la Repubblica

I numeri dell'Olocausto e la libertà degli storici
di Gad Lerner

Al primo piano del museo dell'Olocausto di Gerusalemme c'è una sala per la consultazione dati sul tipo di quelle in uso nelle biblioteche. Inciso su microfilm, vi è conservato l'elenco degli ebrei morti nei lager nazisti di cui è stato possibile rintracciare l'identità. Non esiste una cifra ufficiale. Il timore di fornire un argomento pretestuoso a chi volesse minimizzare l'entità dello sterminio, ha indotto la direzione di Yad Vashem a tacere la cifra provvisoria di un censimento che per evidenti ragioni non potrà mai essere completo. Pare che i nomi fino ad oggi registrati si aggirino intorno ai tre milioni, mentre l'"Enciclopedia del Genocidio" pubblicata da Yad Vashem parla di cinque milioni e 860 mila morti. Sta di fatto che ai visitatori è concesso avanzare solo richieste specifiche: per esempio, a me fu mostrato un elenco di circa seicento Lerner assassinati nella regione di Lwow.  Credo si tratti di un comportamento impeccabile da parte di chi ha il dovere di custodire e onorare la memoria della Shoah. Con lo stesso criterio Yad Vashem ha deciso di rendere pubblico il diario di Adolf Eichmann in occasione del processo londinese intentato per diffamazione dallo storico riduzionista David Irving nei confronti della professoressa Deborah Lipstadt che lo aveva attaccato con un libro. La testimonianza di Eichmann, infatti, dà un colpo decisivo alla già fragile tesi di Irving, secondo il quale non vi sarebbero prove sufficienti per far risalire lo sterminio all'esplicita volontà di Hitler. Il mondo contemporaneo ha vitale bisogno di custodi della memoria, proprio come ha bisogno di storici capaci di destreggiarsi tra i veleni del passato. Nella lectio magistralis tenuta lunedì a Torino dove ha ricevuto la laurea honoris causa insieme a Carlo Lizzani e Eugenio Scalfari, Eric J. Hobsbawm si è soffermato sul processo Irving per rivendicare il diritto-dovere dello storico a porsi anche le domande più scabrose, pur di fronte a eventi che ancora turbano le nostre coscienze e stanno alla base dei nostri schieramenti politici. Tra studiosi, sostiene Hobsbawm, sono leciti il disaccordo e la discussione anche sul numero delle vittime, o sulla natura e l'estensione dell'uso del gas Ziklon B. Neppure il mancato ritrovamento di un ordine scritto di Hitler a proposito della "soluzione finale" potrà essere liquidato come argomento tabù, benché ad avanzarlo sia uno storico filonazista come David Irving. Guai, anzi, se lasciassimo a personaggi della fatta di Irving il monopolio sulla ricerca intorno agli interrogativi tuttora aperti e controversi: lo studioso deve poter agire liberamente sul delicatissimo crinale che al tempo stesso unisce e separa giudizio politico e giudizio storico. Del resto, come scrive lo stesso Hobsbawm a pagina 59 nel suo celebre "Il secolo breve" edito da Rizzoli, "forse che l'orrore dell'olocausto si attenuerebbe se gli storici concludessero che furono sterminate non sei milioni di persone (questa è la rozza stima originaria, quasi certamente esagerata), ma solo cinque o quattro?". E quanto agli inverosimili dubbi sulle responsabilità del dittatore nazista nella pianificazione del massacro, sempre Hobsbawm ricorda a pagina 52: "Hitler non era uomo da documentare le proprie decisioni". Insomma, la lezione torinese del grande storico marxista può forse imbarazzarci per la delicatezza dello esempio prescelto, ma non merita assolutamente l'accusa di ambiguità con cui la liquidava sull'Unità di ieri Bruno Gravagnuolo. Al contrario, Hobsbawm ci ha proposto un discrimine prezioso fra la necessaria libertà della ricerca storiografica e la sua ideologizzazione strumentale, oggi per lo più di natura revisionistica. Qui non è in gioco la passione militante nell'interpretazione della storia: giustamente ieri su Repubblica sia Luciano Canfora sia Franco Cardini ricordavano il netto profilo ideologico che rende più e non meno affascinanti proprio le opere dello stesso Hobsbawm. Semmai è vero che