Patria indipendente

Ancora sui libri di Bruno Vespa e Andrea Tornielli

Reticenze e disinformazione: strategia contro la Resistenza

La sentenza che ha assolto Bentivegna per via Rasella. La vicenda dei rapporti tra nazisti occupanti e il Vaticano

di Luca Baiada

Magistrato

 

In tempi in cui la testa vuota è open mind, e la guerra peace-keeping, la mistificazione è memoria condivisa. I miti contro i partigiani, sono antichi come la Resistenza. La più famosa delle sue azioni, l’attacco in via Rasella, Roma 23 marzo 1944, è mistificata subito, col dispaccio dell’agenzia Stefani per cui «la vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani», e con la voce per cui un comunicato avrebbe offerto ai partigiani di consegnarsi, per evitare il massacro alle Fosse Ardeatine. Nella primavera del 1996, mentre inizia il processo Priebke (cioè il primo dibattimento in primo grado, quello poi annullato dalla Cassazione a causa del fatto che il presidente del Tribunale militare si è espresso prima di essere investito del processo), ricominciano le offese contro quei partigiani, bersagli preferiti in tutta la Resistenza italiana (i più ambìti fra loro, Rosario Bentivegna e Carla Capponi). Primeggia il Giornale, anche con la fotografia della testa mozza di un adolescente, per colorare di atrocità l’attacco partigiano, accompagnata da un commento ostile al Cln. Secondo il Giornale, i partigiani uccisero sette civili e accettarono di far morire l’adolescente, e Priebke non era peggiore dei partigiani Bentivegna e Capponi, che hanno agito «allo scopo di provocare la rappresaglia tedesca e la sollevazione popolare». Ancora, secondo il Giornale, fu chiesto ai partigiani di consegnarsi ai tedeschi per cercare di impedire o di circoscrivere la rappresaglia, ai partigiani era noto il multiplo di dieci italiani per ogni tedesco, e via Rasella e le Fosse Ardeatine si equivalgono. Rosario Bentivegna agisce in sede civile, la Corte d’Appello di Milano con la sentenza 14.5.2003 n. 1937 gli dà ragione e condanna ai danni Feltri, Chiocci e l’editore. La Corte è esplicita: la fotografia della testa mozza è falsa; i militari attaccati dai partigiani a via Rasella non erano né italiani, né anziani, né disarmati; i civili morti nell’attacco furono due, non di più; non furono diffusi comunicati con inviti a presentarsi. I condannati ricorrono per Cassazione, ma la Corte con la sentenza 23.5.2007 n. 17172 rigetta i ricorsi. Le pronunce di Appello e di Cassazione fanno pulizia di certe menzogne. La più insistente, quella del comunicato con l’invito a presentarsi, già smentita e smontata (le pagine più attente, in Portelli, L’ordine è già stato eseguito). Limpida sul piano giudiziario, anche se non del tutto appagante nella motivazione di Cassazione, la chiusura della causa fra Bentivegna e i giornalisti non ferma lo stravolgimento dei fatti. Esso condiziona – metto da parte la lettera su Il Tempo del 10.8.2007 col titolo Via Rasella, memoria corta, che ripercorre argomenti superati – anche opere di larga diffusione. Eccone due con codice a barre Mondadori. Anzitutto, il libro di Andrea Tornielli, collaboratore de il Giornale e di Radio Maria, su Pio XII (Pio XII. Eugenio Pacelli, Un uomo sul trono di Pietro, 2007). A p. 430: «Nello stesso pomeriggio del 23 marzo [giorno dell’attacco a via Rasella], e per tutto il giorno successivo, la popolazione di Roma viene avvertita dalle autorità tedesche, attraverso automobili fornite di altoparlanti, che ci sarebbe stata una pesante rappresaglia se gli attentatori non fossero stati catturati o non si fossero consegnati. Agli stessi gappisti non è ignoto che fin dal primo giorno dell’occupazione tedesca di Roma le autorità del Reich avevano fatto sapere che, per ogni soldato o cittadino tedesco ucciso in azioni partigiane, sarebbero stati fucilati dieci italiani». Riecco due fra i più importanti miti: quello del comunicato per la presentazione, e quello del proprio dieci italiani per ogni tedesco. Il primo, è ormai impresentabile nella versione del comunicato coi manifesti e in quella del comunicato per radio: convulse ricerche di copie, registrazioni e resoconti sono state inutili. Eccolo allora nella versione altoparlantesca, e resta da approfondire l’origine di questa variante, che sembrerebbe aggirare l’impossibilità di dimostrazione. Se mai valesse la pena inseguire il mito, si