Patria indipendente

Dalla Grecia al campo di sterminio tra mille sofferenze

Il soldato Silvano, quello del nasone e delle barzellette

Lippi riuscì a tornare da Mauthausen. Una sera, per caso, il terribile racconto. Due visite ai luoghi della prigionia

 

di Leo Donati

 

E chi poteva immaginare che Silvano, quel lontano parente acquisito, quello magro e col nasone che raccontava barzellette, avesse una storia così tremenda? Capita che di qualcuno ti fai una idea, anzi, non te la fai: lo conosci, un «ciao, come stai?» e via, le cose che ti interessano ti portano subito lontano. E accade così che sessant’anni dopo, grazie ad un libro, vieni a sapere della sua odissea di antifascista, di soldato, finito a Mauthausen. La controcopertina sintetizza subito il dramma: «Ho dovuto lavorare, ho subìto violenze e maltrattamenti. Ho sofferto nel corpo e nell’animo ma ci sono migliaia di persone che hanno patito più di me. A tutti va il mio pensiero, un abbraccio: e una preghiera per chi non è tornato». Sì, ci sono voluti sessant’anni a Silvano Lippi per raccontare. Raccontare la sua insofferenza per le adunate fasciste, il suo richiamo alle armi nel 1937, l’invio sul fronte greco-albanese. Il 25 luglio del 1943 arriva la notizia della caduta del fascismo e l’ordine di spostarsi a Rodi, dove il battaglione di Silvano prende contatto con la Resistenza greca. E a questo punto, ecco che i tedeschi accerchiano gli italiani, li minacciano con le armi al grido di «traditori!», li fanno prigionieri. E comincia la fame, tremenda. Ecco un mulo cadere e rompersi le zampe anteriori. I tedeschi lo finiscono a colpi di pistola, ordinando agli italiani di sotterrarlo. Di notte, i soldati tornano sul luogo, lo dissotterrano e con i coltelli che sono riusciti a nascondere ne fanno cibo. Ecco un tentativo di fuga verso la Turchia. Il gruppo si dirige verso il punto fissato ma Silvano ha dimenticato il suo accendino portafortuna al campo, torna a prenderlo e quando raggiunge di nuovo i suoi compagni, vede da lontano che sono stati tutti eliminati dai tedeschi che li hanno scoperti. I superstiti vengono trasferiti a Lero e incomincia una esistenza allucinante: «La carenza di cibo – racconta Silvano – a cui eravamo sottoposti, accompagnati dal sudiciume che ci circondava, aveva su di noi effetti inimmaginabili. Vedevo la carne spaccarsi ed aprirsi in piaghe profonde, tutto il corpo era diventato calda dimora dei pidocchi…». Trasferito al Pireo, ecco l’incontro con alcuni militari italiani che gli propongono di aderire alla Repubblica di Salò: Silvano, al colmo della rabbia, ne colpisce uno con una pietra. Lo massacrano di botte, lo chiudono in uno sgabuzzino dove è costretto a restare in piedi. «Ancora non sei morto?», gli gridano, dopo una giornata passata lì dentro, brutalizzandolo sullo stomaco con uno scarpone: «Questo non è niente in confronto a quello che ti aspetta!». Lo aspetta un vagone merci, insieme con altri italiani, con ebrei, zingari. Lo aspetta un viaggio di 10 giorni, senza cibo né acqua, fino ad un lager della Turingia. E un lavoro pesante, alla costruzione di rifugi antiaerei. Inutile descrivere il cibo-brodaglia e le baracche-dormitorio. Inutile descrivere la cattiveria degli aguzzini. Poi il trasferimento a Mauthausen, il terribile lager in terra d’Austria simile ad una fortificazione, costruito con la morte di centinaia di deportati. E con una cava di marmo e una scala di 186 gradini che i deportati devono salire carichi di pietre. Chi non ce la fa, viene scaraventato giù dalla parte più alta, in uno strapiombo e il più delle volte questo è il risultato del sadismo delle guardie naziste. A Mauthausen si lavorava anche per le industrie di guerra. Spesso fuori dal campo, dopo lunghe marce durante le quali i ragazzini del luogo lanciavano sassi e grida di scherno. «Mauthausen era un luogo di morte – ricorda Silvano –. Tutti quelli che vi entravano erano già destinati a morire di fame, di lavoro, di botte e torture, di malattie o assassinati dalle guardie. Era solo questione di tempo: prima o dopo il traguardo sarebbe stato per tutti lo stesso… Quando i guardiani urlavano «schnell schnell» ci si doveva mettere in fila a loro disposizione: «Tu malato, tu kaputt, tu crematorio!». Molti erano in fin di vita, altri strisciavano come animali feriti, nudi o coperti di stracci, divorati dai parassiti e dalle infezioni. I guardiani dicevano: «Questa sera saranno già fumo». Inutile scendere in altri dettagli. Sono storie che già conosciamo ma ogni volta aggiungono particolari nuovi e tremendi. Silvano Lippi ce la fece a non diventare fumo e riuscì a tornare a casa. Si salva perché una cassa di legno lo protegge dai colpi sparati dai nazisti che hanno ucciso i suoi compagni. I tedeschi erano in fuga per l’arrivo degli americani e non hanno controllato che tutti fossero morti. Dunque, finito lo strazio, le sofferenze fisiche e morali, l’umiliazione? Credo invece che il peggio venga adesso, dopo 39 mesi di prigionia (e 39 mesi è il titolo del libro pubblicato da Multimage nella collana “I libri dei diritti umani”). «Quando nel 1945, finita la guerra, tornai a Firenze – scrive Lippi – iniziò un periodo di grande sofferenza. Per non dimenticare cominciai a stendere degli appunti su quello che mi era successo: li tenevo in un cassettino della scrivania nella mia casa di via Falcucci. Scrivere mi sembrava importante. Cominciai anche a raccontare. Nessuno sapeva, e l’incredulità e il silenzio era spesso la risposta ai miei racconti che non dovevano sembrare veri. Forse tacendo cercavano di non deludermi, di non farmi sembrare pazzo o allucinato, ma vedevo la perplessità e l’incredulità sui visi della gente. Tanti venivano a cercarmi per avere notizie di loro cari che non erano tornati, ma non ho potuto accontentare nessuno. Spinto da una parte dalla voglia di rituffarmi nella vita e dall’altra dalla sofferenza che provavo nel ricordare, strappai gli appunti forse pensando così di poter chiudere col passato…». C’è voluta la pazienza di Massimo Giorgetti perché Silvano ricostruisse quei 39 mesi. È andata così. Una sera Massimo, nel corso di una tavolata alla quale partecipa anche Silvano Lippi, racconta una visita al lager di Dachau. Silvano commenta: «Anch’io sono stato da quelle parti, ma non per turismo». Tutti restano di sasso e lo invitano a raccontare. E Silvano, che voleva dimenticare, racconta e poi torna a Mauthausen nel 2002 e nel 2003, prima con la famiglia, poi con alcuni amici. All’interno di una baracca, racconta cos’era il lager. Una coppia ascolta da lontano. Poi si avvicina. «Lei parla italiano con un accento tedesco – scrive Massimo Giorgetti – e dice: “Ci permetta di chiederle scusa per tutto quello che ha passato… e se può ci perdoni”». Alla fine della lettura, anch’io chiedo perdono a Silvano Lippi, perché non ho mai saputo ascoltare quello che aveva da dire. Forse ero troppo giovane per farlo, ma altri no. Avevano l’età e non l’hanno fatto. Perché?

Patria indipendente, maggio 2007

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