mi ero laureato, ma appartenevo ad una società che era la speranza di un avvenire migliore. I rapporti amichevoli nei quali per tanti anni si era riversata l'ostilità e l'avversione per il fascismo, divennero milizia politica organizzata agli inizi del 1943. Fu allora che entrai a far parte del partito d'Azione ed in poco tempo divenni a Milano uno dei punti di riferimento per la distribuzione dei primi numeri dell’Italia Libera, per l’avvio alla frontiera svizzera dei più compromessi per dare rifugio momentaneo a coloro che dovevano aspettare il loro turno per essere estradati. Avevo scelto un nuovo partito per una serie di ragioni: principalmente perché appartenevo ad uno strato sociale di tradizione laica e perché avevo avvertito tutte le responsabilità dei vecchi partiti nell'avvento del fascismo.

Vita clandestina

All'inizio di aprile di quell’ anno mi feci cacciare dal posto di lavoro per dedicarmi completamente alla vita clandestina di organizzatore e propagandista. Dopo il 25 luglio e i distruttori bombardamenti di Milano, i quadri dirigenti dell'antifascismo si trasferirono a Roma ed io lasciai Milano per mettermi a disposizione dell’esecutivo del mio partito. Dopo l’otto settembre cominciò il più duro periodo di persecuzione e di lotta su basi militari, con attentati, passaggi oltre le linee, comunicazioni radio clandestine. Io facevo parte di un gruppo che si occupava appunto di inviare e ricevere messaggi nell’Italia occupata dagli alleati. Fui arrestato  da una banda di aguzzini che prendeva il nome  dal suo capo, Koch. Altre bande simili operavano in altre città italiane, sequestrando oppositori e torturando in nome di una ideologia di odio e di violenza. Fui interrogato e picchiato in uno squallido appartamento di via principe Amedeo dove ritrovai altri compagni in gravi condizioni fisiche e psicologiche per i maltrattamenti subiti: tra  essi Pilo AlbertelIi. A Regina Coeli, dove venni portato dopo giorni di incubo, fui sistemato prima tra i «comuni» del settimo braccio e dopo all'infermeria per i segni delle percosse ricevute. Le condizioni di vita nel carcere offrivano qualche garanzia di legalità. I pidocchi e le cimici, la scarsità del cibo erano mali accettabili. La notte, da qualche inferriata si vedeva all'orizzonte arrossato nella direzione di Anzio. Il fallimento dello sbarco alleato aveva rigettato tutti nell'incertezza. lo, col falso nome di Gargiulo, venivo istruito dall'esterno in minuscoli bigliettini, sulla parentela della mia presunta famiglia di Sorrento nella speranza di tenere lontano gli investigatori dall’identificazione del mio vero nome. Facevo parte  di un gruppo che tentava di mettersi in comunicazione radio oltre le linee e che  operava in appartamenti per trasmettere messaggi e riceverne. La mattina del 24 marzo Carmelo Lo Bue si era precipitato nella mia cella con l’ansia di comunicarmi un sogno. Era la reincarnazione di un saraceno medioevale: basso di statura, magro, lunga barba e capelli bianchi. Era stato massacrato di botte nell’interrogatorio. Ed  il sogno era questo: un grande mucchio di uva nera dal quale saltava fuori un serpente che gli si avvinghiava al collo e lui se ne liberava gettandolo lontano. Non c'erano dubbi per lui sulla interpretazione, il sogno annunziava chiaramente lacrime e lutti imminenti per tutti noi. Poco più tardi parlavo con un giovane dall’aria stanca e abbandonata di chi non si aspetta e non vuole più nulla. Mi raccontò che gli avevano fatto ingoiare dell’orina. Poche ore dopo veniva ucciso alle Fosse Ardeatine. Fui chiamato dal pianterreno per telefono: mi preparassi subito perché ero rimesso in libertà. Ero stato messo in guardia da possibili trasferimenti a Nord e perciò feci chiedere conferma. Il tempo che occorse per averla era un primo margine guadagnato. Il secondo margine lo devo al capo infermiere – Urbani – che giunto in quel pomeriggio in anticipo sul suo orario, e già in allarme per quel che stava accadendo, andò a cercare il medico del carcere. Alfredo Monaco - questo è il suo nome - l'avevo conosciuto la notte dei mio ingresso a Regina Coeli perché funzionava un sistema di segnalazione dall'esterno che mi aveva allora valso un saluto amico e qualche coperta supplementare. Venne quasi subito. Mi ordinò di mettermi a letto con una borsa di ghiaccio sulla nuca e dopo aver scritto un certificato nel quale mi dichiarava intrasportabile per sospetta frattura della base cranica. mi annunziò «la tua vita è appesa a un filo». Il filo sembrava chiaramente spezzato allorché giunse l’ordine tedesco: «Anche in barella deve venir via». Urbani mise al mio fianco due detenuti che non conoscevo, distribuii agli altri quel che mi rimaneva di cibo e di vestiario, salutai tutti scesi appoggiato  due spalle fino al pian terreno. Ricordo un uomo seduto, cereo e disfatto in volto, in mezzo ad un trambusto di gente e di grida. Ritirati gli indumenti lasciati all’ufficio matricola ero praticamente lasciato al mio destino. Fui introdotto in un ufficio dove erano in piedi ufficiali tedeschi ed in mezzo a loro, il direttore della prigione che, con voce alterata, gridò ai due che mi portavano: «Via, via, riportatelo su!». La sera venne a trovarmi Alfredo Monaco. Non ricordo bene se per accertarsi ancora della mia esistenza o se per dirmi che tutti erano stati uccisi: E Albertelli?. Anche lui.: appena chiamato si era mosso e non era stato possibile salvarlo. Piansi. Ricordo di Pilo la sua rivolta coraggiosa mentre mi picchiavano: il suo atteggiamento stanco e senza speranza, il suo grido durante la notte perché non poteva respirare a causa delle costole rotte e della bronchite procurata dai secchi di acqua che gli avevano rovesciato addosso. Nell’estate di quell’anno alle Fosse Ardeatine di lui non potei riconoscere che gli occhiali da professore e il suo abito nero.