potrebbe osservare qualcosa. Tornielli pare riferirsi ad altoparlanti con amplificazione elettrica, e non a semplici coni a megafono («fornite di altoparlanti» sarebbero le automobili). Specialmente se elettrici, apparecchi di quel tipo – all’epoca non di uso comune – avrebbero lasciato traccia nella minuziosa documentazione militare tedesca. Lutz Klinkhammer, fra i più qualificati studiosi in materia, autore di pubblicazioni che hanno comportato l’esame proprio della documentazione d’archivio delle forze tedesche a Roma, mi ha dichiarato di non aver reperito nulla che faccia pensare al possesso di strumenti del genere. Poi, il libro di Bruno Vespa Storia d’Italia dal 1940 a oggi, 2007. Primo volume di una serie, è posto in vendita nelle edicole al prezzo di un paio di biglietti del bus. A p. 106: «Nel momento stesso in cui metteva i tredici chili di tritolo nel bidone della spazzatura, Bentivegna sapeva che tanti italiani sarebbero stati uccisi per rappresaglia. Egli ha ragione nel sostenere che il rapporto di dieci a uno è criminoso, ma era noto da tempo, tragicamente inevitabile e perfettamente previsto dagli attentatori». Un insieme di reticenze, di errori e di elementi che si danno per scontati. Si attribuisce la confezione della bomba a Bentivegna, mentre furono altri partigiani, e si esprime la quantità di esplosivo col numero 13, sbagliato (erano 18 chili) e carico di allusioni negative. Si tace che i partigiani usarono anche bombe a mano e armi da fuoco, e l’attacco appare meno coraggioso (come al solito, campeggia il dettaglio della spazzatura). Si dà per scontato che l’eccidio alle Fosse Ardeatine non ci sarebbe stato senza via Rasella, mentre la storiografia e la giurisprudenza più mature hanno conquistato la consapevolezza che la politica del massacro era nella strategia di occupazione usata dalla Germania, a prescindere dalla Resistenza. Sul punto, sono importanti gli studi di Battini, Gentile, Klinkhammer, Pezzino, Schreiber, e le pronunce: Trib. mil. La Spezia, 28.9.2006 n. 43, imputato Stommel; Trib. mil. La Spezia, 10.10.2006, imputato Milde; Trib. mil. La Spezia 3.11.2006, dep. 12.2.2007 n. 50, imputato Nordhorn; Trib. mil. Torino, 13.11.2006, imputato Dosse; Corte mil. Appello Roma, 21.11.2006, imputato Sommer. Ma un riferimento al terrorismo, quello dell’occupante, era anche in un precedente remoto: Trib. mil. Territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, imputato Reder. Del resto, gli eccidi commessi dai tedeschi cominciano prima che la Resistenza abbia compiuto le sue azioni più efficaci: il primo di quelli giudicati è l’eccidio di Caiazzo del 13 ottobre 1943 (Corte di Assise S. Maria Capua Vetere, 25.10.1994, imputato Lehnigk Emden), ma ve ne sono di precedenti, mai giudicati, alcuni persino prima della caduta del fascismo. Ancora, Vespa dà per scontato che l’eccidio delle Fosse Ardeatine sia stato una rappresaglia. E afferma – l’ineluttabilità copre ciò che si vorrebbe porre fuori discussione – come il rapporto di dieci a uno fosse noto e previsto dagli attentatori, e fosse «tragicamente» inevitabile. Già, perché il libro di Vespa pone quel rapporto per titolo di un paragrafo (Dieci italiani per ogni tedesco ucciso), e a p. 98 dice: «Il comandante in capo della Wehrmacht per il Mediterraneo, Wilhelm Keitel, aveva fatto affiggere manifesti intimidatori annunciando che sarebbero stati fucilati dieci italiani per ogni soldato tedesco ucciso». Invece, quanto a una specifica regola di proprio dieci per ognuno, pubblicizzata e impartita in via generale alle forze armate tedesche in tutta l’Italia occupata, per tutta la durata dell’occupazione, cioè quanto a una regola generale e fissa, diversa da ordini limitati nel tempo e nello spazio, l’esistenza di una regola proprio in questi termini non è dimostrata, ed anzi essa manca nei più importanti provvedimenti generali riguardanti l’Italia, come è stato affermato anche dal Trib. mil. La Spezia 3.11.2006, dep. 12.2.2007 n. 50, imputato Nordhorn (in rete,http://www.difesa.it/giustiziamilitare/rassegnagm/processi/heinrichnordhorn). Di fatto, degli eccidi commessi in Italia, molti non sono affatto successivi a morte di tedeschi; molti di quelli che lo sono, hanno vittime in numero anche superiore al multiplo dieci (sino al multiplo settanta, ed oltre). A volte è stato applicato il multiplo dieci, ma ciò non ha ubbidito a una