l'autore del "Secolo breve" attribuisce nel suo monumentale lavoro un rilievo singolarmente ridotto al genocidio nazista, così come è vero che altrove egli ha polemizzato contro l'uso politico dell'olocausto da parte di Israele. Si può dissentire, ma resta la questione posta da Hobsbawm: lo studioso deve indagare oltre la sacralità della memoria. I numeri non sono mai un dettaglio secondario. Prendiamo un esempio contagioso di questi giorni: quando don Piero Gelmini annuncia che "fra poco i musulmani diventeranno il 10 -15% della popolazione italiana e metteranno a rischio la purezza dei nostri valori", dice una bestialità anzitutto sul piano delle cifre visto che gli islamici oggi in Italia non arrivano allo 0,9% e i matrimoni misti che li riguardano non superano da tempo i 780 all'anno. Ciò non impedisce la nascita di un "mito negativo", su basi del tutto irrazionali, se è vero che un intellettuale raffinato come Luca Doninelli può annunciare sconsolato: "Ben presto l'Islam conquisterà l'Europa senza colpo ferire" (Il Giornale, 8/3/00). Al contrario, la sacralizzazione della memoria dell'olocausto, chiamiamolo pure il "mito della Shoah", si fonda su di un'entità numerica comprovata di milioni di morti. Guai se non avesse proiettato il suo impatto emotivo sulle scelte politiche e culturali del dopoguerra: è inevitabile, ma in questo caso anche benefico, che le ferite della storia producano fenomeni di memoria, religiosa o laica, preziosi nel plasmare l'identità collettiva di chi viene dopo. Ciò vale, del resto, anche per la resistenza antifascista. Renzo De Felice ha fatto benissimo a porsi delle domande scomode: quanto era vasto il consenso di massa al regime? Quanti furono gli italiani coinvolti in prima persona nella guerra civile, dalla parte dei partigiani e dalla parte dei repubblichini? Gli storici devono fare il loro mestiere, ma non per questo il revisionismo ideologico degli epigoni di De Felice può sentirsi autorizzato a mettere sullo stesso piano le ragioni e i torti delle due parti in conflitto.  Citiamo ancora Hobsbawm, quando con freddezza inglese ci ricorda che la guerra l'hanno vinta gli Alleati, non i partigiani: "La storia dei movimenti di resistenza europei è in gran parte mitologica, poiché la legittimità dei regimi e dei governi post- bellici venne fondata sul loro passato resistenziale. D'altro canto l'antifascismo, sebbene la sua mobilitazione fosse stata eterogenea e incostante, ebbe successo nell'unire un insieme di forze straordinariamente vasto". In altre parole, e per tornare ai giorni nostri, nessuna ragione storica può giustificare il tentativo di snaturare la festività del 25 aprile riducendola a indistinta celebrazione omologante, in cui confondere chi ha combattuto per la democrazia con chi difendeva un'infame dittatura razzista. L'antifascismo è stato e resta il cemento grazie a cui si è potuta fondare una nuova identità democratica comune degli italiani. Sull'olocausto così come sulla resistenza, Hobsbawm a Torino ci ha chiesto di proseguire lo studio rigoroso, non di piegarci alla disinvoltura tutta politica di un revisionismo che avverte solo il bisogno di mettere sullo stesso piano le colpe della destra e quelle della sinistra, ossessionato peraltro da una visione anacronistica del panorama politico italiano nel quale assegna tuttora al comunismo un ruolo da protagonista. Perfino in occasione del dibattito parlamentare di martedì scorso, quando la Camera ha approvato su proposta di Furio Colombo l'istituzione di un "Giorno della memoria" per commemorare la Shoah, non ha mancato di riproporsi la nevrosi comparativa di chi subito voleva affiancarvi l'omaggio alle vittime del gulag. È la logica becera di chi vorrebbe fare pari e patta, il 25 aprile così come nella memoria delle tragedie novecentesche. Questo sì è davvero un uso politico abusivo della storia, contro cui Eric J. Hobsbawm ci mette in guardia con la sua lezione di Torino.

Da la Repubblica, 31 marzo 2000, per gentile concessione

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