Quel canto a squarciagola

Lo straordinario modo con cui ero scampato indusse l’organizzazione esterna a non farmi correre altri rischi. Si chiese e ottenne che fossi trasportato sotto stretta sorveglianza all’ospedale di S. Spirito e lì fui sistemato in una camera a tre letti che dava sulla corsia del reparto chirurgico. Fuori della stanza si alternavano ad intervalli regolari di quattro ore due SS. Dentro la stanza in quei pochi giorni che vi rimasi succedettero degenti operati di stomaco che quasi regolarmente vi morivano. Ero sempre colla diagnosi di frattura della base cranica e per tenermi al riparo da sospetti mi iniettavano regolarmente siero antitifico che mi alzava la temperatura a quaranta gradi. Credo di non aver mangiato quasi nulla per completare il quadro apparente di chi versa in cattive condizioni. Non parlavo con nessuno salvo che con le suore quando mi aggiustavano il letto: erano dolci e apprensive verso di me; silenziose e chiuse come verso un ammalato illustre e gravissimo. L’ora della medicazione era un inferno di grida in corsia. Una notte vi trasportarono feriti da un bombardamento e uno di essi, colpito gravemente, cantò a squarciagola finché non fu morto. Un giorno venne a trovarmi Ines, a portarmi un dolce. Non so che cosa ci dicemmo. Ricordo che scoppiò in lacrime. Un altro giorno venne a vedermi il console Tela, uno dei capi della banda Koch poi fucilato a Nord. Era accompagnato da un medico esterno coll’evidente compito di accertarsi delle mie condizioni, di smentire la diagnosi di frattura  della base cranica, di rinfacciarmi il mio falso nome di Gargiulo. Dunque avevano saputo tutto di me. Ed ora il rischio che correvo non era quello di far parte di una rappresaglia generica, ma di essere regolarmente fucilato per tutto quello che potevano aver saputo della mia attività clandestina. Le espressioni sulle suore, finché mi aiutassero a fuggire non furono risparmiate né da me, quando mi rimboccavano le coperte, né all'esterno dai miei: ma dovettero persuadersi senza sforzo perché in pochi giorni cominciarono a parlarmi del modo di uscire dalla stanza ingannando le SS. Un primo tentativo risultò pericoloso e impraticabile: si trattava di scappare dalla stanza in pieno giorno, al momento in cui venivano a lavare i pavimenti e le guardie si allontanavano. Venne perciò deciso un altro sistema. Le suore avevano notato che al cambio dell'una di notte le guardie che subentravano si addormentavano regolarmente dopo qualche tempo. Decisero di cogliere quel momento. La sera del 16 aprile chinandosi sul letto una suora bisbigliò che nella notte mi avrebbero dato il segnale di fuggire. Rimasi sveglio a lungo ad attendere, ma attraverso i vetri opachi della porta vedevo le ombre delle due guardie in piedi. Fui svegliato in pieno sonno da una suora che mi picchiava sui piedi. Apersi gli occhi e mi fece cenno di filarmela. Mi alzai con calma e circospezione perché non sapevo se avrei retto in piedi, raccolsi le scarpe e gli occhiali e a piedi nudi uscii dalla stanza. Fuori, all'inizio della corsia, nella penombra del semioscuramento,  una fila in curva di suore mi indicava il cammino con lente oscillazioni delle mani. Dietro quel muro protettivo di bianchi cappelli e di tonache stavano le guardie. Ricordo con grande precisione il cuore dell' avvenimento, il calore, la partecipazione, di quella silenziosa congiura.