regola giuridica vigente, e questo li rende ancora più gravi. Chi ha commesso gli eccidi non ha né una scusante (quella regola sarebbe stata criminosa), né un’attenuante: quella regola non esisteva. Eppure, il mito dieci italiani per ogni tedesco continua a essere ripetuto, anche da partigiani e antifascisti. Nel doloroso ricordo di massacri veri, molti o ricordano comunicati locali (spesso dal contenuto vago o dubbio), o credono di rammentare regole che sono frutto dell’elaborazione interiore di un vissuto terribile, miti che rendono appena sopportabili cicatrici sconvolgenti. Massacri veri, hanno creato ricordi di regole che non lo sono. Se la loro memoria frammentaria o inesatta è comprensibile, non lo è Vespa. Peggio. Ci sono bugie con le gambe corte. Ma qui ce n’è una che non ha capo. Wilhelm Keitel non è mai stato comandante della Wehrmacht per il Mediterraneo, ed anzi una carica di «comandante in capo della Wehrmacht per il Mediterraneo» non è mai esistita. Keitel è stato, per tutte le forze armate, capo dell’Oberkommando der Wehrmacht, come conferma la sentenza di Norimberga. I massimi comandanti per l’Italia, invece, sono stati prima Rommel, poi Kesselring. Dalla creativa frase di Vespa scaturiscono un ufficio, una persona titolare, una regola generale e fissa, un manifesto, un’affissione. Sin dal tempo dell’occupazione si arruffano miti, spesso con qualche dettaglio, in cui magari si inciampa. Purtroppo, il bisogno di credere che la violenza risponda a un principio, a un criterio che la renda meno penosa, offre poi un supporto emotivo. Smentire gli stravolgimenti della realtà è importante. Ma limitarsi al passato rischia di trasformarsi in una trappola, una diatriba di memoria condivisa. Può invece essere più interessante qualche elemento, oltre al fatto che i libri di Tornielli e di Vespa sono della stessa fucina editoriale. Nel 1944 il papa è Pio XII. Montini è ai vertici della segreteria di stato, capeggiata da Maglione (Maglione muore nell’agosto 1944; alcuni elementi sottolineano l’importanza di Montini durante l’occupazione di Roma, mentre Maglione è vivo); Montini è in alto dagli anni Venti, ed è stato nominato cappellano della Fuci; nel 1937 il segretario di stato Pacelli gli ha affidato un incarico di sostituto, confermato nel 1939, quando Pacelli diventa papa Pio XII e Maglione diventa segretario di stato. Nel 1944 Giulio Andreotti è a contatto con De Gasperi, ed è ai vertici della Fuci, per volere di Pio XII, su proposta di Montini. Nel 1947, a insistere con De Gasperi affinché Andreotti assuma un incarico nel governo, è Montini. Ancora. Negli anni Sessanta cresce una presa di coscienza sulla reale politica vaticana nei confronti del nazifascismo. Ha un ruolo importante anche il dramma Il Vicario di Hochhuth. Montini nel maggio 1963, pochi mesi dopo la sua rappresentazione, prende le difese di Pio XII. Giovanni XXIII muore il 3 giugno 1963. Il 21 giugno, Montini diventa papa, e presto caldeggia la causa per Pio XII. Nel 1967 nomina cardinale Wojtyla. Wojtyla, divenuto papa, alla Congregazione della dottrina per la fede nomina nel 1981 Ratzinger prefetto, e nel 1995 Tarcisio Bertone segretario. Dopo la comparsa del libro Morte a Roma e del film Rappresaglia, si svolge un lungo processo contro lo scrittore Robert Katz, il produttore Carlo Ponti e il regista Georges Cosmatos, accusati di diffamazione nei confronti di Pio XII. La prima condanna, quella contro i tre imputati (le loro posizioni prendono poi altre strade), è del novembre 1975, e afferma che la modifica dell’articolo de l’Osservatore romano nel 1944, dopo le Fosse Ardeatine, in senso sfavorevole alla Resistenza (è l’articolo in cui i partigiani sono «i colpevoli sfuggiti all’arresto») era opera della segreteria di stato vaticana: «appare chiaro da chi poté provenire quella forma di censura, peraltro dettata da alto senso di responsabilità e non da basso opportunismo». Nel 1975, il papa è Montini. Herbert Kappler evade nel 1977, mentre il presidente del consiglio è Andreotti, e il papa è ancora Montini, che nello stesso anno nomina Ratzinger cardinale. Sentito in appello come testimone nel processo contro Katz, Andreotti sostiene che Pio XII non andava d’accordo coi nazisti, e dichiara che il papa avrebbe ordinato la distruzione dei documenti provanti il suo aiuto a ebrei o perseguitati politici, temendo arresto e deportazione. A sostenere in anni recenti che durante la Resistenza De Gasperi si sarebbe espresso sfavorevolmente, riguardo all’attacco partigiano a via Rasella, è Andreotti (lo conferma Bruno Vespa). La pagina della posta per Il Tempo (dove il 10.8.2007 compare la lettera Via Rasella, memoria corta), si chiama «lettere a Il Tempo, risponde Giulio Andreotti». A presentare il libro di Tornielli a Roma, sono Andreotti e il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone (moderatore, Bruno Vespa). A sostenere che Pio XII dava ordini a voce, o con circolari che si dovevano poi distruggere, è Tarcisio Bertone. Nel 2001, 30 giorni. Nella Chiesa e nel mondo, periodico diretto da Andreotti, difendendo Pio XII pubblica una testimonianza nella causa canonica per Pio XII, resa nel 1972 da Otto Wolff, già generale SS in Italia: «Desidero la beatificazione di papa Pio XII – dice l’SS Wolff – perché, in un’udienza segreta del 10 maggio 1944, ho imparato a conoscerlo come un uomo del tutto straordinario e a venerarlo». Nel 1972, il presidente del consiglio è Andreotti. Bertone è nominato cardinale da Wojtyla nel 2003. Nel 2005 Ratzinger diventa papa, e nel 2006 nomina segretario di stato Bertone. Nel 2007 la causa per Pio XII ha nuovo impulso. Nell’eco di contiguità politiche e ambientali, le tesi nocive alla Resistenza suonano su un unico diapason, quello dei settori conservatori e filovaticani. La mancata insurrezione di Roma, cui ha contribuito anche la politica del massacro perpetrata con le Fosse Ardeatine, è stata uno degli strumenti di transizione fra garanzie fasciste e naziste per lo Stato Vaticano e garanzie per lo stesso Stato Vaticano dopo la liberazione. Nel 1944, lo Stato Vaticano aveva un passato breve: era nato con il Concordato. Lo Stato italiano unitario era esistito per la maggior parte della sua durata senza coesistere con quello Stato; oggi, è l’opposto. Ora è più difficile percepire come nel 1944 la sopravvivenza di quell’assetto alla guerra, e soprattutto al fascismo che l’aveva consentito, non fosse affatto scontata come appare oggi al più grigio buonsenso. Anche per questo, e non solo per avversione nei confronti della Resistenza, al compiacimento per lo scampato pericolo (lo Stato Vaticano è ancora lì) si aggiunge un imbarazzo per il sacrificio umano delle Fosse Ardeatine, che si risolve in proiezione della colpa sui partigiani. Lo Stato Vaticano è salvo, il potere temporale del papa è salvo, l’ordine è ristabilito («Quest’ordine è già stato eseguito», dice il comunicato Stefani), i militari tedeschi uccisi a via Rasella e le persone massacrate alle Fosse Ardeatine sono rispettivamente «trentadue vittime» e «trecentoventi persone sacrificate» (così l’articolo su l’Osservatore romano subito dopo i fatti). E i colpevoli? I colpevoli sono i partigiani (per l’Osservatore romano, «i colpevoli sfuggiti all’arresto»). Un monumento mitologico che ne ricalca uno più remoto: la crocifissione salva, ma la colpa è degli ebrei. Dal 1944, al posto dell’inferno c’è la fine dello Stato Vaticano, al posto dei perfidi giudei c’è la Resistenza (per l’agenzia Stefani, elementi criminali e banditi scellerati). L’Italia unita e repubblicana è quindi il peccato originale, la caduta che offende e incrina il potere temporale del papa; la politica nazifascista del massacro è il sacrificio, i partigiani sono il tentato papicidio errante. Non è dunque una questione di memoria, né condivisa, né senza divisa, né con la tonaca. È una questione di presente e di condizionamento del futuro, di equilibrio politico e di stabilità ideologica, quella che pretende l’ubbidienza a versioni manipolate dei fatti. Ostinata come la calvizie, una fucina presenta a suo modo la storia del secolo Ventesimo, per determinare quella del Ventunesimo. Su quella calvizie, un riporto prolunga chiome posticce che risalgono al 1944, ma con radici più vecchie della breccia di Porta Pia. Una macchina editoriale propone a basso prezzo il primo volume della serie di Vespa. Ma con due biglietti del trasporto pubblico, a Roma si va alle Fosse Ardeatine. Chi desidera comunicarmi qualcosa su bandi o comunicati – posseduti in copia, letti, anche solo ricordati – del genere dieci italiani per ogni tedesco, può contattarmi all’indirizzo lucabaiada@virgilio.it.

Patria indipendente, novembre 2007

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