Senza voltarsi indietro

Senza voltarmi indietro attraversai per lungo la corsia ed aprii la porta a vetri d’ingresso. Lì sul piano della scala mi aspettava la Madre superiora con altra suora. Senza dire una parola mi gettarono una coperta di lana sulla testa e mi spinsero nell'ascensore ormai aperto. Quando riapersero, mi trovai, credo, al piano terreno. Si iniziò, così, una lunga affannosa corsa; stentavo a tener dietro alle due sorelle che fuggivano, molto avanti  a me, lungo corridoi e portici fino ai piedi di un'erta lunga scala, che salirono correndo. Una sosta per aprire e poi dentro, sempre dietro a loro che si inoltravano nel loro dormitorio. Lungo la fila di letti urtai contro una o due testate facendo sussultare sorelle nel sonno. Poi di lì, per altri ambienti, una sorta di cunicolo dove giacevano quasi al buio un certo numero di persone che vi erano rifugiate . Era un passaggio ignoto tra l’ospedale e la chiesa. Come nei sogni, tutto mi sembrava normale e plausibile. Mi avevano portato da poco caffè e cognac; e l'avevo bevuto tutto senza pensare allo stordimento che mi avrebbe provocato, quando - dovevano essere circa le tre della notte - vennero a comunicarmi con apprensione che le guardie si erano svegliate, avevano dato l'allarme e tutti gli accessi dell'ospedale erano stati bloccati nella convinzione che non ero potuto uscire durante il coprifuoco. Queste notizie mi lasciarono indifferente perché mi sentivo tranquillo e al riparo dov'ero. Le sorelle erano state subito interrogate e avevano risposto che non si erano accorte di nulla e che d' altra parte non era loro compito tenermi sotto sorveglianza Ma la mia tranquillità doveva essere di breve durata perché poco dopo la polizia cominciò perquisire sistematicamente l’ospedale non escludendo neppure la sala mortuaria. Gli altri rifugiati erano stati fatti sgomberare altrove ed io ero rimasto isolato. Iniziò una fase tesa e convulsa. Le suore mi seppellirono sotto una montagna di materassi poi mi tirarono fuori e mi fecero vestire da prete. Aspettando non so bene che cosa sedevo accanto alla Madre superiora che recitava il Rosario. Davanti a me la finestra aperta; ero deciso a gettarmi di lì se fossero entrati. Il tempo passava senza allentare l’insostenibile pressione ed allarme.

Nel campanile al buio.

Venivano notizie che non ricordo dalla chiesa di S. Spirito ancora sotto sorveglianza e poi da monsignor O’ Flaherty,  che si accingeva ad aiutarmi non so in che modo.  Avevo conosciuto e avuto alcuni incontri con O’ Flaherty, gli avevo portato prigionieri inglesi e vestiti: avevo insomma un rapporto tale che egli aveva persino pensato di mandarmi a prelevare di  forza nella pensione dove ero prigioniero della banda di Koch. Era un uomo coraggioso e deciso che non conosceva ostacoli nell’aiutare i casi estremi. E fu lui a tirarmi fuori dall’imbroglio telefonando ad un certo momento del pomeriggio alla polizia per dire che Carini si trovava In Vaticano.   Sicché la sorveglianza intorno all’ospedale di S. Spirito fu ritirata e la via per uscire dalla chiesa era libera. Allorché mi si venne a chiamare per darmi la notizia che potevo uscire, mi trovavo rifugiato nella prima parte dei campanile, quasi al buio. Non sono In grado di dire come Il tempo era passato e che cosa avessi pensato. Ogni tanto arrivava un uomo, storpio e vecchio, che non mi degnava di un' occhiata e si attaccava alle corde per suonare le campane. Fu il parroco ad accompagnarmi alla porta della chiesa dove mi attendevano due uomini vestiti da prete che mi posero in mezzo a loro e ci avviammo verso S. Pietro. Non fu pronunciata una parola da nessuno dei tre per tutto il tempo del percorso. Si attraversò la grande piazza sulla linea di confine guardata da soldati tedeschi in tuta mimetica. Entrammo salutati con presentarm dalle guardie svizzere, e noi rispondemmo tutti e tre levandoci il cappello da prete. Più tardi seppi che quelli che O'Flaherty aveva inviato a prelevarmi erano laici vestiti da preti e che uno di essi era un ex prigioniero inglese. Di nessuno seppi il nome né li vidi più.

Da la Repubblica, 1993, per gentile concessione

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